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Giurisprudenza

Il ritorno della tesi del dies a quo dall’annotazione in conto

25 Febbraio 2016

Gemma Sicoli, avvocato, dottoranda di ricerca presso l’Università Parthenope di Napoli

Tribunale di Verona, sez. III, 27 ottobre 2015, Giudice Eugenia Tommasi di Vignano

Di cosa si parla in questo articolo

Premessa

Con la sentenza in commento il Tribunale di Verona il 27 ottobre 2015 tratta diversi profili rilevanti in materia di contenzioso bancario, tra le posizioni assunte dal Giudice veneto emerge l’aperto e netto contrasto con la nota sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite n. 24418/10 in materia di prescrizione del diritto alla ripetizione degli interessi illegittimamente applicati dalla banca al correntista (per scaricare il testo della sentenza del Tribunale di Verona cfr. contenuti correlati).

Il Giudice veronese è quanto mai diretto quando afferma che pur nella massima autorevolezza del precedente la pronuncia delle S.U. del 2010 non convince né in punto di partenza del ragionamento, né per quanto concerne le conclusioni. Di particolare interesse risulta la contestazione fatta alla distinzione operata dalle S.U. tra “rimesse in conto corrente di natura solutoria” e “rimesse di natura ripristinatoria”, attraverso articolati passaggi logico argomentativi il Giudice si allinea ad una tesi che aveva guadagnato spazio prima della pronuncia delle S.U. del 2010, ritenendo che la prescrizione dell’azione di restituzione delle somme illegittimamente addebitate al cliente decorra dalla annotazione in conto delle stesse. Il Giudice veneto si sofferma altresì su altre questioni di interesse in materia di diritto bancario quali: l’applicabilità dell’ dell’art. 1956 cod. civ. ai fini della liberazione del fideiussore e del relativo onus probandi. La pronuncia si sofferma poi anche sul tema dell’anatocismo, ponendosi stavolta in linea con quanto affermato dalle Sezioni Unite, e sull’usura, in relazione al calcolo del TEG come indicato dalle Istruzioni della Banca d’Italia nel regime anteriore alla L. n. 2 del 2009, soffermandosi infine: sulla nullità per indeterminatezza dell’oggetto della CMS, sull’onere della prova relativo ai flussi di denaro sul conto corrente bancario e sulla validità del mutuo di consolidamento.

Fatto

Il Tribunale di Verona si pronuncia sulla opposizione ad un decreto monitorio ottenuto da un istituto di credito presentata dal fideiussore di una S.A.S.. In particolare l’opponente chiede di accertarsi: la liberazione del fideiussore ex art. 1956 cod. civ. per violazione della buona fede da parte della banca nel mantenimento in essere della linea di credito nonostante il peggioramento delle condizioni patrimoniali della società debitrice; la nullità degli interessi ultralegali, anatocistici e usurari nonché della CMS applicati dalla banca sul conto corrente dall’accensione alla data di recesso della banca dal rapporto, con conseguente ricalcolo e rettifica del saldo; la nullità del contratto di doppio mutuo siglato dalla società debitrice. L’istituto di credito opposto, eccependo a sua difesa la prescrizione del credito restitutorio per le annotazioni/pagamenti eseguiti in data anteriore al decennio dalla notifica dell’atto di citazione, ha contestato nel merito la fondatezza di tutte le domande ed eccezioni attoree. Il Tribunale adito decide di per l’accoglimento parziale dell’opposizione del fideiussore ritenendo in particolare prescritta l’azione di ripetizione del correntista con riferimento ad ogni annotazione a debito precedente al decennio anteriore alla data della domanda giudiziale di quest’ultimo. Al fine di una completa disamina della pronuncia occorre ora soffermarsi sulla posizione assunta dal Tribunale in merito alle singole questioni sollevate.

La liberazione del fideiussore ex art. 1956 cod. civ.

In apertura il Tribunale si occupa della applicabilità alla fattispecie sub judice dell’art. 1956 cod.civ. ai sensi del quale “il fideiussore per un’obbligazione futura è liberato se il creditore, senza speciale autorizzazione del fideiussore, ha fatto credito al terzo, pur conoscendo che le condizioni patrimoniali di questo erano divenute tali da rendere notevolmente più difficile il soddisfacimento del credito”. Il Giudice veronese afferma a tal fine che:l’art. 1956 cod. civ. “realizza uno strumento di tutela del fideiussore da comportamenti contrari a buona fede della banca che, consapevole di poter fare comunque affidamento sul distinto patrimonio del garante, concede nuovo credito al debitore, successivamente al rilascio della fideiussione e senza l’autorizzazione del garante, pur essendo a conoscenza del significativo peggioramento delle condizioni patrimoniali del debitore medesimo”. Inoltre ad opinione del medesimo giudice “rientra nell’onus probandi del fideiussore che eccepisca la propria liberazione ex art. 1956 cod. civ. la dimostrazione del duplice requisito della concessione di nuovo credito da parte della banca (requisito oggettivo) e della consapevolezza della banca stessa del significativo peggioramento delle condizioni patrimoniali del debitore (requisito soggettivo)”. Ad avviso di questo Tribunale l’art. 1956 cod. civ. non risulterebbe dunque applicabile in quanto la ratio di tale norma conterrebbe quale presupposto implicito il dato che lo stesso fideiussore non sia a conoscenza del peggioramento delle condizioni economiche del debitore che invece sarebbero conoscibili dalla banca. Nel caso di specie, la situazione di tensione finanziaria che aveva caratterizzato l’impresa affidata, pur imponendo un prudente monitoraggio da parte della banca, non viene qualificata come indice tale da imporre alla banca stessa la repentina revoca degli affidamenti. Inoltre la concessione di nuovo credito da parte del creditore ex art. 1956 cod. civ. si ritiene assuma rilevanza rispetto alla liberazione del fideiussore soltanto nei casi nei quali essa si traduca in una violazione del dovere di solidarietà contrattuale gravante sul creditore, nella cui osservanza trova realizzazione l’obbligo del creditore di comportarsi secondo il canone della buona fede nell’esecuzione del contratto di garanzia. Sicché, in assenza di indici specifici che il nuovo credito è concesso al debitore in danno del fideiussore, cioè nonostante la consapevolezza del creditore del sopravvenuto rischio di insolvenza del garantito, il Tribunale ritiene da escludersi che il consentire temporaneamente e prudenzialmente da parte della banca la prosecuzione del rapporto senza interromperlo in via di autotutela e, quindi, senza impedire gli atti di utilizzazione della provvista da parte del debitore, integri di per sé un comportamento contrario a buona fede, dovendo semmai ritenersi contraria a buona fede la repentina revoca da parte della banca di ogni affidamento o linea di credito alla prima comparsa di indici di debolezza finanziaria del debitore non univoci e potenzialmente leggibili come sintomatici di una condizione di temporanea o comunque superabile difficoltà dell’impresa. La decisione del giudice adito si pone su un solco già tracciato da precedenti pronunce dello stesso Tribunale (cfr. Trib. Verona 10 settembre 2013) ove si richiede ai fini della liberazione del fideiussore sia il requisito oggettivo della concessione da parte della creditrice di nuovo credito al debitore, sia il requisito soggettivo della consapevolezza della creditrice di un significativo peggioramento della condizione patrimoniale del debitore. È dunque pacifico che non integra tale consapevolezza la conoscenza di un periodo di tensione finanziaria che caratterizza la correntista. Dunque risulta necessario per integrare i presupposti del 1956 cod. civ. la violazione dei principi generali di solidarietà e buona fede.

Prescrizione dell’azione di ripetizione dell’indebito del correntista: dies a quo dall’annotazione a debito, il contrasto con le SS.UU..

Il Tribunale di Verona si occupa, come anticipato, della prescrizione dell’azione di ripetizione dell’indebito del correntista.Come noto, il correntista può pretendere secondo la regola generale dettata dall’art. 2033 cod. civ. la restituzione degli interessi anatocistici e di qualsiasi posta non dovuta che gli sia stata illegittimamente addebitata dalla banca. La sentenza in esame si sofferma proprio su tale aspetto affermando che il termine di prescrizione decennale dell’azione citata decorre dalle singole chiusure periodiche del conto. Al fine di meglio comprendere la questione occorre fare qualche passo indietro. Il dibattito sull’individuazione del dies a quo da cui far giurisprudenza come conseguenza del revirement della Cassazione del 1999 in materia di anatocismo bancario e dei successivi interventi del legislatore e della Corte Costituzionale.

Sul punto in giurisprudenza, prima dell’intervento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con sentenza n. 24418 del 2010, vi era un contrasto tra due diversi orientamenti. Secondo una prima impostazione il dies a quo era da individuare nella data di chiusura del conto, in virtù della natura unitaria del contratto di conto corrente bancario che rendeva le singole operazioni di prelievo e versamento una pluralità di atti esecutivi giuridicamente irrilevanti. Solo con l’operazione di chiusura del conto i rapporti di credito e di debito si cristallizzavano tra le parti facendo sorgere in quel momento il diritto alla ripetizione di quanto illegittimamente trattenuto dalle banche.

Accanto a tale impostazione ve ne era una diversa, sostenuta da una parte della giurisprudenza ad avviso della quale il termine di prescrizione per la restituzione degli interessi non dovuti decorreva dal momento in cui il cliente avesse corrisposto il pagamento o gli fossero stati addebitati gli interessi sul conto. Per tale tesi anche i singoli atti di esecuzione del rapporto sarebbero stati dunque rilevanti ai fini della decorrenza della prescrizione. Il versamento effettuato dal cliente o l’annotazione dell’addebito in conto, determinando una variazione del saldo, costituivano, per tale avversa impostazione, un vero e proprio pagamento. Tale tesi richiamando l’art. 2935 c.c. ai sensi del quale: “la prescrizione decorre dal momento in cui il diritto può essere fatto valere”, riteneva che il termine di decorrenza dell’azione di ripetizione andava individuato nell’annotazione, che costituiva il momento attuativo del pagamento indebito.

Gli orientamenti che si contendevano il campo conducevano a delle conseguenze differenti e sotto certi punti di vista anche incongruenti. Secondo la prima impostazione il momento in cui poteva essere fatto valere il diritto, che coincideva ai sensi dell’art. 2935 c.c. con il dies a quo del termine di prescrizione, era quello della chiusura del conto, con la conseguenza che, in costanza del rapporto di conto corrente, l’azione di ripetizione non poteva essere esercitata; tuttavia, la giurisprudenza maggioritaria era di contrario avviso e riteneva l’azione ammissibile anche prima della chiusura del conto.

Inoltre, seguendo la prima tesi, il correntista che agiva nei confronti della banca nel termine di dieci anni dalla chiusura del conto poteva ottenere la restituzione di pagamenti indebiti risalenti nel tempo fino al momento dell’apertura del conto; nel secondo caso, invece, erano ripetibili unicamente i versamenti fatti nei dieci anni precedenti all’evento che aveva interrotto la prescrizione.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione nel 2010 accolgono una soluzione “mediana” tra le due opposte interpretazioni fondata sulla differenza tra versamenti che hanno natura solutoria e quelli che non hanno tale natura; per farlo prendono in prestito dalla giurisprudenza fallimentare la distinzione tra “atti ripristinatori della provvista” e “atti di pagamento”. La Corte in modo del tutto innovativo precisa riguardo alla decorrenza della prescrizione che, se il conto corrente è assistito da apertura di credito, e qualora i versamenti compiuti abbiano avuto solo funzione ripristinatoria della provvista, la prescrizione decorre dalla “data in cui è stato estinto il saldo di chiusura del conto in cui gli interessi non dovuti sono stati registrati”; tuttavia, se al conto non accede alcuna apertura di credito oppure se il conto è in passivo, i versamenti effettuati sullo stesso hanno natura solutoria e, pertanto, il dies a quo di decorrenza della prescrizione coincide con la data del versamento solutorio.

La Cassazione, dunque, si discosta dalle argomentazioni su cui si basava la precedente giurisprudenza: la natura unitaria del rapporto giuridico derivante dal contratto di conto corrente bancario da sola non costituisce un elemento decisivo per l’individuazione del dies a quo dal quale decorre la prescrizione. La decisione della Corte si focalizza, di contro, sul concetto di pagamento indebito: il diritto alla ripetizione nasce quando questo viene effettuato e contemporaneamente, in ossequio con quanto disciplinato dall’art. 2935 c.c., inizia a decorrere la prescrizione. Il pagamento secondo le Sezioni Unite consiste “nell’esecuzione di una prestazione da parte di un soggetto (il solvens), con conseguente spostamento patrimoniale in favore di altro soggetto (l’accipiens)”. Ne discende, ad avviso della Suprema Corte, che l’addebito in conto degli interessi non costituisce, in ogni caso, un pagamento; pertanto, il dies a quo della prescrizione non può coincidere con l’annotazione in conto dell’addebito.

Il Tribunale, nella sentenza in commento, esprime dei dubbi sulla soluzione individuata dalle Sezioni Unite della Cassazione. Secondo il Giudice veronese, infatti, della pronuncia della Suprema Corte non convince né il punto di partenza del ragionamento che pone al centro dell’indagine ricostruttiva la “fenomenologia” del rapporto di apertura di credito regolata in conto corrente, né l’affermazione conclusiva, fondata sulla distinzione tra rimessa solutoria e rimessa ripristinatoria, secondo la quale in presenza di apertura di credito in conto corrente il termine prescrizionale dell’azione decorre dalla chiusura del conto ogni volta in cui sia configurabile un versamento intra fido del correntista”.

Prima di approfondire tale problematica, il Tribunale adito si sofferma sulla applicazione del principio generale secondo il quale la proposizione della domanda giudiziale ha efficacia interruttiva della prescrizione ai sensi degli artt. 2943 e 2945 cod. civ. con riguardo a tutti i diritti che siano collegati da un nesso si causalità al rapporto che ne è oggetto.

Il Giudice veronese, posta la distinzione tra l’azione di nullità, imprescrittibile, e l’azione di ripetizione dell’indebito, che si prescrive decorso il termine di 10 anni, ritiene che anche la domanda giudiziale del correntista di accertamento negativo del credito della banca (intimamente connessa a quella di rettifica del saldo) interrompa la prescrizione della eventuale domanda restitutoria della prestazione eseguita dal cliente in esecuzione del negozio nullo, essendo quest’ultima una domanda strettamente conseguenziale a quella di accertamento della nullità.

Il Tribunale a questo punto, ponendosi in linea con quanto affermato anche dalle SS.UU. della Cassazione ritiene che la natura unitaria del rapporto di conto corrente non è elemento decisivo al fine di individuare nella chiusura del conto il momento da cui debba decorrere il termine di prescrizione. Inoltre lo stesso Giudice contesta la distinzione operata dalla Cassazione tra rimessa solutoria e rimessa ripristinatoria in conto corrente bancario cui accede una apertura di credito, ritenendo infatti che queste categorie adoperate della giurisprudenza fallimentare per individuare le operazioni da assoggettare a revocatoria non sono mutuabili in una situazione dove il correntista è in bonis dove dunque non si pongono esigenze di tutela della par condicio creditorum.

Inoltre ad avviso del Giudice adito non è convincente il ragionamento della Corte incentrato sul “versamento” atteso che il correntista chiede in primo luogo l’accertamento della nullità delle clausole contrattuali in forza delle quali è stata effettuata l’annotazione in conto delle poste passive e, solo nel caso essa sia accertata, la ripetizione delle somme indebitamente pagate. Il Tribunale prende dunque posizione nell’individuazione del dies a quo da cui far decorrere il termine di prescrizione dell’azione di ripetizione individuandolo nella annotazione a debito in conto corrente.

Il Giudice adito ritiene che il contratto di conto corrente possa configurarsi astrattamente quale un rapporto divisibile in più segmenti, ognuno dei quali individuabile come il periodo che intercorre tra l’una e l’altra liquidazione periodica, che, secondo la prassi bancaria invalsa in epoca precedente alla delibera CICR del 2000, corrisponde alla chiusura trimestrale del conto finalizzata al riporto periodico in conto degli interessi e delle competenze maturate sulle somme oggetto di affidamento e alla rendicontazione delle prestazioni rese dalla banca al correntista.

Siffatto assunto si basa sul combinato disposto degli articoli 1832 e 1857 cod. civ. in cui viene fatto espresso richiamo alla “liquidazione di chiusura del conto”, ovvero alla chiusura periodica. Questo consente al Tribunale di superare l’impostazione delle SS.UU. affermando che la stessa attività della banca di regolazione in conto corrente ad ogni chiusura periodica del conto determina un “pagamento” che realizza uno spostamento patrimoniale dal correntista a favore della banca integrante ove manchi la causa giustificativa un pagamento indebito. A questo punto il Tribunale prosegue nel ragionamento ritenendo che al centro della disamina va posto il contratto di conto corrente bancario la cui chiave di lettura è contenuta nell’art 1852 cod. civ. a tenore del quale “il correntista può disporre in qualsiasi momento delle somme risultanti a suo credito” ciò comporta che l immediata disponibilità del saldo del conto corrisponde per la moneta bancaria alla fisica e immediata disponibilità della moneta legale. Dunque il fulcro dell’indagine va spostato sulla annotazione in quanto: “la sequenza di annotazioni – incidendo sul saldo disponibile del conto, che si modifica di momento in momento – determina uno spostamento patrimoniale immediato dal correntista in favore della banca, cioè di fatto un ‘pagamento’ autonomo ed anticipato rispetto all’evidenza contabile che di esso offre l’estratto conto comunicato al correntista alla prima chiusura periodica successiva all’annotazione”. Il Tribunale di Verona si allinea con questa pronuncia all’orientamento minoritario formatosi in giurisprudenza prima della pronuncia delle SS.UU. del 2010 il quale, in materia di prescrizione del diritto alla ripetizione dell’indebito nascente da operazioni bancarie regolate in conto corrente, individuava come dies a quo l’annotazione dell’addebito in conto, in quanto, benché il contratto di conto corrente bancario fosse considerato come rapporto unitario, la sua natura di contratto di durata e la rilevanza dei singoli atti di esecuzione giustificavano tale conclusione. In particolare secondo l’impostazione appena illustrata gli atti di addebito e di accredito, fin dalla loro annotazione, producevano l’effetto di modificare il saldo e di determinare in tal modo la somma esigibile dal correntista.

La tesi sostenuta dal Giudice veronese trova le sue radici sulla qualificazione, da parte di alcuni autori, del conto corrente bancario come un rapporto dotato di una specifica natura autonoma e funzionale. Tale orientamento, partendo dal disposto dell’art 1852 cod. civ. inquadra la variazione del saldo indotta dall’annotazione fatta dalla banca a favore o a carico del cliente quale esplicazione del potere di disporre del cliente, andando ad incidere sulla quantità̀ delle somme a suo credito. Essa dovrebbe essere dunque considerata come vero e proprio pagamento del debito, della banca o del cliente. Alla annotazione in conto faceva peraltro testuale riferimento la novella di cui all’art. 2, 61°co., l. n. 10/2011 dichiarata successivamente incostituzionale. Chiare ed ovvie, come accennato, sono le conseguenze in sede di decorrenza della prescrizione dell’azione di restituzione dell’indebito pagamento: il dies a quo non può̀ che essere individuato nel giorno dell’annotazione su conto – e non nella chiusura definitiva dello stesso – risultando essa equiparata a tutti gli effetti ad un pagamento e non già̀ ad una mera operazione contabile. Ed è proprio ad una mera operazione contabile che, di contro, la riconduce la tesi maggioritaria in dottrina e giurisprudenza, nei confronti della quale questa pronuncia si pone come punto di contrasto che dimostra in ogni caso ancora l’attualità del dibattito sulla questione nonostante l’intervento delle Sezioni Unite della Cassazione che non paiono dunque averlo taciuto del tutto.

Anatocismo

In materia di anatocismo, il giudice condivide l’orientamento delle Sezioni Unite espresso con la sentenza n. 21095/04 in ordine alla illiceità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi contenuta in contratti anteriori alla delibera CICR del 2000 e si allinea con la sentenza delle Sezioni Unite del 2010 relativamente alla esclusione di qualsiasi forma di capitalizzazione in mancanza di nuova pattuizione. Il giudice rileva dunque la nullità delle clausole anatocistiche per tutta la durata del rapporto affermando che il saldo finale del conto va ricalcolato conteggiando gli interessi convenzionali senza alcuna capitalizzazione, in conformità a quanto affermato dalle Sezioni Unite nell’ultima sentenza citata sullo specifico tema della capitalizzazione.

Usura: calcolo del TEG come indicato dalle Istruzioni della Banca d’Italia nel regime anteriore alla L. 2/09

Il Tribunale adito si occupa altresì del metodo di calcolo del TEG in tema di usura, in particolare ritenendo che per il periodo precedente all’entrata in vigore della L. n. 2/09, non si debba ricomprendere in esso anche la CMS quale diretta applicazione del principio di cui all’art. 644, 4 comma cod. pen. poiché: la contraria ipotesi conduce alla ‘disapplicazione’ delle Istruzioni emanate dalla Banca d’Italia ai sensi dell’art. 2, comma 1, della legge n. 108/96, che espressamente escludono la CMS dal computo del TEG prevedendone la rilevazione separata, inoltre la stessa legge 108/96, nel rimettere all’autorità amministrativa ministeriale il compito del rilevamento periodico dei tassi, esige la rilevazione comparata di “…operazioni della stessa natura”, cioè di elementi omogenei tra loro, quali non sono gli interessi e la CMS. La Commissione citata infatti viene usualmente concepita come “…il corrispettivo pagato dal cliente per compensare l’intermediario dell’onere di dover essere sempre in grado di fronteggiare una rapida espansione nell’utilizzo dello scoperto del conto”; Ritenendo calcolabile nel TEG anche la CMS non si tiene inoltre conto del fatto che, riconosciuta nell’art. 644 una norma penale in bianco suscettibile di eterointegrazione per la determinazione del “…limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari”, sono gli stessi Decreti Ministeriali di rilevazione dei tassi usurari, emessi ai sensi dell’art. 2 della legge n. 108/96 e, quindi, integrativi della stessa norma penale (cfr. art. 644, 3 comma, cod. pen.), ad elevare a rango di legge il criterio tecnico della B.I.; Inoltre l’avversata ipotesi contrasta ad avviso del Tribunale di Verona con la ultima parte del 2 comma dell’art. 2 bis della legge n. 2/09, che ha previsto l’inclusione della CMS nel calcolo del TEG solo a partire dalla data dell’entrata in vigore della legge stessa, confermando per il periodo precedente la disciplina anteriormente in vigore.

CMS: nullità per indeterminatezza dell’oggetto

Ad avviso del Giudice le clausole di commissione di massimo scoperto debbono ritenersi nulle per indeterminatezza dell’oggetto ex art. 1346 e 1418 cod. civ. quando recano solo il valore percentuale della commissione rispetto allo scoperto del conto e la periodicità di calcolo, senza alcuna specificazione sul concreto meccanismo di funzionamento della commissione. Non viene indicato nel contratto in esame se la CMS vada riferita al montante utilizzato o alla provvista accordata, ovvero se l’indicata percentuale debba riferirsi al momento ‘x’ di punta massima dello scoperto ovvero a un periodo più prolungato di ‘n gg’ di tale scoperto ovvero ancora alla media dello scoperto distribuito su più giorni, etc..

La clausola risulta dunque per il Giudice adito pattuita in modo insufficientemente determinato e quindi difforme da quanto previsto dall’art. 1346 cod. civ. in materia di requisiti dell’oggetto del contratto, non consentendo al correntista di comprendere il concreto criterio di computo della commissione, il suo funzionamento e lo specifico impatto sui saldi trimestrali di chiusura periodica del conto.

Onere di documentare i flussi di denaro sul conto corrente bancario e art. 2697 cod. civ.

A norma dell’art. 2697 cod.civ. “chi vuol fare valere in giudizio un diritto ha l’onere di provarne i fatti costitutivi”. Da questa norma per il Tribunale di Verona si desume la regola secondo cui l’onere di documentare i flussi di denaro sul conto corrente bancario grava sull’attore in senso sostanziale, cioè su colui il quale fa valere la pretesa in giudizio, che nel giudizio monitorio risulta essere la banca ricorrente sulla quale grava l’onere di produrre non solo la documentazione contrattuale inerente il rapporto fatto valere in giudizio ma anche tutti gli estratti conto, rappresentativi dei flussi finanziari sul conto, cioè il dettaglio crono-contabile del credito azionato.

Validità del finanziamento concesso per ripianare una pregressa esposizione di conto corrente la cui causa si rinviene nella dilazione del pagamento dovuto

Il Tribunale si occupa in chiusura dell’eccezione di nullità del finanziamento prestato dalla banca in virtù della pregressa esposizione di conto corrente, e ponendosi in contrasto con un avverso orientamento che afferma la nullità del mutuo di consolidamento ovvero del finanziamento erogato dalla banca per saldare pregresse passività del Cliente con la banca stessa, ritiene invece che esso non sia di per sé privo di causa.

Gli argomenti sui quali si fonda tale assunto sono i seguenti: si evidenzia che il contratto di mutuo è un contratto a causa tipica e che nel nostro ordinamento, il difetto di causa negoziale si traduce nell’assenza di una funzione concreta del negozio, tale da rendere ingiustificata l’operazione economica sottesa al contratto. A differenza del tipo negoziale, che opera principalmente sul fronte della configurabilità dell’operazione quindi della tipicità della figura negoziale, la causa ‘concreta’ opera prevalentemente sul piano della atipicità e pone essenzialmente problemi di liceità dell’interesse concretamente perseguito dalle parti; Inoltre ad avviso del Tribunale sul piano della cd. ‘causa concreta’, cioè della finalità concretamente impressa dalle parti all’operazione economica, il mutuo stipulato per estinguere una preesistente scopertura di conto corrente realizza un operazione di consolidamento del debito a breve con un debito a medio o lungo termine, cioè una sorta di ristrutturazione del debito.

Dunque la causa di ‘finanziamento’ dell’erogazione – ferma restando la traditio rei per il perfezionamento del contratto reale di mutuo – si rinviene nella dilazione del pagamento dovuto, che, anche al di fuori della tipicità causale, realizza una operazione comunque diretta a realizzare interessi meritevoli di tutela per l’ordinamento giuridico ex art. 1322 cod. civ..

Come evidenziato tale soluzione non è accolta invece da una parte della dottrina che ritiene nullo tale finanziamento. In particolare questa ultima tesi evidenzia, tra le varie ragioni addotte a proprio sostegno, che nel caso dei mutui di consolidamento non vi sarebbe la traditio rei, atteso che le somme oggetto di mutuo non entrerebbero mai sostanzialmente nella effettiva disponibilità del mutuatario poiché la banca, eroga il mutuo al solo scopo di ripianare una pregressa esposizione debitoria senza considerare inoltre che esso potrebbe costituire il viatico per l’acquisizione da parte della banca di una causa illegittima di prelazione.

Questa pronuncia dunque si caratterizza oltre che per la pluralità di profili di interesse trattati anche per le posizioni assunte dal Tribunale che non risultano sempre aderenti all’opinione prevalente in giurisprudenza a dimostrazione della sopravvivenza di un dibattito anche su questioni che in apparenza sembravano risolte dall’intervento delle Sezioni Unite.

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