1. La Sesta Sezione civile ha rimesso alla discussione in pubblica udienza la questione relativa all’applicabilità delle regole di tutela del mutuatario (si potrebbe fors’anche dire di trasparenza) – e, nel caso di specie, segnatamente di quella di cui all’art. 40, comma 2 tub – ai mutui ipotecari concessi dall’INPS ai propri iscritti.
La rimessione è giustificata tra l’altro, nella prospettiva del necessario indirizzo nomofilattico cui deve dar corso la Corte, dall’assenza di precedenti giurisprudenziali sul punto; circostanza, questa, che si pone in contrasto con la larghissima diffusione pratica del problema concreto nell’attuale. Come è noto, infatti, l’INPS ha ereditato dal soppresso INPDAP l’attività di concessione di finanziamenti finalizzati all’acquisto della casa di abitazione non di lusso per dipendenti e pensionati del settore pubblico. I numeri di tale attività si attestano, oggi, su cifre consistenti[1]. La stessa attività peraltro, a volgere il discorso nei termini sostanziali d’impresa, è caratterizzata da vantaggi non trascurabili sul piano concorrenziale, essendo previste ritenute d’acconto pari allo 0,35% dello stipendio lordo per i dipendenti pubblici e allo 0,15% della pensione lorda per i pensionati. Si tratta, come si vede, in sostanza di una raccolta di risparmio di misura enorme, tenuto anche conto che, nei fatti, la ritenuta stipendiale è di carattere obbligatorio e automatico.
2. Sullo sfondo della questione concreta esaminata si staglia la tematica di vertice relativa all’estensione del Titolo VI del TUB (art. 115) e quindi alla definizione delle strutture soggettive destinatarie della disciplina di trasparenza; interrogativo, questo, rispetto a cui la letteratura è attualmente orientata su soluzioni di progressiva e decisa apertura[2]. Per darne alcune esemplificazioni tangibili è sufficiente ricordare in proposito la lunga serie di problematiche che ha interessato l’attività bancaria delle Poste Italiane nel corso degli ultimi anni (mancata consegna del foglio informativo; ius variandi sui tassi d’interesse; clausole «p.f.r.»)[3] ivi compreso il rapporto tra conto corrente postale e conto corrente bancario[4]; nonché il tema dell’attività di concessione di piccoli finanziamenti da parte delle imprese di assicurazione e delle varie interferenze delle attività di queste con quella bancaria[5].
Una soluzione di apertura nei confronti dell’applicazione delle regole di trasparenza nei confronti di soggetti formalmente diversi dalle banche la cui attività assume i connotati di quella bancaria è suggerita, del resto, da diverse considerazioni di ordine generale. Se non altro, in questo senso depone il principio di ragionevolezza costituzionale, che impone di non trattare in modo differenziato situazioni che non presentano gradi di diversità apprezzabili. In via ulteriore, sta il significato dello stesso principio di trasparenza, da intendersi propriamente come fascio unitario di regole per la protezione della domanda in funzione dell’efficienza complessiva del mercato: di fronte all’identità di bisogno dal lato della clientela, è ragionevole assumere un’omogeneità della disciplina di base applicabile.
In effetti, il problema in discorso si appunta anche sul profilo della professionalità richiesta alle imprese nell’esercizio dell’attività bancaria. La regola di diligenza, pur dotata di un vettore propriamente interno, è funzionale al raggiungimento di un elevato standard di qualità dei prodotti immessi nel mercato e, come tale, è volta anche a stimolare la sua concorrenzialità in funzione della protezione della relativa domanda. Nel contesto bancario – il punto è noto – lo standard di qualità si attesta sempre su un gradino più elevato di quello posto dall’art. 1176, 2 comma c.c.; e questo a prescindere dalla forma e dalla natura della struttura soggettiva che concretamente tale attività viene a svolgere.
3. Venuta ad occuparsi di una fattispecie concreta in cui la mutuataria rivendicava l’applicazione dell’art. 40, 2 tub – che consente la risoluzione del finanziamento fondiario solo a seguito di sette inadempimenti rateali – di fronte ad una domanda di risoluzione dell’INPS giustificata da un più ridotto numero di rate inadempiute, l’ordinanza qui allegata propende per la soluzione dell’applicazione analogica, così riprendendo le indicazioni della dottrina. E ciò fa per diverse buone ragioni, che emergono dall’impianto motivazionale e vengono qui di seguito riportate.
In primo luogo la Corte, infatti, osserva come nel contesto dei finanziamenti ipotecari la posizione del mutuatario sia tenuta in speciale considerazione dal testo unico. L’art. 40 risulta, da questo angolo visuale, una norma di ispirazione e vocazione aperta: non chiusa nel campo del solo fondiario, ma iscritta nell’ambito del credito ipotecario esercitato nella forma professionale d’impresa. Del resto, la stessa norma viene adoperata come riferimento «di base» pure dall’art. 120-quinquiesdecies dettato in tema di credito immobiliare ai consumatori, dove l’intera disciplina è caratterizzata da una protezione più marcata della figura del mutuatario. Nella stessa prospettiva, di centralità della protezione della persona del mutuatario, depongono, in via ulteriore, pure le disposizioni sul frazionamento ipotecario (art. 39, commi 6 ss.) e sulla cancellazione delle ipoteche (art. 40-bis, comma 6).
Sempre sul versante delle regole vigenti, la Corte ricorda altresì come l’attività di prestazioni creditizie, che l’INPS svolge a fianco a quella previdenziale che le è istituzionale, non rimane di per sé stessa estranea alle prescrizioni normative contenute nel testo unico. In effetti, le previsioni contenute negli artt. 120 ter comma 2, 120 quater comma 9, nonché 40 bis comma 6 TUB, fanno espresso formale richiamo ai finanziamenti concessi (anche) dagli «enti di previdenza obbligatoria ai loro iscritti», quale è appunto l’INPS.
Da ultimo, a confermare l’applicazione dell’art. 40 tub alla fattispecie in esame potrebbe pure porsi – secondo la Corte – la constatazione che una serie di profili dell’attività di erogazione, gestione e recupero del credito sono – sotto il profilo negoziale in specie – oggettivamente non diversi (o, in ogni caso, accostabili tra loro), tanto se posti in essere da comuni imprese bancarie, quanto se compiuti da enti di previdenza obbligatoria. In questa prospettiva l’applicazione dell’art. 40 tub sarebbe allora sollecitata anche sulla base dei principi di ordine costituzionale: da quello della tutela della concorrenzialità del mercato, come ricavabile dall’art. 41, comma 1, Cost., nonché da quello della parità di trattamento tra situazioni tra loro oggettivamente non diverse, di cui all’art. 3 comma 2 Cost.
4. Un ulteriore argomento, tuttavia non speso nell’ordinanza qui allegata, è di carattere sistematico. L’opinione tradizionale, intesa a sostenere una sorta di franchigia di protezione nei confronti dell’INPS, poggia sulla ritenuta debolezza “strutturale” dell’ente di previdenza. Sull’avvertita necessità, per dire meglio, di dover esonerare dal rispetto di un fascio di stringenti regole tecniche un soggetto in realtà istituzionalmente deputato a svolgere attività altre rispetto a quella bancaria. E, in quanto tale, destinato a confrontarsi con una limitatissima domanda di mercato.
Ora, un discorso di questo tipo potrebbe al più stimarsi ragionevole con esclusivo riferimento alla fase iniziale di svolgimento di questa attività, come è, ad esempio, per l’ipotesi delle start-up; al limite nei casi in cui vi è una penuria di offerta di credito sul mercato. Si tratta, in ogni caso, di una constatazione ormai smentita dai numeri dell’oggi (v. nel n. 1): posta l’esistenza di una consistente domanda di mercato, nonché di una serie di incentivi disposti ex lege, quale senso potrebbe mai avere predicare ancora un trattamento di iperprotezione per l’ente previdenziale?
[1] Secondo le rilevazioni dei dati ISTAT il numero di dipendenti pubblici è in Italia grosso modo pari a 3,5 milioni
[2] In luogo di altri, cfr. Sciarrone Alibrandi, I contratti bancari: nozione e fonti, in Tratt. Contratti (a cura di) Roppo, Mercati Regolati, V, Milano, 2014, 639 ss.
[3] Su questi temi, in generale e con specifico riferimento alla tematica del foglio informativo, Malvagna, Buoni fruttiferi postali e trasparenza, in Riv. Dir. Banc., 2019, I, 547 ss.; sul tema della clausola con pari facoltà di rimborso, Lentini, Buoni fruttiferi postali «con pari facoltà di rimborso» e legittimazione alla riscossione nel caso di morte di un cointestatario, in Banca borsa tit. cred., 2021, II, spec. 40 ss.; sul tema dello ius variandi – cui fa da sfondo l’affermazione della natura privatistica del rapporto tra Poste e risparmiatore (in questo senso in giurisprudenza cfr. Cass., Sez. Un., 15 giugno 2007, n. 13979) – cfr. Carnevali, I buoni postali fruttiferi, la riduzione unilaterale dei tassi d’interesse originariamente fissati e le Sezioni Unite, in Contratti, 2019, 263.
[4] A questo proposito cfr. Cass., 27 ottobre 2020, n. 23477, secondo cui le disposizioni dettate per il conto corrente bancario «potrebbero non valere pure per il conto corrente postale, se non altro in via di applicazione estensiva. In effetti, non appare ravvisabile alcuna differenza significativa – sotto il profilo dell’operatività specificamente in questione – tra l’agire della posta e quello praticato dalle banche. Come, del resto, assicura per altro verso, pure l’”equiparazione” di Poste Italiane alle “banche italiane anche ai fini dell’applicazione delle norme del testo unico bancario”, che è stata espressamente disposta dal d.p.r. 14 marzo 2021, n. 144, art. 2 comma 5».
[5] A questo proposito, tra gli altri, cfr. Corrias, Le aree di interferenza delle attività bancaria e assicurativa tra tutela dell’utente e esigenze di armonizzazione del mercato finanziario, in Giust. Civ., 2015, 617 ss.