SOMMARIO: 1. La repressione dell’insider trading in Italia – 2. La sentenza della Corte Costituzionale – 2.1. La rimessione da parte della Corte d’Appello di Milano e le difese del Presidente del Consiglio dei Ministri e della Consob – 2.2. La pronuncia della Consulta: a) la retroattività della legge successiva più favorevole nel diritto penale – 2.3. (segue): b) l’estensione del principio del favor rei agli illeciti amministrativi, rilievi generali – 2.4. (segue): c) l’abuso di informazioni privilegiate – 2.5 (segue): d) il ruolo della novella del 2018 e i risvolti pratici della pronuncia
1.- La repressione dell’insider trading in Italia
Contrariamente a quanto si possa comunemente pensare, considerato l’enorme successo riscosso nei media, l’abuso di informazioni privilegiate è oggetto di attenzione da parte del legislatore italiano da meno di trent’anni: è dunque una fattispecie assai giovane, specie se raffrontata alla “gemella” figura della manipolazione di mercato che, seppure sotto il diverso nome di aggiotaggio, è stata perseguita e repressa fin dagli albori del codice penale e del codice civile [1].
Soltanto nel 1991, dopo più di quarant’anni dalle prime esperienze statunitensi [2], la l. 17 maggio 1991, n. 157, emanata in recepimento della c.d. direttiva insider trading (direttiva 89/592/CEE del Parlamento europeo e del Consiglio del 13 novembre 1989), ha infatti introdotto nel nostro ordinamento la fattispecie delittuosa in esame [3].
L’art. 2 della l. 157/1991, in particolare, puniva la violazione del divieto di insider trading con la reclusione fino ad un anno e con la multa da dieci milioni a trecento milioni di lire, con facoltà per il giudice di aumentare la multa fino al triplo quando, per la rilevante gravità del fatto, essa potesse ritenersi inadeguata anche se applicata nel massimo.
Fino ad allora, chiunque fosse stato in possesso di informazioni riservate riguardanti emittenti strumenti finanziari quotati in borsa o direttamente tali strumenti e ne avesse approfittato per effettuare investimenti sui mercati non sarebbe andato incontro ad alcuna sanzione. Segno evidente di una mancata percezione di disvalore di una simile condotta da parte della collettività, oggetto peraltro di ampio dibattito già nella terra d’origine del reato [4].
Con l’entrata in vigore del TUF (d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58), il reato di insider trading ha subito una prima importante rivisitazione. L’art. 180 disponeva infatti un notevole inasprimento del regime sanzionatorio: la pena detentiva passava da uno a due anni di reclusione, mentre la pena pecuniaria veniva raddoppiata sia nel minimo (venti milioni di lire) che nel massimo edittale (seicento milioni di lire).
La direttiva MAD (direttiva 2003/6/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 28 gennaio 2003) ha profondamente innovato la materia degli abusi di mercato, offrendone finalmente una disciplina sistematica e dettagliata a livello europeo. Pur trattandosi di un provvedimento di minima armonizzazione, come tale passibile di personalizzazioni a livello nazionale, la direttiva mirava a stabilire un quadro uniforme in tutta la comunità europea della disciplina degli abusi di mercato, fino ad allora oggetto di legislazioni differenti e spesso contrastanti nei singoli Paesi.
L’Italia ha recepito la direttiva MAD con la legge comunitaria 2004 (l. 18 aprile 2005, n. 62), per mezzo della quale sono state introdotte nel TUF due distinte fattispecie di insider trading: quella penale, oggetto dell’art. 184, e quella, del tutto nuova, di illecito amministrativo, oggetto dell’art. 187 bis.
Veniva così inserito nel nostro ordinamento il principio del c.d. “doppio binario” sanzionatorio, per cui per condotte in larga parte sovrapponibili si può essere sanzionati sia in sede penale, sia in sede amministrativa, ad opera, rispettivamente, del Giudice ordinario e della Consob.
Non è questa la sede per ripercorrere le alterne fortune del doppio binario, che oggi ha comunque trovato un pieno riconoscimento normativo e l’avallo, con qualche caveat, della giurisprudenza [5].
L’art. 187 bis del TUF, nella sua formulazione originaria, puniva l’illecito amministrativo di abuso di informazioni privilegiate con una sanzione pecuniaria compresa tra ventimila euro e tre milioni di euro, aumentabile fino al triplo o fino al maggiore importo di dieci volte il prodotto o il profitto conseguito qualora la sanzione, anche se comminata nel massimo, fosse in concreto inadeguata considerate le qualità personali del colpevole e l’entità del prodotto o del profitto.
Quelli erano però anni difficili per i mercati finanziari, attraversati da scandali aventi grande risonanza nei media dell’epoca: si pensi ai default di Cirio, Parmalat e Giacomelli, con i tribunali italiani intasati da giudizi promossi da investitori delusi nei confronti degli intermediari collocatori degli strumenti finanziari interessati.
Come reazione alla richiesta dell’opinione pubblica di sanzioni più afflittive per i responsabili di illeciti finanziari, il legislatore ha quindi emanato la discussa “legge risparmio” (l. 28 dicembre 2005, n. 262), che prevedeva, inter alia, il raddoppio di tutte le pene previste per i reati disciplinati dal TUF, dal TUB (d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385) e dalla l. 12 agosto 1982, n. 576 (in tema di assicurazioni private), nonché la quintuplicazione delle sanzioni pecuniarie ivi previste: tra le quali, ovviamente, quella dettata per l’abuso di informazioni privilegiate dall’art. 187 bis del TUF.
Per effetto di tale scomposto intervento legislativo [6], l’illecito amministrativo di insider trading veniva così punito con una sanzione pecuniaria compresa tra i limiti edittali di centomila euro e quindici milioni di euro, peraltro aumentabili fino al triplo al ricorrere dei presupposti menzionati supra.
La situazione si è cristallizzata fino al 2014, allorquando l’Italia ha recepito la direttiva CRD IV (direttiva 2013/36/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013 sull’accesso all’attività degli enti creditizi e sulla vigilanza prudenziale sugli enti creditizi e sulle imprese di investimento).
In particolare, con la l. 7 ottobre 2014, n. 154, il parlamento ha dato delega al governo di rivedere i limiti edittali delle sanzioni amministrative pecuniarie previste dal TUF e dal TUB interessate dalla direttiva CRD IV, valutando “l’estensione del principio del favor rei ai casi di modifica della disciplina vigente al momento in cui è stata commessa la violazione” [7].
Il governo ha esercitato la delega con il d.lgs. 12 maggio 2015, n. 72, intervenendo, tra l’altro, su tutti gli illeciti amministrativi previsti nel TUF e quindi anche sulla cornice edittale dell’illecito amministrativo di abuso di informazioni privilegiate. Nel dettaglio, l’art. 6, comma 3, del decreto ha dichiarato l’inapplicabilità della quintuplicazione delle sanzioni a suo tempo prevista dalla legge risparmio, ripristinando così i limiti edittali previsti originariamente dall’art. 187 bis del TUF (pena pecuniaria compresa tra ventimila euro e tre milioni di euro).
Particolarmente rilevante, per i fini che ci occupano, è l’art. 6, comma 2, del decreto, chiamato a regolare gli aspetti di diritto intertemporale. La norma prevedeva infatti che le modifiche apportate all’apparato sanzionatorio si applicassero alle violazioni commesse dopo l’entrata in vigore dei provvedimenti attuativi adottati da Banca d’Italia e Consob e che alle violazioni commesse precedentemente tale momento continuassero ad applicarsi le norme pro tempore vigenti.
In sostanza, la “dequintuplicazione” delle sanzioni pecuniarie introdotta dal decreto non operava per le condotte commesse prima dell’entrata in vigore del provvedimento. In tal modo, il legislatore accordava preferenza al principio del tempus regit actum piuttosto che a quello del favor rei, impedendo agli insiders attivi prima dell’entrata in vigore delle disposizioni attuative da parte delle competenti Autorità di vigilanza di beneficiare del più mite regime sanzionatorio previsto dal decreto.
Sulle previsioni del d.lgs. 72/2015 si sono incentrate le doglianze della Corte d’Appello di Milano, che ha dubitato della loro conformità alla Costituzione sotto diversi profili, come si dirà infra.
Infine, a seguito della modifica a livello comunitario della disciplina degli abusi di mercato, avvenuta con il regolamento MAR (Regolamento UE n. 596/2014 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 16 aprile 2014), il legislatore nazionale, con notevole ritardo, ha modificato le previsioni del TUF, tra le quali anche l’art. 187 bis.
In particolare, per effetto delle modifiche introdotte dal d.lgs. 10 agosto 2018, n. 107 (su delega conferita con la l. 25 ottobre 2017, n. 163), si prevede oggi una forbice edittale compresa tra euro ventimila (il limite minimo non è dunque cambiato) ed euro cinque milioni: con un inasprimento sostanziale rispetto al regime previgente.
2.- La sentenza della Corte Costituzionale
2.1.- La rimessione da parte della Corte d’Appello di Milano e le difese del Presidente del Consiglio dei Ministri e della Consob
Con ordinanza del 19 marzo 2017, la Corte d’Appello di Milano, ritenendola rilevante e non manifestamente infondata, ha rimesso alla Corte Costituzionale la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, del d.lgs. 72/2015.
Nel giudizio a quo si discuteva di una fattispecie di tipping, in cui un esponente aziendale di una società quotata era stato accusato dalla Consob di aver trasmesso alla moglie un’informazione privilegiata relativa a tale società, ben prima che venisse resa nota al pubblico.
La Consob aveva comminato al responsabile una sanzione amministrativa pecuniaria di euro 100.000, pari al minimo edittale previsto dall’art. 187 bis del TUF nella versione vigente all’epoca dei fatti; senza tener conto, quindi, della “dequintuplicazione” sancita dall’art. 6, comma 3, del d.lgs. 72/2015.
Il presunto insider aveva quindi adito la Corte d’Appello di Milano, dolendosi, inter alia, della mancata applicazione della norma appena richiamata.
L’Autorità di vigilanza, nel costituirsi in giudizio, aveva contestato le argomentazioni del ricorrente, sostenendo che all’applicazione dell’art. 6, comma 3, del d.lgs. 72/2015 ostasse il disposto di cui all’art. 6, comma 2, del medesimo decreto e che, in ogni caso, la retroattività in mitius della norma più favorevole fosse esclusa dai principi generali in tema di illeciti amministrativi contenuti nella l. 24 novembre 1981, n. 689.
Ad avviso del Giudice rimettente, l’art. 6, comma 2, del d.lgs. 72/2015, nella parte in cui modifica il quadro sanzionatorio in materia di abusi di mercato (il quesito in realtà ha una formulazione infelice, come rimarcato dalla Consulta, perché tale norma non modifica affatto le sanzioni in esame), sarebbe incostituzionale sotto due profili: (i) per contrarietà all’art. 3 della Costituzione, creando un’ingiustificata disparità di trattamento tra soggetti che avevano commesso fatti identici in momenti diversi; (ii) per contrarietà all’art. 117, primo comma, della Carta in relazione all’art. 7 della CEDU, che enuncia il principio di legalità in materia penale, interpretato in modo estensivo dalla Corte EDU fino a ricomprendere anche la retroattività della legge successiva se più favorevole al reo.
Nel giudizio avanti alla Consulta si sono costituiti il Presidente del Consiglio dei Ministri e la Consob.
Entrambi, limitandoci alle contestazioni sul merito, hanno sostenuto che non vi sarebbe alcun contrasto con l’art. 7 della CEDU, in quanto il principio del favor rei non troverebbe applicazione per gli illeciti amministrativi, se non quelli che, per caratteristiche specifiche, possano qualificarsi come “quasi-penali”, e con l’art. 3 della Costituzione, dal momento che il Governo, nell’emettere il d.lgs. 72/2015, si è mosso nello spazio di ampia discrezionalità concessagli dalla legge delega, senza compiere scelte manifestamente irragionevoli.
2.2.- La pronuncia della Consulta: a) la retroattività della legge successiva più favorevole nel diritto penale
Il primo aspetto toccato dalla sentenza in commento è rappresentato dal valore riconosciuto nel nostro ordinamento al principio del favor rei in caso di successione di leggi penali del tempo.
La norma di riferimento, come noto, è l’art. 2 c.p., quarto comma, secondo cui “Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile”.
La Consulta sottolinea come il fondamento costituzionale di tale principio non vada ravvisato nell’art. 25, secondo comma, della Carta (“Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”), che mira a garantire che il cittadino possa orientare le proprie scelte nella consapevolezza della loro eventuale liceità o antigiuridicità.
Si tratta di un orientamento oramai consolidato del Giudice delle leggi, ben riassunto nella sentenza 236/2011: il principio di retroattività della norma più favorevole “non ha alcun collegamento con la libertà di autodeterminazione individuale (protetta dall’art. 25 della Carta, NdR), per l’ovvia ragione che, nel caso considerato, la lex mitior sopravviene alla commissione del fatto, al quale l’autore si era liberamente autodeterminato sulla base del pregresso (e per lui meno favorevole) panorama normativo”.
Tuttavia, il principio non è privo di copertura costituzionale, da individuarsi però in altre due disposizioni della Costituzione: l’art. 3 e l’art. 117.
Sotto il primo profilo, squisitamente interno, il principio di eguaglianza non consente di trattare in modo diverso fatti identici, solo perché sono stati commessi prima o dopo l’entrata in vigore della norma mitigatrice. Per usare le parole della stessa Corte nella sentenza 236/2011, “non sarebbe ragionevole punire (o continuare a punire più gravemente) una persona per un fatto che, secondo la legge posteriore, chiunque altro può impunemente commettere (o per il quale è prevista una pena più lieve)”.
Se la collettività, cambiando giudizio, assegna un disvalore diverso e più mite alla condotta, non c’è ragione per applicare al reo una sanzione più alta, stabilita in un momento in cui la percezione della gravità del fatto era diversa.
Sotto il secondo profilo, il principio di favor rei ha una copertura di origine per così dire internazionale, mediata dall’art. 117 della Costituzione, norma che impone al legislatore di tener conto degli obblighi imposti allo Stato Italiano dalla normativa dell’Unione Europea e dagli accordi di diritto internazionale (“La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”).
Infatti, l’art. 7 della CEDU (“Nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso”), come interpretato dalla Corte di Strasburgo a partire dalla sentenza Scoppola contro Italia del 17 settembre 2009 [8], prevede che, in caso di contrasto tra la legge penale vigente al momento della commissione del reato e quello successive, vada applicata sempre quella più favorevole al reo.
Previsioni ancora più esplicite sono contenute nell’art. 15 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici (“Nessuno può essere condannato per azioni od omissioni che, al momento in cui venivano commesse, non costituivano reato secondo il diritto interno o il diritto internazionale. Così pure, non può essere inflitta una pena superiore a quella applicabile al momento in cui il reato sia stato commesso. Se, posteriormente alla commissione del reato, la legge prevede l’applicazione di una pena più lieve, il colpevole deve beneficiarne”) e nell’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (“Nessuno può essere condannato per un’azione o un’omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o il diritto internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso. Se, successivamente alla commissione del reato, la legge prevede l’applicazione di una pena più lieve, occorre applicare quest’ultima”).
Se, quindi, si tratta di un principio a (doppia) copertura costituzionale, non è però inderogabile da parte del legislatore, in presenza di interessi di analogo rango e rilievo.
In altre parole, il legislatore può decidere di non prevedere l’applicazione della lex mitior, purché tale decisione sia sorretta da una giustificazione oggettivamente ragionevole, soggetta allo scrutinio di costituzionalità della stessa Consulta, come da questa affermato nella sentenza 393/2006 [9].
2.3.- (segue): b) l’estensione del principio del favor rei agli illeciti amministrativi: rilievi generali
Il sistema del “doppio binario” comporta, lo si è accennato, la sovrapposizione di un illecito penale e di un illecito amministrativo, punito con sanzioni pecuniarie e accessorie, anche di natura interdittiva.
Nel nostro ordinamento, gli illeciti amministrativi sono disciplinati in via generale dalla l. 24 novembre 1981, n. 689, integrato o derogato dalle norme specificamente dedicate alle singole fattispecie, come è il caso degli abusi di mercato.
Pur presentando notevoli punti di somiglianza con gli illeciti penali, gli illeciti amministrativi non godono delle medesime guarentigie. Le tutele accordate in materia penale sono infatti in linea di massima applicabili solo se espressamente richiamate nella l. 689/81 o nelle previsioni specifiche che disciplinano gli illeciti.
Tra i principi propri del diritto penale che non sono recepiti nella normativa generale sugli illeciti amministrativi riveste particolare rilievo quello del favor rei in caso di successione di leggi nel tempo. Infatti, l’art. 1 della l. 689/1981, letto insieme all’art. 11 delle preleggi, sposa il diverso principio secondo cui tempus regit actum: all’autore dell’illecito è applicata la sanzione prevista nel momento in cui ha commesso la violazione.
Nel recente passato, è stata sottoposta alla Consulta la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 della l.689/1981, per contrarietà agli artt. 3 e 117 della Carta (in relazione all’art. 7 della CEDU), in quanto non prevede l’applicazione retroattiva della legge più favorevole.
La Corte Costituzionale, con la sentenza 193/2016, ha fugato i dubbi di legittimità della norma, sottolineando che anche nella giurisprudenza della Corte EDU non è mai stato oggetto di censura l’intero sistema delle sanzioni amministrative, ma singole fattispecie di illeciti amministrativi che presentavano una forte rassomiglianza con gli illeciti penali [10].
Del resto, gli illeciti amministrativi rappresentano un insieme eterogeneo di figure, non tutte assimilabili, per disvalore e reazione punitiva, a fattispecie criminose [11]. È quindi giustificabile che, in linea di massima, le tutele previste nel diritto penale non trovino generalizzata applicazione per questa tipologia di illeciti [12].
Tuttavia, come si è anticipato, alcune fattispecie di illecito amministrativo si caratterizzano per la risposta fortemente afflittiva e general-preventiva tipica della “materia penale”, in relazione alle quali – ma è un’indagine da condurre caso per caso – la Corte di Strasburgo (a cui la Consulta guarda) ha da tempo teorizzato l’estensione delle norme fondamentali del diritto penale, in primis il principio del favor rei di cui all’art. 7 della CEDU.
Il leading case in materia è rappresentato dal giudizio conclusosi avanti alla Corte EDU con la nota sentenza Engel vs. Paesi Bassi dell’8 giugno 1976.
In tale occasione, la Corte di Strasburgo ha innanzitutto chiarito che il nomen iuris attribuito all’illecito dal legislatore nazionale non è dirimente; se, infatti, fosse sufficiente classificare come illecito amministrativo un illecito avente tutte le caratteristiche di un illecito penale, si attribuirebbe al legislatore interno una discrezionalità assoluta nell’applicare o meno le tutele irrinunciabili connesse alla “materia penale”.
Ciò premesso, sono stati individuati alcuni criteri (c.d. “criteri Engel”) che devono guidare l’interprete per individuare quali, tra gli illeciti amministrativi, presentino tratti distintivi tipici degli illeciti penali: la qualificazione offerta dall’ordinamento interno, che come si è visto non è però di per sé concludente; la natura dell’illecito; la severità della sanzione applicata.
Sotto il profilo della natura dell’illecito, la Corte EDU invita a prestare attenzione ai seguenti elementi:
– la cerchia dei destinatari del precetto, non limitata a un determinato perimetro di soggetti contraddistinti da un particolare status;
– la finalità deterrente e punitiva della sanzione associata alla commissione dell’illecito;
– la prevalente qualificazione della fattispecie nei vari ordinamenti nazionali;
– l’associazione della sanzione con la commissione dell’illecito, con esclusione quindi delle misure preventive.
Inoltre, quanto alla severità della sanzione, particolare rilevanza viene assegnata alle fattispecie per le quali sono comminate sanzioni detentive e sanzioni pecuniarie di rilevante entità, indice di una carica afflittiva considerevole.
In applicazione dei “criteri Engel”, la Corte di Strasburgo ha nel tempo individuato diverse fattispecie di illecito amministrativo aventi natura sostanzialmente penale; tra queste, è bene ricordare, per la vicinanza con il caso di specie, l’illecito di manipolazione di mercato prevista dall’art. 187 ter del TUF nella versione all’epoca vigente, oggetto di attenzione nella sentenza Grande Stevens e altri vs. Italia del 4 marzo 2014 [13].
2.4.- (segue): c) l’abuso di informazioni privilegiate
Una volta ricostruita la rilevanza assegnata dal nostro ordinamento al principio del favor rei in materia penale ed esposti i presupposti per estenderne l’applicazione anche agli illeciti amministrativi, la Consulta procede alla verifica se l’illecito di cui all’art. 187 bis del TUF rientri tra le fattispecie di illecito “quasi penale”.
Al riguardo, dopo aver menzionato le precedenti pronunzie relative alla confisca per equivalente prevista per l’illecito de quo, cui era stata riconosciuta sostanzialmente punitiva (cfr. le sentenze 223/2018 e 68/2017), il Giudice delle leggi ha concluso in modo molto perentorio che “non v’è dubbio che la sanzione amministrativa prevista dall’art. 187 bis del d.lgs. n. 58 del 1998 abbia natura punitiva, e soggiaccia pertanto alle garanzie che la Costituzione e il diritto internazionale dei diritti umani assicurano alla materia penale, ivi compresa la garanzia della retroattività della lex mitior”.
La sanzione prevista dall’art. 187 bis del TUF, nella versione vigente all’epoca della rimessione alla Consulta, era caratterizzata da un’elevatissima carica afflittiva, con chiara funzione deterrente e general – preventiva, com’è tipico delle sanzioni penali.
Applicando quindi i già menzionati “criteri Engel”, la natura di illecito quasi-penale della fattispecie amministrativa di insider trading appare indiscutibile: a prescindere dalla sua qualificazione nell’ordinamento nazionale, che come si è visto non è un argomento decisivo, si tratta di un illecito comune (che colpisce quindi potenzialmente chiunque, a prescindere dal suo status), sanzionato con una pena gravemente afflittiva [14].
A quest’ultimo riguardo, considerato anche il disvalore non immediatamente apprezzabile della violazione, si coglie una reazione di natura tipicamente general-preventiva, come correttamente rilevato dalla Consulta. La pena non appare infatti tanto proporzionata alla gravità del fatto o alle sue conseguenze pratiche (l’insider trading potrebbe non portare effetti di rilevo in danno della società emittente o degli investitori), quanto modulata per avere un’efficacia deterrente e prevenire la commissione di analoghe violazioni da parte di altri soggetti [15].
È quindi conseguente che a una simile fattispecie debbano applicarsi le tutele tipiche della materia penale, prima tra tutte il principio della retroattività della norma più lieve per il reo in caso di successione di leggi nel tempo [16].
Del resto, sempre in materia di abuso di informazioni privilegiate, la Consulta ha ancora più recentemente considerato di natura penale anche la sanzione accessoria della confisca, prevista dall’art. 187 sexies del TUF, seppure al fine di applicare il diverso principio della proporzionalità della pena [17].
Rimane solo da verificare se l’applicazione del principio della retroattività della lex mitior, non di valore assoluto, possa essere derogata in presenza di ragionevoli motivi, specificamente individuati dal legislatore.
Due erano state le motivazioni addotte dal governo in sede di emanazione del decreto legislativo: non sarebbe stato ragionevole applicare il principio del favor rei solo ad alcune disposizioni amministrative piuttosto che ad altre; sarebbe stata da evitare l’applicazione della nuova norma con riferimento ai procedimenti sanzionatori pendenti.
Entrambi gli argomenti non convincono la Corte Costituzionale, e a ragione.
Il primo è chiaramente infondato e la Consulta lo rimarca con decisione: in presenza di una norma (l’art. 1 della l. 689/1981) che stabilisce in linea generale l’irretroattività della legge indipendentemente dal fatto che sia migliorativa o meno per il reo, la giurisprudenza della Corte EDU e della stessa Corte Costituzionale hanno individuato, come si è ampiamente detto, alcuni casi in cui, per la loro natura prettamente punitiva, ad alcune fattispecie di illecito amministrativo debba applicarsi il principio del favor rei. Pertanto, è proprio nella natura delle cose applicare il principio in parola solo ad alcune fattispecie di illecito amministrativo, in considerazione della loro prossimità, per natura e disciplina, agli illeciti penali.
Al contrario, è il pretendere che l’irretroattività assurga a principio generale in materia di sanzioni amministrative a essere a forte sospetto di irragionevolezza, come correttamente osserva il Giudice delle leggi.
Il secondo argomento è probabilmente ancora più fragile: la retroattività di una legge, per definizione, va sempre a incidere sulla situazione pregressa, ivi compresi i procedimenti pendenti.
La Consulta conclude quindi per l’incostituzionalità dell’art. 6, comma 2, del d.lgs. 72/2015, nella parte in cui esclude la retroattività delle modifiche apportate dal comma 3 della medesima disposizione alle sanzioni amministrative previste dall’art. 187 bis del TUF. In via consequenziale, il Giudice delle leggi ha esteso la pronuncia anche con riferimento alla fattispecie gemella della manipolazione di mercato, di cui all’art. 187 ter del TUF.
2.5.- (segue): d) il ruolo della novella del 2018 e i risvolti pratici della pronuncia
Come si è già anticipato, il d.lgs. 107/2018 ha modificato l’art. 187 bis del TUF, che ora punisce l’illecito amministrativo di abuso di informazioni privilegiate con una sanzione pecuniaria compresa tra ventimila euro ed euro cinque milioni. È stato quindi innalzato il massimo edittale rispetto alla versione primigenia della norma e rispetto alla versione depurata dalla quintuplicazione operata dalla Legge Risparmio. Considerata invece la quintuplicazione, la nuova formulazione della norma è decisamente migliorativa.
Nel giudizio avanti alla Corte Costituzionale era stato obiettato dalle parti resistenti che la novella legislativa avesse fatto perdere d’interesse e rilevanza la questione di legittimità costituzionale proposta dal ricorrente. La Consulta ha però liquidato la questione rilevando che il legislatore del 2018 nulla abbia disposto in merito all’applicazione nel tempo della nuova disciplina, “facendo così ritenere che abbia inteso assegnarle efficacia soltanto per il futuro”.
La questione merita un approfondimento.
Infatti, viene dato per scontato dalla Consulta che, con riferimento agli illeciti commessi tra il gennaio 2006 (data di entrata in vigore della Legge Risparmio) e l’agosto 2018 (data di entrata in vigore del d.lgs. 107/2018), non si debba guardare né alla sanzione quintuplicata per effetto della Legge Risparmio, in ossequio alla norma più mite introdotta dal 2015 da applicarsi anche retroattivamente, né tantomeno allo ius superveniens del 2018, che disporrebbe solo per l’avvenire.
Quest’ultima affermazione, esternata in termini così perentori, può a prima vista lasciare perplessi. L’intenzione del legislatore di confinare al futuro l’applicazione della norma, ai sensi dell’art. 1 della l. 689/1981 e dell’art. 11 delle Preleggi, non dovrebbe essere decisiva, seguendo lo stesso ragionamento operato dalla Consulta nella sentenza in commento: se la fattispecie amministrativa di insider trading ha natura sostanzialmente penale in applicazione dei “criteri Engel”, lo è anche nella nuova formulazione, identica alla precedente se non per la rideterminazione dei limiti edittali.
Tuttavia, il Giudice delle leggi non avrebbe potuto concludere in modo diverso. Per scardinare con effetti erga omnes il principio generale della irretroattività della legge amministrativa è infatti necessaria un’espressa indicazione in tal senso da parte del legislatore (che qui manca) o una dichiarazione di incostituzionalità da parte della stessa Consulta, a fronte della rimessione da parte del giudice a quo (e anche questa circostanza non si è verificata nel caso di specie).
In difetto di tali presupposti, non era nel potere della Consulta applicare nel caso di specie la disposizione di cui al d.lgs. 107/2018.
Del resto, è assai improbabile che una questione di illegittimità costituzionale per violazione del principio del favor rei venga proposta con riferimento a tale norma.
Infatti, per effetto della pronuncia qui in commento, la Consob e i tribunali dovranno applicare, con riguardo agli illeciti amministrativi di insider trading commessi tra il 2005 (anno di entrata in vigore dell’art. 187 bis del TUF) e il 2018 (anno di entrata in vigore del d.lgs. 107/2018) la sanzione pecuniaria originariamente prevista dall’art. 187 bis del TUF, depurata della quintuplicazione operata dalla Legge Risparmio: sanzione ricompresa tra i limiti edittali di ventimila euro e tre milioni di euro.
La sanzione prevista dal d.lgs. 107/2018 è invece più alta, per lo meno con riguardo al limite massimo della pena: non è quindi interesse del reo invocarne l’applicazione retroattiva.
La pronuncia della Consulta si rivelerà decisiva per tutti i procedimenti sanzionatori pendenti relativi a condotte di insider trading e market manipulation commesse tra il 2005 e il 2018. Le corti territoriali e la Corte di Cassazione saranno infatti chiamate ad intervenire, nei giudizi di opposizione promossi dai presunti responsabili di abusi di mercato, sulle sanzioni comminate dalla Consob in applicazione di norme ritenute in parte inapplicabili dal Giudice delle leggi.
Sarà interessante verificare quali criteri verranno adottati dai giudici in tutti in quei casi in cui le sanzioni già applicate dall’Autorità di vigilanza rientrino comunque nella cornice edittale dell’art. 187 bis del TUF nella versione depurata dalla quintuplicazione disposta dalla Legge Risparmio (situazione che si verificherà pressoché sempre, ad eccezione delle ipotesi in cui la Consob abbia comminato sanzioni superiori al massimo edittale) [18].
Infatti, in tale eventualità occorrerà rimodulare la sanzione tenendo conto del fatto che essa era stata fissata dalla Consob avendo evidentemente in mente la distanza dai limiti edittali; è infatti presumibile che, nei casi delle violazioni più gravi, fosse stata applicata una pena vicina al limite massimo e viceversa, nei casi meno gravi, una pena più vicina al limite minimo [19].
[1] L’art. 501 c.p. (Rialzo e ribasso fraudolento di prezzi sul pubblico mercato o nelle borse di commercio) non è oggi l’unica norma ad occuparsi dell’aggiotaggio. Oltre alle due fattispecie contenute nel TUF (il reato e l’illecito amministrativo di manipolazione di mercato di cui, rispettivamente, agli artt. 185 e 187 ter), deve essere menzionato l’art. 2637 c.c., rubricato, appunto, “aggiotaggio”, che ha sostituito l’originario art. 2628 c.c. (Manovre fraudolente sui titoli della società).
[2] La prima norma in materia, ovviamente molto generica, è infatti la Rule 10b-5 emanata dalla SEC nel 1942.
[3] L’art. 1 della direttiva conteneva la seguente definizione di abuso di informazione privilegiata: “un’informazione che non è stata resa pubblica, che ha un carattere preciso e che concerne uno o più emittenti di valori mobiliari o uno o più valori mobiliari e che, se resa pubblica, potrebbe influire in modo sensibile sul corso di tale o tali valori mobiliari”. Erano quindi già presenti i quattro requisiti tipici della precisione, inerenza, non pubblicità e price sensitivity che ricorrono ancora oggi.
Gli artt. 2 e 3 disciplinavano inoltre quelle che sono anche oggi le tre declinazioni dell’illecito di abuso di informazioni privilegiate: il trading vero e proprio, il tipping e il tuyautage.
[4] Secondo una corrente di pensiero, l’insider trading rappresenterebbe un fenomeno naturale dei mercati finanziari, persino benefico. Premierebbe infatti i manager più intraprendenti, risolvendosi in un aumento della remunerazione ad essi spettante per aver gestito bene la società emittente; avrebbe una funzione segnaletica dei prezzi e garantirebbe una più veloce trasmissione ai mercati delle informazioni riservate; consentirebbe una equilibrata stabilizzazione dei prezzi di borsa, evitando gli effetti dirompenti della diffusione improvvisa delle informazioni privilegiate.
Si tratta in realtà di argomentazioni non decisive, se solo si pensa: che le notizie riservate possono essere anche negative per l’emittente, “premiando” così anche i manager inadeguati. Non solo: gli amministratori delle società emittenti potrebbero essere indotti alla produzione di notizie riservate in modo da poterne approfittare in via privilegiata; che non necessariamente ai casi di insider trading si accompagna uno spostamento significativo delle quotazioni degli strumenti finanziari interessati; che non sempre gli operatori di borsa sono in grado di leggere correttamente i movimenti dei prezzi dei titoli negoziati.
In verità, lo scetticismo circa la necessità o meno di punire l’abuso di informazioni privilegiate sorge a causa della difficoltà nell’individuazione dell’interesse protetto dalle norme incriminatrici: al di là di un generico disvalore riconosciuto da sempre alla pratica dell’insider trading, non è facile scorgere il bene giuridico leso da chi pone in essere tale condotta. Le soluzioni proposte nel tempo non si sono rivelate soddisfacenti. Per esempio, non è corretto identificare l’interesse protetto nella tutela degli emittenti o delle controparti delle operazioni interessate, che spesso non subiscono alcun danno dalle condotte di abuso di informazioni privilegiate; né può essere ragionevolmente sostenuto che la repressione dell’insider trading miri a garantire una sorta di parità di condizioni a tutti coloro che si avvicinano ai mercati finanziari (c.d. teorie del market egalitarianism): infatti, è fisiologico che operatori professionali come banche e investitori istituzionali abbiano a disposizione un set di conoscenze maggiori rispetto agli investitori retail, investendo maggiori risorse nella ricerca e nell’elaborazione delle notizie relative ad emittenti e strumenti finanziari.
In realtà, ciò che è ritenuto eticamente scorretto e che merita di essere evitato è l’utilizzo di informazioni che nessun altro può conoscere, nemmeno usando tutti gli sforzi e gli strumenti leciti a disposizione. Sotto questo profilo, la diffusione delle pratiche di insider trading è in grado di minare la fiducia degli investitori nel mercato finanziario e, in ultima analisi, potrebbe spingerli ad allocare altrove le proprie risorse. Il bene tutelato è quindi, secondo l’opinione oggi prevalente, l’efficienza del mercato, coperta dall’art. 47 della Costituzione (per una ricostruzione accurata del dibattito sulla punibilità dell’abuso di informazioni privilegiate, cfr. Napoleoni, L’insider trading, ne La disciplina penale dell’economia, Bologna 2008, I, 643 ss.; Sgubbi, Diritto penale del mercato finanziario, Padova 2008, 28 ss.).
[5] Con la nota sentenza Grande Stevens vs. Italia del 4 marzo 2014, la Corte EDU aveva stabilito che per uno stesso fatto non si potesse essere sanzionati due volte, dapprima nel procedimento amministrativo (per un illecito caratterizzato da una tale afflittività del peso della sanzione da poter essere considerato sostanzialmente penale) e successivamente nel processo penale. Veniva quindi contestata la violazione dell’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (Diritto di non essere giudicato o punito due volte per lo stesso reato: “Nessuno può essere perseguito o condannato per un reato per il quale è stato già assolto o condannato nell’Unione a seguito di una sentenza penale definitiva conformemente alla legge) e dell’art. 4 del Protocollo 7 della Carta Europea dei diritti dell’uomo (Diritto di non essere giudicato o punito due volte: “Nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è stato già assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge e alla procedura penale di tale Stato”): norme che stabilivano il divieto di ne bis in idem in materia penale.
L’orientamento della Corte EDU è però cambiato radicalmente con la sentenza A e B vs. Norvegia del 15 novembre 2016. La Corte affida al giudice nazionale il compito di stabilire se ricorra o meno un’ipotesi di ne bis in idem, valutando se i procedimenti penale e amministrativo presentino, oltre all’identità del fatto storico e alla natura sostanzialmente penale delle sanzioni, l’ulteriore requisito di un nesso materiale e temporale sufficientemente stretto, prendendo in considerazione le peculiarità del caso concreto. La Corte EDU ritiene possibile l’inizio e lo svolgimento dei due procedimenti, a condizione che, da un punto di vista sostanziale, la risposta sanzionatoria complessiva sia proporzionata alla gravità del fatto e prevedibile da parte del reo.
All’orientamento espresso dalla Corte EDU si sono allineate la Corte di Giustizia (Garlsson Real Estate SA vs. Consob del 20 marzo 2018 e Di Puma / Zecca vs. Consob del 20 marzo 2018) e, in Italia, la Corte Costituzionale (sentenza del 24 gennaio 2018, n. 43) e la Corte di Cassazione (sentenza del 10 ottobre 2018, n. 45829).
Sul piano normativo interno, l’attuale art. 187 terdecies del TUF, come modificato dal d.lgs. 10 agosto 2018, n. 107, appare rispettoso di tali principi.
Per una compiuta illustrazione del dibattito sul tema, cfr. Tripodi, Cumuli punitivi, ne bis in idem e proporzionalità, nella Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2017, 1047; Ruggiero, Il ne bis in idem: un principio alla ricerca di un centro di gravità permanente, in Cass. Pen. 2017, 3809; Mucciarelli, Illecito penale, illecito amministrativo e ne bis in idem: la Corte di Cassazione e i criteri di stretta connessione e di proporzionalità, in Diritto penale contemporaneo, 2017.
[6] Tripodi, Le nuove regole del mercato finanziario: l’aumento delle sanzioni penali e amministrative, nel Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia diretto da Galgano, Padova 2009, 727; Gullo, Gli interventi sul sistema sanzionatorio, ne La tutela del risparmio della riforma dell’ordinamento finanziario, Bologna 2008, 587.
[7] L’art. 3 della legge delega non menzionava espressamente le norme del TUF in tema di abusi di mercato tra quelle oggetto dell’intervento del legislatore delegato. Infatti, si citavano gli artt. 188 (Abuso di denominazione), 189 (Partecipazioni al capitale), 190 (Sanzioni amministrative pecuniarie in tema di disciplina degli intermediari), 191 (Offerta al pubblico di sottoscrizione e di vendita), 192 bis (Informazioni sul governo societario), 192 ter (Ammissione alle negoziazioni), 193 (Informazione societaria e doveri dei sindaci, dei revisori legali e delle società di revisione legale) e 194 (Deleghe di voto).
Il governo, nel dare attuazione alla delega, è invece intervenuto su tutte le sanzioni amministrative previste dal TUF, probabilmente per esigenze di coordinamento in attuazione del principio contenuto nello stesso art. 3 della legge delega (anche se nella Relazione illustrativa non si dà conto delle ragioni dell’estensione).
La Corte d’Appello di Milano ha rimesso alla Corte Costituzionale la questione di legittimità dell’art. 6, comma 2, del d.lgs. 72/2015, per contrarietà all’art. 77 (meglio: 76) della Costituzione.
La Consulta, nella sentenza qui in commento, ha però dichiarato inammissibile la questione, in quanto formulata in modo contraddittorio dal giudice a quo (che nella stessa ordinanza di rimessione invocava un trattamento più mite per il reo proprio in virtù della norma di cui contestava la legittimità costituzionale) e in quanto la norma censurata non interveniva direttamente sull’art. 187 bis del TUF, come sembrava invece evincersi dal quesito.
[8] La Corte EDU ha statuito in tale occasione che “L’art. 7 della Convenzione, che stabilisce il principio del divieto di applicazione retroattiva della legge penale, incorpora anche il corollario del diritto dell’accusato al trattamento più lieve”.
[9] Secondo la Consulta nella sentenza citata, “eventuali deroghe al principio di retroattività della lex mitior, ai sensi dell’art. 3 Cost., possono essere disposte dalla legge ordinaria quando ricorra una sufficiente ragione giustificativa”. Non basta quindi che la deroga non sia irragionevole: occorre superare un vaglio positivo di ragionevolezza, di modo che il principio del favor rei possa essere sacrificato solo in vista della tutela di interessi di analogo rilievo, tra i quali vengono citati, a mo’ di esempio, l’efficienza del processo, la salvaguardia dei diritti dei soggetti destinatari della funzione giurisdizionale, esigenze dell’intera collettività connesse a valori costituzionali di primario rilievo.
[10] Nella sentenza citata, il Giudice delle leggi conclude per l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata con riferimento all’art. 1 della l. 689/1981, rilevando che “non si rinviene nel quadro delle garanzie apprestato dalla CEDU, come interpretate dalla Corte di Strasburgo, l’affermazione di un vincolo di matrice convenzionale in ordine alla previsione generalizzata, da parte degli ordinamenti interni dei singoli Stati aderenti, del principio della retroattività della legge più favorevole, da trasporre nel sistema delle sanzioni amministrative”.
[11] Chibelli, La problematica applicabilità del principio di retroattività favorevole alle sanzioni amministrative, in Diritto penale contemporaneo, 2016.
[12] Secondo alcuni Autori, i tempi sarebbero maturi per un ripensamento dell’intera questione da parte del legislatore nazionale, che dovrebbe optare per l’estensione del principio del favor rei anche alla materia amministrativa (cfr. Galdi, La Corte esclude ancora l’estensione generalizzata alle sanzioni amministrative dell’applicazione retroattiva del trattamento più favorevole, ma apre la porta a valutazioni caso per caso, nell’Osservatorio costituzionale dell’Associazione Italiana dei costituzionalisti, fasc. 3/2016.
[13] In quel caso, la Corte di Strasburgo ha sottolineato come per l’illecito amministrativo di manipolazione di mercato siano previste pene pecuniarie e interdittive di innegabile severità, tale da farle rientrare nell’ambito della materia penale.
[14] Gasparri, Abuso di informazioni privilegiate, ne Il Testo Unico della Finanza a cura di Fratini e Gasparri, tomo III, Torino 2012, 2429; D’Andrea, Abuso di informazioni privilegiate, in Diritto penale dell’economia diretto da Cadoppi, Canestrari, Manna e Papa, Torino 2017, I, 459;
[15] La natura penale della sanzione pecuniaria in materia di insider trading era già stata affermata dalla Corte di Giustizia nella sentenza Di Puma vs. Consob del 20 marzo 2018. La Corte di Lussemburgo aveva infatti sostenuto che le sanzioni amministrative previste dall’art. 187 bis del TUF perseguissero una finalità repressiva e presentassero un elevato grado di severità, tale da assimilarle a sanzioni penali.
[16] Un Autore correttamente osserva che, in applicazione dei criteri Engel, sarà difficile che possa essere negata, in futuro, la natura penale alle sanzioni amministrative, sia di carattere pecuniario che interdittive e accessorie (cfr. Scoletta, Retroattività favorevole e sanzioni amministrative punitive: la svolta, finalmente, della Corte Costituzionale, in Diritto penale contemporaneo, 2019).
[17] Sentenza del 10 maggio 2019, n. 112.
[18] La norma post Legge Risparmio prevedeva una sanzione pecuniaria compresa tra 100.000 euro e 15 milioni di euro, mentre dopo l’intervento della Consulta la sanzione torna ad essere compresa tra 20.000 euro e 3 milioni di euro. Se la Consob ha comminato una sanzione superiore a 3 milioni di euro, va da sé che la pena debba essere ridotta, perché superiore al “nuovo” massimo edittale. Il problema sorge se, poniamo, l’Autorità ha applicato una sanzione di 200.000 euro, compatibile con le cornici edittali della norma in entrambe le formulazioni.
[19] Nell’esempio della nota precedente (sanzione di 200.000 euro, compatibile con i limiti edittali della norma nella vecchia e nella nuova formulazione post intervento della Consulta), non sarebbe equo confermare la sanzione già comminata dalla Consob, che era stata fissata, chiaramente, tenendo conto della “vicinanza” al limite minimo. Infatti, la pena, prima solo doppia rispetto al minimo edittale, si trova ora ad essere dieci volte superiore rispetto a tale parametro, pur non essendo cambiato il giudizio di disvalore.
Una soluzione potrebbe essere applicare una proporzione tra la sanzione e il minimo edittale, dove la sanzione vecchia stia al limite minimo vecchio come la sanzione nuova stia al limite minimo nuovo; nell’esempio, avremmo una sanzione rideterminata in 40.000 euro.