In tema di determinazione del reddito d’impresa, per la valutazione delle transazioni, va applicato il canone, avente valore generale, stabilito dal D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 9, che non ha mera portata contabile e che impone il riferimento al normale valore di mercato per corrispettivi e altri proventi presi in considerazione dal contribuente, trattandosi di clausole antielusiva, costituente esplicazione del generale divieto di abuso del diritto in materia tributaria, essendo precluso al contribuente di conseguire vantaggi fiscali – come lo spostamento dell’imponibile presso soggetti appartenenti al medesimo gruppo societario – mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione di legge, di strumenti giuridici idonei ad ottenere vantaggi in difetto di ragioni diverse dalla mera aspettativa di quei benefici.
Così si è espressa la Corte di Cassazione con la sentenza in analisi.
Il caso di specie verteva sulla rettifica di una plusvalenza, imputata a maggior reddito imponibile ai fini IRPEG, derivante dalla cessione di partecipazioni nell’ambito di un gruppo domestico, in relazione alla quale veniva contestata dall’Amministrazione Finanziaria l’antieconomicità, in quanto la contribuente aveva impiegato, per l’identificazione del prezzo di cessione, i valori contabili di bilancio e quelli indicati in perizie giurate redatte ex L. 448/2001, inferiori a quelli di cui al valore normale.
Il contribuente, impugnato il provvedimento impositivo, risultava soccombente in entrambi i giudizi di merito.
Proponeva dunque ricorso in Cassazione, dolendosi, in particolare, della violazione e falsa applicazione dell’articolo 9 del TUIR, non dovendosi applicare il criterio del valore normale in presenza di cessioni di partecipazioni a titolo oneroso, coerentemente con quanto indicato dall’articolo 54, comma primo, lettera a) e comma secondo, vigente ratione temporis (odierno articolo 86 del TUIR).
La Corte di Cassazione ha invece ritenuto corretta l’applicazione del criterio del valore normale anziché dei corrispettivi pattuiti dalle parti, e conseguentemente rigettato il ricorso di parte ricorrente.
Il Collegio ha infatti affermato che il criterio del valore normale, di cui all’art. 9 D.P.R. 917/1986, costituisca una derivazione del generale divieto di abuso del diritto.
A supporto di detta impostazione, vengono ripresi due orientamenti della giurisprudenza di legittimità, di cui il primo ascrive alla fattispecie dell’elusività la discrasia tra il valore normale delle partecipazioni cedute ed i corrispettivi convenuti nell’ambito delle operazioni infragruppo “ domestiche” (Cass. n. 17955/2013) ed il secondo afferma che detto valore normale sia impiegabile per rettificare comportamenti antieconomici (Cass. n. 16948/2019).
Pur riconoscendo la Corte che i precedenti giurisprudenziali non attribuiscano valore di presunzione legale di conformità tra il valore normale ed il corrispettivo percepito (Cass. 3290/2012) nella fattispecie in oggetto, nondimeno ritiene che un eventuale scostamento dal detto valore normale dovrebbe essere suscettibile di assumere un rilevo a titolo di parametro indiziario, soggetto alla valutazione del giudice tributario.
In tal senso, l’operazione nella quale viene applicato un prezzo fuori da quello di mercato, dà luogo ad una possibile anomalia, dalla quale potrebbe derivare, in assenza di elementi contrari, un accertamento in capo al contribuente che ha posto in essere tale valutazione.
I principi sottesi all’applicazione del valore normale costituirebbero delle espressioni della regola “ substance over the form” di cui ai principi contabili nazionali (OIC 11) ed internazionali (IASB/1989/35 “ Framework 2” ), in aderenza a quanto disposto a livello internazionale dalle raccomandazioni dell’OCSE in ambito BEPS e dall’Unione Europea in materia di pianificazione fiscale aggressiva.
Non dovrebbe rilevare, al riguardo, la nota norma di interpretazione autentica di cui all’art. 5, comma 2 del D.lgs. 147/2015 (c.d. “ Decreto Internazionalizzazione” ), mediante la quale viene esclusa l’applicazione dell’art. 110 D.P.R. 917/1986 al transfer pricing interno, in quanto non limitativa della portata del principio del valore normale di cui all’articolo 9 del TUIR.