La tecnologizzazione e la digitalizzazione dei processi produttivi e di distribuzione ha comportato inevitabilmente la modifica radicale degli assetti socio-economici condivisi.
È altresì definitivamente mutato il concetto di territorialità con l’alterazione probabilmente irreversibile delle dinamiche di produzione e anche dei rapporti sindacali.
L’Italia si trova in una situazione piuttosto depressa sotto il profilo dell’innovazione e della digitalizzazione.
Al di là delle grandi (poche) imprese multinazionali, il tessuto connettivo in Italia è rappresentato dalle PMI.
Nel corso del 2020, è stato condotto uno studio del Politecnico di Milano in collaborazione con privati, finalizzato ad osservare quante siano le PMI definite “digital immature”, ossia carenti dal punto di vista della innovazione digitale, all’interno del sistema industriale italiano. Il gap digitale tra le PMI italiane e il resto dei Paesi europei è risultato preoccupante: Germania arriva fino al 65%, Spagna al 40%, Francia +20% rispetto all’Italia. Con un divario digitale tra le PMI italiane e la media europea del 37%.
Sempre nel corso del 2020, la Relazione sul rilancio “Italia 2020-2022” presentata dal Comitato di esperti presieduto dall’attuale Ministro per la digitalizzazione, Vittorio Colao auspicava un’Italia più resiliente e in grado di colmare il ritardo digitale rispetto agli altri Paesi occidentali, come condizione essenziale per avere un Paese più dinamico e competitivo, soprattutto a livello di PMI, favorendo, tra gli altri, gli investimenti, la riqualificazione, la ricerca scientifica e l’innovazione, la digitalizzazione dei processi produttivi e una pianificazione degli investimenti.
Per questo motivo, la Mission 1 del PNRR è interamente dedicata ai progetti di digitalizzazione e innovazione sia della Pubblica Amministrazione che del sistema produttivo italiano con oltre 20 miliardi di investimenti previsti.
I mutamenti in essere non possono che condizionare anche il diritto il quale, per definizione, si conforma ai mutamenti della società di cui regolamenta i rapporti pubblici e privati. In particolare, sorge l’esigenza di rimodulare istituti e diritti per renderli più armonici con il processo di trasformazione in atto, pur avendo sempre come guida la Costituzione e i principi generali che ne sono il fondamento.
Tuttavia, non è procrastinabile un nuovo bilanciamento tra interessi contrapposti che tenga in considerazione la rivoluzione introdotta da algoritmi, strumenti automatizzati di controllo, intelligenza artificiale attraverso i quali passa il processo di digitalizzazione delle attività produttive e socio-economiche.
Il convitato di pietra di questo processo è senza dubbio rappresentato dai dati personali.
È necessario porre al centro della discussione pubblica il ruolo dei dati personali nei progetti di digitalizzazione del Paese. Per citare ancora la Relazione della Commissione Colao del 2020, è allarmante il ritardo dell’Italia nell’utilizzo dei dati individuali di survey, fonte amministrativa e big data anche interconnessi a fini statistici e di ricerca, di disegno e valutazione delle policy a causa di rigidità interpretative sul fronte dell’applicazione del Regolamento EU 679/16 (“GDPR”) sulla tutela dei dati personali.
Tale ritardo ha fortemente limitato la valorizzazione dei giacimenti informativi a fini statistici e di ricerca, sia in campo pubblico, per l’analisi, la valutazione e la pianificazione delle politiche di sviluppo, sia in capo privato per analizzare le tendenze e le opportunità del mercato riducendo la competitività delle imprese italiane rispetto ai competitors stranieri nonché per introdurre e facilitare l’innovazione dei processi produttivi.
Va contestualizzato l’impatto dei processi di digitalizzazione sul valore dei dati e sul legame che i singoli interessati e i fornitori di servizi, pubblici e privati.
È ancora possibile liquidare il dibattito sull’uso dei dati personali come soltanto una questione legata al diritto alla riservatezza nel quadro della tutela dei diritti della persona?
È ipotizzabile un diritto al “riuso” dei dati personali, anche se sotto forma di big data o meta-data, ossia di dati aggregati e anonimizzati, funzionale all’elaborazione di analisi statistiche e di prodotto?
A mio parere, al centro del dibattito va messa l’utilità sociale ed economica dei dati personali, anche se considerati nel loro complesso nonché il loro valore di asset economicamente valutabile in ragione del contributo che l’analisi degli stessi può dare al processo di crescita economica e di rinnovata competitività delle imprese.
In tal senso, il contributo delle autorità e delle istituzioni è quello di definire le condizioni per un corretto bilanciamento tra interessi contrapposti, intesi come il diritto alla tutela dei dati personali e quello allo sfruttamento economico degli stessi a panaggio dei terzi.
Del resto, è lo stesso GDPR che si pone come obiettivo quello di tutelare la privacy dei cittadini europei in modo armonizzato e nel contesto dei diritti fondamentali della Carta Europea dei Diritti. Il Considerando 4 in apertura del GDPR, infatti, afferma che il diritto alla protezione dei dati personali “non è una prerogativa assoluta” ma deve essere considerato alla luce della sua funzione sociale e contemperato con altri diritti fondamentali, in ossequio al principio di proporzionalità.
Invero, nell’architettura definita dal GDPR, è espressamente riconosciuta dignità a diritti quali il diritto di espressione e informazione, ma anche alla libertà di iniziativa economica che trova riconoscimento anche nell’articolo 41 della Carta Costituzionale, attraverso vari richiami all’interesse legittimo dei titolari del trattamento, contrapposto ai diritti degli interessati e, più in generale, al principio di accountability ossia di responsabilizzazione dei titolari rispetto alle operazione di trattamento concretamente effettuate, alle finalità perseguite e alle misure di sicurezza utilizzate.
La storia dell’uomo è piena di esempi di come, anche in buona fede, si sia bloccato o comunque ritardato il cambiamento e l’evoluzione umana con l’alibi della difesa di assetti consolidati e rassicuranti.
Il termine progresso però non è per forza sinonimo di rinuncia a diritti fondamentali e inalienabili, soprattutto che tutti gli interessati, al livello di istituzioni, autorità, imprese, utenti sono disponibili a dare il proprio contributo nel processo di trasformazione irreversibile degli assetti condivisi.