[*] La recente sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Reggio Emilia n. 53/1/2022, emessa sulla base dei principi enunciati dalla Corte Costituzionale nella pronuncia n. 12/2022, si è espressa a favore della illegittimità della tassazione ai fini IRAP dei dividendi infragruppo percepiti da banche e holding finanziarie, attualmente prevista dall’art. 6, primo comma, lett. a), del D.Lgs. n. 446/1997 (c.d. “Decreto IRAP”)[1].
La vicenda giurisprudenziale trae origine dall’impugnazione del silenzio/rifiuto formatosi sull’istanza di rimborso dell’IRAP sui dividendi “domestici”[2] presentata da una holding finanziaria, con cui veniva lamentata l’illegittimità dell’art. 6, comma 1, lett. a) del Decreto IRAP. A giudizio del contribuente, infatti, la norma, che come noto prevede la tassazione ai fini del tributo regionale della metà dei dividendi percepiti dalle banche e holding finanziarie, risultava in conflitto sia con la Direttiva Madre-Figlia (Direttiva 2011/96/UE del 30 novembre 2011)[3] sia con il dettato costituzionale e, in particolare, con i principi di uguaglianza e di capacità contributiva di cui agli artt. 3 e 53 della Carta Costituzionale. La Commissione, dunque, recependo uno dei motivi di doglianza avanzati dalla holding, richiedeva l’intervento della Consulta, al cui verdetto ha infine fatto seguito la sentenza in commento.
Orbene, al fine di comprendere la reale portata di quest’ultima pronuncia, occorre sinteticamente ripercorre, secondo il suo sviluppo cronologico, il complesso iter giurisprudenziale che è approdato alla decisione dei giudici emiliani.
Come si è anticipato, infatti, la CTP di Reggio Emilia, accogliendo uno dei motivi sollevati dal contribuente, aveva rimesso alla Consulta la questione della legittimità costituzionale dell’inclusione nella base imponibile IRAP di banche e holding finanziarie del 50 per cento dei dividendi. La Corte rimettente, in effetti, assumeva che l’IRAP avrebbe quale obiettivo la tassazione del frutto dell’attività caratteristica di negoziazione dei titoli degli intermediari finanziari, vale a dire i c.d. dividendi di “trading”, individuati “forfettariamente”, per semplicità, in misura pari al 50% del totale dei dividendi; tuttavia, dal momento che i dividendi di trading sono indicati separatamente e analiticamente nel bilancio bancario, il ricorso a un meccanismo forfettario, per sua natura impreciso, secondo i giudici emiliani poteva risultare irragionevole e sproporzionato rispetto all’obiettivo perseguito. In altri termini, nel ragionamento della Commissione rimettente, la tassazione dei dividendi delle banche e delle holding finanziarie, indipendentemente dalla loro natura di trading ovvero di dividendi diversi (i.e. non di trading)[4], appariva in potenziale contrasto con i principi di ragionevolezza e proporzionalità di matrice costituzionale, dal momento che il legislatore ben avrebbe potuto invece prevedere che il margine di intermediazione rilevante ai fini IRAP fosse determinato considerando direttamente (ed esclusivamente) i soli dividendi derivanti da titoli ricompresi nell’attività di trading.
Allo stesso tempo, tuttavia, la CTP disattendeva due altri motivi di illegittimità avanzati dal contribuente nell’impugnazione del silenzio/rifiuto, con i quali era stato argomentato che la tassazione dei dividendi disposta dall’art. 6, primo comma, lett. a), del Decreto IRAP è, rispettivamente:
- in via principale, contraria al divieto di doppia imposizione previsto dall’art. 4, commi 1 e 3, della Direttiva Madre-Figlia, come interpretato dalla giurisprudenza della CGUE (cause C-365/16, AEFP e altri, e C-68/15, X[5]), che deve assumersi come direttamente applicabile[6] nonché di potenziale diretta rilevanza anche in relazione a dividendi domestici[7]; e
- in via subordinata, nel caso in cui la giurisprudenza unionale fosse da considerare inapplicabile in relazione ai dividendi interni, contraria alla libertà di stabilimento di cui all’art. 49 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (“TFEU”), alla libera circolazione dei capitali di cui all’art. 63 del TFUE e ai principi di eguaglianza e capacità contributiva di cui agli artt. 3 e 53 della Costituzione, dal momento che la disapplicazione del regime di “tassazione forfettaria” con riferimento ai soli dividendi europei in base alla Direttiva Madre-Figlia determinerebbe una tassazione più onerosa per i dividendi domestici, con il conseguente verificarsi di una discriminazione “rovesciata”[8].
La Corte Costituzionale, dunque, con la richiamata sentenza n. 12/2022, ha rigettato la questione della legittimità costituzionale della norma in ragione della tassazione indifferenziata dei dividendi da trading e di quelli derivanti da partecipazioni non detenute per la negoziazione, evidenziando che né da un’interpretazione sistematica né da un’esegesi storica della disposizione è ricavabile l’intenzione del legislatore di assoggettare a tassazione i soli dividendi derivanti dall’attività di negoziazione dei titoli. La CTP, dunque, aveva errato nell’assumere tale argomento come unico presupposto della remissione[9].
Al contempo, peraltro, la Consulta mostra di dare considerazione alla tesi della rilevanza anche ai fini IRAP del divieto di doppia imposizione dei dividendi infragruppo disposto dalla Direttiva Madre-Figlia, laddove sottolinea come la CTP emiliana, nell’ordinanza di remissione, abbia assertivamente escluso l’applicazione di tale divieto all’IRAP “senza tuttavia minimamente confrontarsi con la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea (in particolare, sentenza 17 maggio 2017, in causa C-365/16, AEFP e altri; sentenza 17 maggio 2017, in causa C-68/15, X), evocata nel giudizio principale dalla difesa della contribuente al fine – data l’esistenza di un’unica controllata italiana – di dedurre la cosiddetta discriminazione ‘alla rovescia’”.
Nelle sentenze citate dalla Consulta, in effetti, la CGUE chiarisce che i limiti alla tassazione dei dividendi intra-europei stabiliti dalla Direttiva Madre-Figlia non si riferiscono ai soli tributi che il diritto nazionale qualifica come imposte sul reddito delle società (i.e., nel caso italiano, l’IRES), ma si estendono a tutte le misure fiscali che comportino una doppia tassazione dei dividendi in capo alle società madri (e, perciò, anche all’IRAP)[10].
Riassunto il giudizio, la CTP emiliana ha quindi – a suo dire[11] – recepito, nella decisione del caso, il “monito” della Corte Costituzionale e ha considerato l’art. 6, primo comma, lett. a), del Decreto IRAP in contrasto con la Direttiva Madre-Figlia, disapplicando la norma anche in un caso, come quello oggetto del giudizio, con rilevanza puramente interna sulla base del divieto di discriminazione “rovesciata” invocato dal contribuente.
La CTP, in particolare, ha evidenziato che (i) la Direttiva Madre-Figlia inibisce la doppia tassazione dei dividendi europei da parte della normativa nazionale, (ii) il divieto di doppia imposizione, nell’ordinamento italiano, riguarda non solo l’IRES ma anche l’IRAP, (iii) il principio del divieto di discriminazione “rovesciata” non consente che dall’applicazione della normativa nazionale a una fattispecie domestica possa conseguire un trattamento deteriore rispetto a quello che deriva dall’applicazione della Direttiva Madre-Figlia a un’analoga fattispecie a rilevanza europea.
Alla luce di queste premesse, la Commissione ha quindi disposto il rimborso a favore della società istante della maggiore IRAP versata sul 50% dei dividendi.
La decisione della CTP di Reggio Emilia, dunque, potrebbe rappresentare un primo passo verso un revirement delle corti di merito tributarie, che in passato avevano rigettato i ricorsi proposti da banche e società finanziarie avverso il diniego opposto alle istanze di rimborso dell’IRAP pagata sui dividendi[12]. A giudizio delle Commissioni, infatti, la compatibilità del trattamento tributario italiano dei dividendi rispetto alla Direttiva Madre-Figlia doveva essere valutato esclusivamente con riferimento al trattamento che essi ricevono “ai fini delle imposte sul reddito e quindi, nell’ordinamento tributario italiano, solo in ambito IRES”, ma questo argomento sembrerebbe ora messo in discussione alla luce della citata sentenza della Corte Costituzionale.
Nonostante l’apertura della CTP in commento, mette tuttavia conto osservare che le sentenze della CGUE richiamate dal contribuente e dalla Corte Costituzionale si riferiscono a fattispecie a rilevanza transfrontaliera, in cui il principio di “non discriminazione” era invocato in relazione al trattamento deteriore riservato all’entità estera a confronto del regime impositivo gravante sui soggetti residenti[13]. In verità, in più risalenti pronunce[14], la Corte di Giustizia aveva evidenziato che dal principio di “non discriminazione” nei rapporti transfrontalieri immanente al diritto europeo non può essere fatto discendere anche un divieto di “discriminazione rovesciata”, è cioè un divieto per gli Stati membri di introdurre negli ordinamenti domestici misure più vantaggiose per i non residenti, allo scopo di attirare beni e investimenti di provenienza estera[15]. In altri termini, come rilevato in dottrina[16], secondo l’interpretazione della CGUE il principio di non discriminazione avrebbe una portata solo “unidirezionale”, perché si limita a vietare che i non residenti siano discriminati rispetto ai soggetti residenti ma non proibisce invece agli Stati membri di gravare i propri residenti con un più intenso dovere tributario rispetto ai non residenti[17].
In aggiunta, la detassazione ai fini IRAP dei dividendi domestici e europei incassati da banche e holding finanziarie – nonché il rimborso dell’IRAP già pagata (ove possibile, i.e. “nei termini”) – avrebbe effetti rilevanti sul gettito erariale.
Per questi motivi, non è scontato che l’Amministrazione finanziaria e altre corti di merito seguano l’orientamento del giudice emiliano. In particolare, se alla luce della Direttiva Madre-Figlia e della giurisprudenza della CGUE sembra potersi prospettare, seppure con qualche prudenza, un possibile sviluppo giurisprudenziale orientato verso la esclusione dalla base imponibile dell’IRAP dei dividendi transfrontalieri intra-europei, resta ancora non privo di incertezze se tale indirizzo rilevi anche in relazione ai dividendi meramente domestici (la cui detassazione in base al divieto di “discriminazione rovesciata” potrebbe trovare fondamento, per quanto detto, solo nei principi costituzionali di uguaglianza e capacità contributiva). Resta da vedere, dunque, se la posizione assunta dalla Commissione Tributaria di Reggio Emilia troverà effettivamente un seguito anche nei successivi gradi di giudizio o in altri contenziosi.
[*] Gli autori intendono ringraziare il Prof. Alessandro Turina per l’utile confronto.
[1] Nello specifico, come si dirà infra, si trattava di dividendi di provenienza domestica.
[2] Il caso affrontato dalla CTP, invero, aveva ad oggetto i dividendi distribuiti alla controllante italiana dall’unica società partecipata anch’essa residente in Italia.
[3] Come noto, infatti, l’art. 4, comma 3, della Direttiva Madre-Figlia prevede, alternativamente, che non sia ammessa alcuna tassazione da parte dello Stato del percettore degli utili distribuiti dalla società figlia nel caso di opzione per l’indeducibilità analitica dei costi di gestione della partecipazione, ovvero che sia ammessa la tassazione nella misura massima del 5% nel caso in cui lo Stato membro abbia scelto l’opzione dell’indeducibilità forfetaria dei costi di gestione della partecipazione.
[4] E, cioè, diversi dai dividendi derivanti da partecipazioni detenute per la negoziazione (trading).
[5] Nella specie, con la sentenza sulla causa C-365/16 la Corte ha affrontato il tema della compatibilità con la Direttiva Madre-Figlia del contributo aggiuntivo all’imposta sulle società (nella misura del 3%) previsto dall’ordinamento tributario francese per le società madri residenti anche in occasione della distribuzione di utili da parte di società figlie localizzate in altri Stati membri UE, mentre con la sentenza sulla causa C-68/15 la Corte si è occupata del contrasto con la Direttiva della fairness tax belga – tributo distinto dall’imposta sul reddito societario – che tassava le società residenti e non residenti (operanti in Belgio a mezzo di una stabile organizzazione) nel caso di distribuzione di dividendi che, per effetto di alcune agevolazioni fiscali previste dal diritto nazionale belga, non fossero ricompresi nel risultato d’esercizio imponibile.
[6] Al riguardo, vale evidenziare che le disposizioni delle Direttive UE che dettano una disciplina incondizionata e precisa, una volta che sia scaduto il termine per la loro applicazione da parte dei legislatori nazionali, sono direttamente applicabili nell’ordinamento interno degli Stati membri. Circa l’idoneità dell’art. 4, comma 1, della Direttiva Madre-Figlia a integrare tali requisiti, si confronti, in particolare, la sentenza della Corte di Giustizia relativa alla causa C-138/07 (punto 65) e, in sede dottrinale, M. HELMINEN, EU Tax Law – Direct Taxation, IBFD, 2021, sez. 1.2.5.
[7] La CGUE ha in effetti avuto modo di evidenziare (cfr., inter alia, sentenze sulle cause C-482/10 e C-310/10) che laddove una normativa nazionale si conformi, per situazioni puramente interne, alle soluzioni adottate nel diritto dell’Unione, le disposizioni e le nozioni riprese dal diritto unionale devono essere interpretate in modo conforme alla portata che esse assumono in ambito europeo, al fine di evitare future divergenze d’interpretazione. Dal momento, quindi, che il regime di detassazione nella misura del 95% dei dividendi domestici stabilito all’art. 89 TUIR riproduce sul piano dell’ordinamento interno la soluzione accolta dall’Italia con riferimento ai dividendi europei in base alla Direttiva Madre-Figlia, gli indirizzi interpretativi fatti propri dalla CGUE in relazione al limite della tassazione dei dividendi europei potrebbero dover trovare applicazione anche con riguardo ai dividendi meramente interni.
[8] In base al ragionamento logico-giuridico seguito dal contribuente e riportato dalla Commissione rimettente nell’ordinanza n. 52/2020, infatti, laddove l’art. 6, comma 1, lett. a) del Decreto IRAP fosse disapplicato soltanto in relazione ai dividendi europei, si verificherebbe la “violazione dei principi di eguaglianza e di capacità contributiva, di cui agli artt. 3 e 53 Cost., in quanto, a fronte di un medesimo indice di capacità contributiva, rappresentato dalla percezione di dividendi su partecipazioni di controllo, due soggetti sono trattati diversamente a seconda della provenienza, domestica o estera, dei dividendi stessi, vale a dire sulla base di un criterio, l’origine dei dividendi, assolutamente inidoneo ad esprimere una maggiore o minore capacità contributiva del soggetto percettore e, quindi, per ciò stesso irragionevole”.
Vale osservare, al riguardo, che lo stesso ragionamento, fondato sui principi costituzionali di uguaglianza e capacità contributiva, dovrebbe condurre a ritenere illegittima la tassazione ai fini IRAP anche dei dividendi extra-europei (i.e. i dividendi distribuiti alla controllante italiana dalle partecipate estere residenti in Stati extra-UE). In ogni caso, il riconoscimento della non imponibilità ai fini IRAP dei dividendi interni dovrebbe avere come effetto ulteriore anche la detassazione dei dividendi extra-europei in ragione del principio sancito all’art. 63 del TFUE secondo il quale “sono vietate tutte le restrizioni ai movimenti di capitali tra Stati membri, nonché tra Stati membri e Paesi terzi”; la libera circolazione dei capitali è infatti, come noto, l’unica tra le libertà fondamentali dell’Unione a trovare applicazione non solo fra i Paesi membri ma anche rispetto ai Paesi terzi. Pertanto, nel caso in cui l’art. 6, comma 1, lett. a), del D.Lgs. n. 446/1997, si rivelasse illegittimo con riguardo ai dividendi interni, l’imponibilità dei dividendi extra-europei risulterebbe discriminatoria e parimenti illegittima ai sensi del predetto art. 63.
[9] A giudizio della Consulta, infatti, la scelta del legislatore fiscale appare ascrivibile a una diversa ratio, e cioè alla volontà di evitare che a seguito della modifica della modalità di determinazione della base imponibile IRAP per effetto della Legge Finanziaria del 2008 (L. n. 244/2007), e perciò nel passaggio dal precedente regime che escludeva l’imponibilità dei dividendi a un sistema legato al principio di derivazione rafforzata che parzialmente li include, potesse conseguire un eccesso di tassazione su tali dividendi, rilevanti sia in capo al percettore che all’emittente. Inoltre, la Corte aggiunge che “l’ulteriore inesattezza in cui incorre l’argomentazione del rimettente riguarda la pretesa ricomprensione della sola attività di «negoziazione» di titoli partecipativi («attività di trading») nell’«attività caratteristica» di banche e altri enti e società finanziarie. Tale assunto, oltre a essere privo di qualsiasi motivazione nell’ordinanza di rimessione, è anche palesemente erroneo, sia in punto di fatto che di diritto”.
[10] Cfr. sentenza 17 maggio 2017, in causa C-365/16, AEFP e altri, punto 33, ove la Corte ha evidenziato che “poco rileva che la misura fiscale nazionale sia o meno qualificata come imposta sulle società. A tal proposito, è sufficiente constatare che l’articolo 4, paragrafo 1, lettera a), della direttiva madri-figlie non limita la propria applicazione a una determinata imposta. Infatti, detta disposizione prevede che lo Stato membro della società madre si astenga dal sottoporre ad imposizione gli utili distribuiti dalla società figlia non residente. La disposizione in parola mira quindi ad evitare che gli Stati membri adottino misure fiscali che comportino una doppia imposizione degli utili in questione in capo alle società madri”.
[11] La Commissione afferma chiaramente che “non può non tenere conto” che la Corte Costituzionale, laddove ha rilevato che il rimettente ha omesso di confrontarsi con la giurisprudenza della CGUE invocata al fine di dedurre la “discriminazione rovesciata”, ha inteso indicare “una lettura costituzionalmente orientata della direttiva madre-figlia, come interpretata dagli arresti della CGUE, che, ricordiamolo, vincolano, in materia, i Giudici degli Stati dell’Unione”.
[12] Tra cui, a titolo esemplificativo, si citano CTP Roma n. 16331 del 29 novembre 2019; CTP Milano nn. 3583 e 3584 del 10 settembre 2019; CTP Firenze n. 265 del 12 marzo 2019.
[13] Cfr. sentenza 17 maggio 2017, in causa C-68/15, X, punto 40 e ss.
[14] Al riguardo, inter alia, si veda CGUE, sentenza 13 marzo 1979, in causa C-86/78.
[15] Secondo la Corte, tali differenziazioni sono conseguenza “dalla peculiarità delle legislazioni nazionali non armonizzate, in settori di competenza degli Stati membri”.
[16] In tal senso, N. BAMMENS, The Principle of Non-Discrimination in International and European Tax Law – Part III: Non-discrimination in European tax law, Cap. XII: General Overview of the Approach of the European Court of Justice to Non-discrimination, IBFD, 2012. L’autore evidenzia al riguardo che secondo la costante giurisprudenza della CGUE “the free movement provisions do not apply in purely internal situations and, therefore, do not offer a solution for issue of reverse discrimination”.
[17] In tal senso, anche la giurisprudenza della CGUE. Ad esempio, nella richiamata sentenza sulla causa C-86/78, la Corte rileva che il principio di non discriminazione “benché vieti a ciascuno Stato membro di applicare ai prodotti degli altri Stati membri tributi superiori a quelli gravanti sui prodotti nazionali, non vieta di applicare ai prodotti nazionali tributi superiori a quelli che colpiscono i prodotti importati”.