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Giurisprudenza

Indeducibili i costi relativi a frodi carosello se conosciuti dal contribuente

8 Febbraio 2019

Matteo Porqueddu, Studio Tremonti Romagnoli Piccardi e Associati

Cassazione Penale, Sez. III, 29 Novembre 2018, n. 53637 – Pres. Lapalorcia, Rel. Cerroni

Di cosa si parla in questo articolo

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 53637/2018 ha chiarito che la ragione principale alla base dell’indeducibilità dei costi nella c.d. “frode carosello” risiede nella violazione del c.d. principio dell’inerenza dei costi di cui all’art. 109 D.p.R. 22 Dicembre 1986 n. 917.

In particolare, la circostanza, da parte del contribuente, di avere la piena consapevolezza in ordine all’assunzione e al sostenimento del costo nell’ambito di operazioni soggettivamente inesistenti e dunque delittuose, comporta il sostenimento di un componente negativo che non è inerente all’attività di impresa in senso stretto. La causa è da ricercarsi nella differenza esistente, in tali casi, tra l’esercizio di un’attività imprenditoriale, cui vanno imputati tutti i costi a essa inerenti con conseguente loro deducibilità ai fini delle imposte sui redditi, e attività criminale, cui devono essere invece imputati tutti i costi utilizzati per compiere l’operazione delittuosa e che di converso non sono, pertanto, deducibili dal reddito per mancanza del citato requisito dell’inerenza.

Il principio di inerenza infatti, comporta – affinché si possa attribuire rilevanza agli elementi passivi da considerare ai fini del calcolo del reddito d’impresa – che tra il costo che il contribuente vuole dedurre e l’esercizio dell’attività imprenditoriale svolta, sussista un nesso di causa ed effetto. Va da se che i “costi da reato” non hanno alcun rapporto di carattere funzionale con l’esercizio dell’attività di impresa perché evidentemente estranei all’attività (cfr. nei medesimi termini Cass. n. 42994/2015). Ne consegue che tale regola relativa all’indeducibilità dovrebbe trovare applicazione anche per i costi esposti in fatture soggettivamente inesistenti, trattandosi comunque di costi riconducibili ad una condotta criminosa.

Quanto sopra, rappresenta, nei termini essenziali, la linea tracciata dai Supremi Giudici della Cassazione Penale, con riferimento a costi soggettivamente inesistenti che, seppur documentati da fatture, non possono essere dedotti dal contribuente che li ha sostenuti in quanto questi rappresentano “una distrazione verso finalità ulteriori e diverse da quelle proprie dell’attività di impresa, comportando la cessazione dell’indefettibile requisito dell’inerenza tra i costi medesimi e l’attività imprenditoriale”.

Sul punto, pare utile argomentare come in giurisprudenza si assista ad un contrasto netto tra la Cassazione Tributaria e la Cassazione Penale, in merito alla legittimità circa la deduzione di costi derivanti da operazioni soggettivamente inesistenti.

In particolare, se in caso di inesistenza soggettiva sembra essere pacifica la negazione della detraibilità dell’Iva, così non è affatto per ciò che riguarda la deduzione del costo, avendo riguardo in particolare alle modifiche apportate dal D.L. 16/2012 all’art. 14 comma 4-bis L. 537/93.

Tale norma prevede che “non sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo”. La circostanza che venga richiesta una diretta causalità tra costi da reato e attività criminosa ha portato la Giurisprudenza tributaria (cfr. tra le altre Cass. n. 6687/2017) e la stessa Agenzia delle Entrate a pronunciarsi per la deducibilità di tali componenti nel presupposto che i beni acquistati nella maggior parte dei casi sono utilizzati nel ciclo produttivo dell’impresa.

Diametralmente opposto invece è l’orientamento preso dalla Cassazione Penale, che ha chiarito come l’art. 14 comma 4 bis della L. 537/93 abbia valenza procedurale senza implicare la deduzione di un costo al ricorrere dell’inesistenza soggettiva.

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