Con Ordinanza n. 25942 del 2 settembre 2022, la Corte di Cassazione si è espressa in materia dei qualificazione dei finanziamenti soci richiamati in atti sottoposti a registrazione ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro.
La vicenda trae origine da un contratto di mutuo stipulato tra una banca e una società, dove quest’ultima dichiarava di essere debitrice verso alcuni soci finanziatori e di impegnarsi a far sì che il credito di tali soci fosse postergato al rimborso integrale di quanto dovuto alla banca.
Al momento della registrazione del mutuo, l’Agenzia delle Entrate emetteva, erroneamente, nei confronti della banca un avviso di liquidazione per l’imposta di registro su tale dichiarazione, qualificata come atto ricognitivo di debito.
Sul punto, evidenzia la Cassazione, la ricognizione di debito è l’atto con cui il debitore dichiara di riconoscere l’esistenza di un debito (art.1988 c.c.).
Essa può essere titolata o non titolata a seconda che contenga o non contenga il riferimento al rapporto fondamentale da cui il debito trae origine. Ha natura “puramente dichiarativa”.
In ragione di tale natura -e del contenuto indubbiamente patrimoniale che la sottrae all’ambito applicativo dell’art.4 della tariffa, parte seconda, allegata al d.P.R. 131/86 (Cass. 24804/2014)- è soggetta “ad imposta di registro con aliquota dell’1°/0 fissata per tale specie di atti dall’art.3 della tariffa, parte prima, allegata al d.P.R. 26 aprile 1986, n.131”, senza che quindi -si aggiunge per precisazione- possa trovare applicazione il residuale art. 9 della tariffa che prevede l’aliquota del 3% per la registrazione di “Atti diversi da quelli altrove indicati aventi per oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale” (Cass. 17869/2021; Cass. 16829/2008; Cass. 12432/2007).
Per costante giurisprudenza, la ricognizione di debito al pari della promessa di pagamento, spiega effetti solo se rimessa direttamente dall’obbligato al creditore, senza intermediazioni, e se rimessa con lo specifico intento del primo di ribadire l’esistenza del debito.
Nel caso di specie, continua la Cassazione, si è errato nell’avallare la qualificazione data dall’Agenzia delle Entrate ad una dichiarazione contenuta nel contratto tra la banca e la società come ricognizione del debito della società rispetto ai suoi soci atteso che questi non erano i diretti destinatari della dichiarazione.
Una dichiarazione contenuta in un contratto, con cui una parte esponga all’altra di avere un debito verso un terzo, infatti, non è una dichiarazione di debito e, dato che ai fini dell’applicazione dell’art. 22 occorre che le parti dell’atto enunciante e dell’atto enunciato siano le stesse, una ricognizione di debito non può comportare l’applicazione della norma se non quando detta ricognizione sia contenuta in un atto tra debitore e creditore.