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Giurisprudenza

Indici di esistenza della supersocietà di fatto

4 Ottobre 2022

Lara Archivolti, Dottorando di ricerca in Studi Giuridici Comparati ed Europei – curriculum Diritto Privato, Privato Comparato e Commerciale, Università di Trento

Cassazione Civile, Sez. I, 17 maggio 2022, n. 20552 – Pres. Cristiano, Rel. Tricomi

La sussistenza del fenomeno della c.d. supersocietà di fatto postula la rigorosa dimostrazione del comune intento sociale perseguito, che deve essere conforme, e non contrario, all’interesse dei soci, dovendosi ritenere che la circostanza che le singole società perseguano, invece, l’interesse delle persone fisiche che ne hanno il controllo, anche solo di fatto, costituisca, piuttosto, una prova contraria all’esistenza della supersocietà di fatto. Simile circostanza può semmai costituire indice di esistenza di una holding di fatto nei cui confronti il curatore può agire in responsabilità (art. 2497 c.c.) e che può essere dichiarata autonomamente fallita, ove ne sia accertata l’insolvenza a richiesta di uno dei soggetti legittimati.

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza in commento, ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto dal Curatore del Fallimento di una s.r.l. avverso una sentenza della Corte d’Appello di Firenze; sentenza che aveva revocato la dichiarazione di fallimento di una società di fatto (costituita, in thesi, tra il soggetto, persona fisica, che aveva proposto reclamo ex art. 18 l. fall., la società fallita e altre due s.r.l.) e dei soci illimitatamente responsabili (dichiarati falliti per ripercussione).

La Corte fiorentina, infatti, aveva ritenuto non provata l’esistenza della c.d. supersocietà di fatto, risultando arduo ravvisarne gli elementi indicativi, e aveva, dunque, escluso l’applicabilità, secondo una interpretazione estensiva pacificamente ammessa in giurisprudenza, della norma di cui all’art. 147, comma 5. l. fall.

Più precisamente, ad opinione del giudice di merito, la prospettazione di parte convenuta non aveva provato (né permesso di individuare) alcun comune intento sociale perseguito dai singoli pretesi associati.

Quanto poi ai singoli interventi che erano stati compiuti dal soggetto reclamante, in relazione con le società interessate, la Corte d’Appello aveva rimarcato che, in ragione della evidenziata natura bilaterale degli interventi, il loro inserimento in un quadro generale e disorganico “mal si conciliava con la formazione di un sodalizio, e trovava la sua costante ragion d’essere nella circostanza che il potere di disposizione finiva ad ogni occasione per ricadere nell’orbita esclusiva [del reclamante] e nell’esclusivo e mai superato suo potere di direzione e coordinamento”.

Il Curatore ricorrente aveva dunque proposto ricorso, dinanzi la Corte di legittimità, sostenendo che le condotte del soggetto reclamante (preteso holder) non dovessero essere ricondotte nella fattispecie dell’abuso di attività di direzione e coordinamento, atteso che, inter alia, il preteso holder (i) spendeva il nome, di volta in volta, delle società interessate (da cui si desumerebbe la sostanziale situazione di pariordinazione, riconducibile alla nozione della c.d. “supersocietà di fatto”); (ii) gestiva direttamente le società (in una prospettiva di un interesse comune e non nell’interesse proprio, impedendo – dunque – che si potesse parlare di ingerenza qualificata o di eterodirezione) (iii) non perseguiva, in definitiva, un interesse imprenditoriale. Il ricorrente, poi, criticava marcatamente l’impostazione – desunta dalla motivazione della sentenza del giudice di Firenze – per cui può esserci sovrapposizione tra direzione e coordinamento abusivo e società di fatto (sostenendo, al contrario, che una direzione unitaria, complessivamente svolta nell’interesse di ciascuno dei soggetti coinvolti, non può al contempo esserlo anche nella prospettiva di un interesse comune).

La Suprema Corte, come anticipato, ha confermato la prospettazione del giudice di merito, evidenziando come la ricostruzione operata dalla Corte d’Appello, in realtà, non fosse basata sulla applicazione dell’art. 2479 c.c., bensì, precipuamente, sull’assenza dei presupposti/requisiti per ravvisare la sussistenza di una supersocietà di fatto: la motivazione della sentenza di merito, difatti, risultava focalizzata sull’insussistenza di “ciò che contraddistingue il vincolo societario” e cioè la “presenza di un’attività comune e di un patrimonio che siano effettivamente comuni e cioè rispettivamente svolta l’una e costituito l’altro nel contemporaneo e permanente interesse dell’organismo”.

Peraltro, la Cassazione ha criticato la logica binaria, di stretta alternatività tra la fattispecie contemplata all’art. 2497 c.c. e quella di cui all’art. 147, comma 5, l. fall., sui ci era imperniato il ricorso della Curatela e ha affermato che “tale binarietà non trova riscontro (né nella motivazione del giudice di merito, né) nella giurisprudenza della Suprema Corte”.

La Cassazione, tutt’al più, in passato, ha escluso che “in caso di insolvenza di un gruppo di società organizzate verticalmente ed etero-dirette possa configurarsi  la c.d. supersocietà di fatto” ma “non ha mai affermato che qualora più società siano amministrate e possedute da un unico soggetto debba necessariamente riscontrarsi l’uno o l’altro fenomeno ed ha, per converso, sottolineato come la prova della sussistenza di una s.d.f. fra detto soggetto e le società medesime debba essere fornita in maniera rigorosa, in primo attraverso la dimostrazione del comune interesse sociale perseguito”.

Nel caso di specie – dunque – la Corte ha escluso che sussistano elementi che provino l’attività di un organismo comune, collocato a latere delle singole compagini sociali e ha ricordato che “chi invoca l’esistenza di una supersocietà di fatto è tenuto a provare:

a) la ricorrenza di indici di riconoscibilità effettiva della riconduzione dell’attività a un organismo collocato a latere dei singoli associati;

b) che la riconduzione sia sistematica e frutto di un’attività programmata;

c) che la permanenza si estrinsechi nella sopravvivenza di un’autonomia patrimoniale idonea a fornire adeguato supporto per la sopravvenienza della sopravvenuta inoperatività di uno, di alcuni o anche di tutti i soggetti partecipi.”

La Corte, in chiusura, ha ribadito il principio espresso da Cass. 7903 secondo cui la norma di cui all’art. 147, comma 5, l. fall. “trova applicazione non solo quando, dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore individuale, risulti che l’impresa è, in realtà, riferibile ad una società di fatto tra il fallito ed uno o più soci occulti, ma, in virtù di sua interpretazione estensiva, anche laddove il socio già fallito sia una società, anche di capitali, che partecipi, con altre società o persone fisiche, ad una società di persone, cosiddetta supersocietà di fatto, non assoggettata ad altrui direzione e coordinamento – la cui sussistenza, però, postula la rigorosa dimostrazione del comune intento sociale perseguito, che deve essere conforme, e non contrario, all’interesse dei soci, dovendosi ritenere che la circostanza che le singole società perseguano, invece, l’interesse delle persone fisiche che ne hanno il controllo, anche solo di fatto, costituisca, piuttosto, una prova contraria all’esistenza della supersocietà di fatto”.


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