Riflessioni a margine del decreto del Trib. Milano, 3 ottobre 2019
Sommario: 1. Il fatto e i motivi della decisione – 2. La legittimazione attiva dei ricorrenti – 3. Insolvenza attuale (o imminente) e insolvenza prospettica – 3.1. Le manifestazioni esteriori dell’insolvenza – 3.1.1. Gli inadempimenti – 3.1.2. Gli altri fatti esteriori – 3.2. L’orizzonte temporale di riferimento – 3.3. Il concetto di insolvenza reversibile – 4. I concetti di crisi e insolvenza nel Codice della Crisi. Cosa cambia rispetto alla disciplina vigente – 4.1 Crisi e insolvenza nella disciplina vigente – 4.2 La distinzione concettuale fra crisi e insolvenza nel Codice della Crisi – 4.3 Implicazioni pratiche della distinzione fra crisi e insolvenza nel Codice della Crisi – 4.3.2 La distinzione fra crisi e insolvenza nel Codice della Crisi ai fini dell’accesso agli strumenti di risoluzione della situazione di difficoltà dell’impresa – 4.4 Possibili modifiche e ulteriore differimento dell’entrata in vigore del Codice della Crisi – 5. Conclusioni
1. Il fatto e i motivi della decisione
La decisione in commento origina dalla presentazione di un ricorso per la dichiarazione di fallimento di una nota compagnia di navigazione (Moby S.p.A.) da parte di un gruppo di creditori, costituito da alcuni fondi di investimento esteri titolari di obbligazioni emesse dalla società.
A fondamento dell’istanza di fallimento, il gruppo di obbligazionisti afferma la sussistenza di uno stato di insolvenza attuale in capo alla società debitrice e, in via subordinata, la sua insolvenza prospettica in uno spazio temporale “inferiore all’anno”.
Dopo avere respinto le eccezioni sollevate dalla società debitrice circa la legittimazione attiva dei ricorrenti, il Tribunale di Milano esclude la sussistenza dell’insolvenza (attuale) rilevando l’assenza di manifestazioni esteriori della stessa in quanto la società: (i) non ha “alcuna esposizione tributaria o previdenziale”; (ii) “non risulta incapace, allo stato, di far fronte alle obbligazioni scadute” essendo “recentemente rientrata nei confronti delle banche, facendo fronte alla rata annuale del prestito contratto nel 2016”; (iii) “funziona regolarmente”; (iv) “non è oggetto di iniziative esecutive, o monitorie”; (v) è “in grado di fornire i servizi che vende”; e infine (vi) “non è inadempiente nei confronti dei ricorrenti” i quali vantano un credito in scadenza nel 2023.
Richiesto di valutare anche la sussistenza e la rilevanza di un’insolvenza prospettica, anche avuto riguardo a talune operazioni della società debitrice ritenute potenzialmente lesive del patrimonio sociale e degli interessi dei creditori[1], il collegio articola il proprio ragionamento muovendo, in particolare, dai concetti di insolvenza e di crisi sia secondo la normativa vigente, sia in base al Codice della Crisi di prossima entrata in vigore. Più in particolare, il collegio rileva che:
- tradizionalmente, la dichiarazione di fallimento è connessa all’accertamento di uno stato insolvenza attuale e irreversibile, che si manifesta all’esterno attraverso indici ricorrenti (primi tra tutti, gli inadempimenti). Tale accertamento si sostanzia in una “previsione negativa sulla possibilità che i crediti dell’impresa possano trovare integrale soddisfazione”;
- anche alla luce dei più recenti orientamenti comunitari, che configurano le procedure concorsuali quali strumenti di emersione tempestiva della crisi[2], l’insolvenza assume rilievo non solo quando sia attuale e manifesta, ma anche quando essa “si sta per manifestare all’esterno in tutta la sua gravità”;
- in tali casi occorre distinguere tra casi di insolvenza imminente e inevitabile (appunto “prospettica”), equiparabile all’insolvenza attuale, e casi di insolvenza solo possibile o probabile (che coincide con lo stato di semplice “crisi”). Sul punto il provvedimento appare chiaro nell’affermare che “diviene importante capire quando si è di fronte a c.d. insolvenza prospettica e, invece, si è di fronte a sola crisi di varia entità”;
- a rilevare ai fini della dichiarazione di fallimento è solo l’insolvenza imminente e inevitabile, la cui irreversibilità, sebbene non ancora verificata, è già immediatamente apprezzabile/prevedibile (c.d. insolvenza “prospettica”); diversamente, non può essere dichiarato fallito l’imprenditore che versi in uno stato di insolvenza “possibile” o “probabile” che, oltre a essere solo intrinseca e non manifesta, neppure è imminente e inevitabile (e coincide, in sostanza, con lo stato di semplice “crisi”, che spesso è – o comunque ben può essere – reversibile);
- è individuabile una zona grigia[3] dove la crisi può assumere diversi livelli di gravità, che spazia dalla insolvenza “prospettica”, imminente e irreversibile e, come tale, già rilevante ai fini della dichiarazione di fallimento, sino alla mera situazione di crisi (temporanea) che può – in termini di probabilistici – sfociare in un vero e proprio stato di insolvenza e che, tuttavia non è attuale (né imminente o prospettico), bensì semplicemente futuribile, e non è di per sé sufficiente ai fini della dichiarazione di fallimento;
- l’insolvenza prospettica deve necessariamente essere valutata in relazione a un orizzonte temporale molto contenuto, perché “quanto più la prognosi è lontana nel tempo, tanto più si possono inserire nel meccanismo imprenditoriale fattori nuovi e imprevedibili” potenzialmente in grado di risolvere la crisi. In proposito, ricorrendo ai parametri interpretativi offerti dal nuovo Codice della Crisi, i giudici milanesi affermano che la prognosi di insolvenza “è stata sdoganata integralmente come concetto previsionale dalla futura riforma che entrerà in vigore nell’agosto 2020 [n.d.r. il Codice della Crisi, la cui entrata in vigore è allo stato prevista al 1° settembre 2021, salvo ulteriori rinvii], con un orizzonte temporale semestrale, ma è utilizzata come situazione di pericolo, che giustifica la segnalazione interna affidata all’organo di controllo, o giustifica la segnalazione esterna affidata ai grandi creditori istituzionali” nell’ambito degli strumenti di allerta ex art. 12 ss. del nuovo Codice, ma non vale ad integrare il presupposto oggettivo rilevante ai fini della dichiarazione di fallimento (rectius, della apertura della liquidazione giudiziale).
Alla luce delle considerazioni di cui sopra, nel caso in commento il Collegio – pur dando atto di alcune incertezze e di possibili rilevanti rischi ai quali era soggetta la società debitrice (quali, in primis, il rinnovo della convenzione con lo Stato Italiano e l’esito del procedimento sugli aiuti di Stato pendente innanzi alla Commissione) – afferma che “allo stato non vi sono manifestazioni esteriori… per poter ritenere sicuramente la società prospetticamente insolvente a breve”.
Ma oltre a ritenere che Moby non versasse in stato di insolvenza né attuale, né prospettica, il Tribunale ha ravvisato anche un’ulteriore – e forse di per sé assorbente – ragione ostativa alla dichiarazione di fallimento, e cioè l’”insussistenza, allo stato, della condizione di dichiarazione di fallimento, rappresentata da 30.000 euro di debiti scaduti al termine dell’istruttoria”[4].
Il Tribunale conclude quindi respingendo l’istanza di fallimento “per carenza della condizione di fallibilità e per carenza di insolvenza attuale”.
Interessanti anche alcuni obiter dicta, nei quali il Tribunale sottolinea che:
- mediante la proposizione dell’istanza di fallimento gli obbligazionisti sembrano aver voluto “incentivare”l’apertura di una procedura minore, che “con la sua disclosure e sottoposizione a controllo dell’attività amministrativa” indurrebbe maggior fiducia negli investitori, non potendo determinare da soli l’avvio (riservato al debitore) del concordato preventivo e non potendo nemmeno esperire l’azione ex art. 2409 c.c. (riservata ai soci) né quella ex art. 2394 c.c., non essendo venuto meno il patrimonio sociale;
- sarà necessario monitorare con attenzione l’evoluzione dei segnali emersi nel corso della istruttoria prefallimentare, da cui risulta che la gestione della società “non mostra particolare attenzione alla continuità aziendale” e che l’attuale crisi “in prospettiva ha caratteristiche importanti e che potrebbero divenire molto gravi”. In mancanza di iniziative tempestive, soprattutto alla luce delle modifiche apportate agli art. 2086 c.c. e 2257 c.c. dal Codice della Crisi[5]e già in vigore, il collegio sindacale e gli amministratori potrebbero incorrere in responsabilità.
Nei fatti, Moby S.p.A. ha depositato ricorso di pre-concordato presso il Tribunale di Milano, che, con decreto del 9 luglio 2020, ha concesso alla società termine fino al 28 ottobre 2020 (poi prorogato al 28 marzo 2021) per la presentazione di un piano e una proposta di concordato preventivo, ovvero di una domanda di omologa di accordo di ristrutturazione dei debiti. Alla data odierna, la complessa vicenda della ristrutturazione di Moby S.p.A. non sembra avere ancora trovato una soluzione.
2. La legittimazione attiva dei ricorrenti
Preliminarmente, la pronuncia in commento affronta e risolve in senso favorevole la questione relativa alla legittimazione attiva dei ricorrenti, titolari di obbligazioni per oltre 1 milione di euro emesse dalla società resistente, a proporre istanza di fallimento. La questione è rilevante poiché, a quanto risulta dal provvedimento in commento, il prestito obbligazionario è regolato da un trust indenture soggetto alla legge dello Stato di New York, contenente, come da prassi, una no action clause, ossia una clausola secondo la quale la gestione delle richieste e iniziative, anche processuali, degli obbligazionisti contemplate dallo stessotrust indenture spetta esclusivamente al trustee.
La pronuncia offre spunto per una riflessione (di tipo generale, e svincolata dalle previsioni specifiche del trust indenture) sulla legittimazione degli obbligazionisti ad agire individualmente nei confronti dell’emittente in presenza – come spesso accade in questo tipo di emissioni obbligazionarie – di una no action clause.
Generalmente, i trust indenture dicommon law individuano precise ipotesi di inadempimento rilevante e altre circostanze(c.d. event of default) che legittimano i claim e le azioni dei bondholders (prima fra tutte la c.d. acceleration, che equivale, nella sostanza, a una dichiarazione di decadenza dal beneficio del termine[6]). Peraltro, nella prassi dei trust indenture è comune la previsione per cui tali claim e azioni non possono essere avviati individualmente dal singolo bondholder: infatti, anche al fine di ovviare alla dispersione dei titoli ed evitare la duplicazione delle iniziative, il trustee viene contrattualmente legittimato ad agire in luogo degli obbligazionisti nei confronti dell’emittente, al verificarsi degli eventi e circostanze rilevanti individuati dall’indenture.
Nella fattispecie in esame, il Collegio afferma che il trustee:
- “non è titolare del credito dei bondholders” e “non procede nemmeno alla riscossione degli interessi e delle relative cedole che maturano”; e
- svolge una funziona di mera “semplificazione del funzionamento del rapporto tra la società emittente e gli stessi [gli obbligazionisti, n.d.r.]ed unificazione delle iniziative attinenti l’esecuzione del contratto stesso”.
Pertanto, secondo il Collegio:
- il rapporto tra bondholders e trustee ha natura non fiduciaria, ma meramente contrattuale (assimilabile a quella di un mandato collettivo, nell’accezione di cui all’art. 1726 cod. civ.: “conferito da più persone con un unico atto e per un affare d’interesse comune”);
- in simili fattispecie, deve ritenersi che la no action clause non comporti la privazione degli obbligazionisti di qualsiasi legittimazione a esperire azioni inerenti al proprio credito, ma solo una rinuncia a esperire individualmente quelle relative ai claim contrattuali e agli events of default contemplati nel trust indenture. Di conseguenza, fuori dalle ipotesi espressamente previste, la no action clause non pregiudica i diritti individuali degli obbligazionisti previsti dalla legge[7]. D’altra parte, la stessa necessità di prevedere una no action clause è ritenuta indicativa della generale legittimità delle azioni individuali[8];
- nel caso in esame, sussiste la legittimazione attiva dei ricorrenti alla istanza per la dichiarazione di fallimento, non rientrando tra le azioni espressamente riservate al trustee dal trust indenture[9].
3. Insolvenza attuale e insolvenza prospettica (o imminente)
La pronuncia in commento offre spunto per una riflessione in merito al concetto di insolvenza, e in particolare all’orizzonte temporale cui fare riferimento ai fini del relativo accertamento.
La nozione di insolvenza è stata oggetto di elaborazione in giurisprudenza e dottrina, le quali tradizionalmente la individuano nella impossibilità strutturale – e non transitoria – dell’imprenditore di adempiere regolarmente e con normali mezzi solutori alle proprie obbligazioni, per il venir meno della liquidità necessaria per lo svolgimento della sua attività[10].
L’insolvenza rilevante ai fini della dichiarazione di fallimento consiste quindi in uno stato di incapacità in primo luogo finanziaria, ma anche economico-patrimoniale (che tipicamente incide in maniera negativa, fra l’altro, sulla possibilità di accedere credito, acuendo il problema finanziario) tale da rendere tale incapacità finanziaria strutturale, non transitoria e quindi – tendenzialmente[11] – irreversibile[12].
Sebbene, come è stato osservato, l’attributo di “irreversibilità” dell’incapacità finanziaria non sia sempre immancabile in tutte le insolvenze[13], esso è certamente sufficiente a qualificare l’incapacità finanziaria in termini di insolvenza. Tale insolvenza potrà poi essere “attuale”, laddove l’imprenditore non sia già più “in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni” e sarà invece “prospettica”, laddove l’imprenditore versi prospetticamente (in termini di ragionevole certezza) in una situazione di incapacità finanziaria irreversibile. È stato correttamente rilevato che è difficile parlare di certezza quando si tratti di prognosi future[14], e proprio per questo appare necessario– come osservato anche nel provvedimento in commento – che l’insolvenza prospettica sia valutata in relazione a un orizzonte temporale molto contenuto o imminente, perché “quanto più la prognosi è lontana nel tempo, tanto più si possono inserire nel meccanismo imprenditoriale fattori nuovi e imprevedibili” potenzialmente in grado di risolvere la crisi.
Fermo quanto sopra, l’art. 5, comma 2, l. fall. individua un indice per l’accertamento dello stato di insolvenza (attuale), laddove prevede che esso si manifesta “con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”. Tale disposizione è stata trasposta invariata nel Codice della Crisi[15].
Lo svolgimento dell’attività di impresa comporta per l’imprenditore la continua assunzione di obbligazioni nei confronti dei propri fornitori (intesi in senso lato) e il sorgere di crediti verso i propri clienti. Semplificando, l’equilibrio finanziario dell’impresa sussiste qualora l’imprenditore riceva i pagamenti dovuti in misura e in tempi tali da poter provvedere al pagamento integrale dei propri debiti alla relativa scadenza.
Di conseguenza:
- il venir meno di queste condizioni non consente all’imprenditore di fare fronte alle proprie obbligazioni. Laddove assuma portata strutturale e irreversibile, tale incapacità finanziaria si trasforma in insolvenza (che sarà attuale, laddove tale incapacità finanziaria “strutturale e irreversibile” sia già in atto o invece prospettica, laddove tale incapacità finanziaria “strutturale e irreversibile” sia imminente)[16];
- al contrario, l’imprenditore che ha sufficienti disponibilità liquide per adempiere alle proprie obbligazioni alla scadenza non potrà essere dichiarato fallito, pur in presenza di perdite progressive e costanti. In presenza di adeguate disponibilità finanziarie, infatti, le perdite costituiscono indizio di un possibile stato di insolvenza futuro, ma non attuale (né imminente o prospettico).
3.1. Le manifestazioni esteriori dell’insolvenza
3.1.1. Gli inadempimenti
Il disposto normativo di cui all’art. 5 l. fall. individua gli “inadempimenti” come indici più tipici dell’insolvenza (oltre a non tipizzati “altri fatti esteriori”). Va tuttavia evidenziato che l’inadempimento è un mero indizio dell’insolvenza e non ne costituisce elemento necessario né sufficiente. Infatti:
- da un lato, l’inadempimento non comporta necessariamente insolvenza. Si pensi al caso “del debitore che volontariamente rifiuti di adempiere alla propria obbligazione contestandone l’ano il quantum”, oppure a quello “che si trovi nella sola temporanea impossibilità di soddisfare alcuni creditori, quando possa prospetticamente valutarsi che tale situazione è superabile, ad esempio, con la riscossione di crediti di certo realizzo, che lo stesso vanta nei confronti di terzi”[17];
- dall’altro lato, l’insolvenza non necessariamente richiede l’esistenza di un inadempimento. Si pensi al caso “dell’imprenditore che adempie alle proprie obbligazioni con mezzi anormali, ad esempio cedendo i propri beni in luogo del pagamento”[18];
- in ogni caso, l’inadempimento di una singola obbligazione può determinare l’accertamento dello stato di insolvenza solo qualora dimostri in modo inequivoco l’oggettiva situazione di dissesto e impossibilità a far fronte regolarmente agli obblighi assunti[19].
In linea con i principi generali in materia di inadempimento[20], è stato affermato che l’inadempimento possa assumere rilevanza ai fini della dichiarazione di fallimento solo qualora non sia irrilevante (non a caso l’art. 15 comma 9, l. fall. stabilisce una “soglia di rilevanza”,: v. supra sub nota 4).
La giurisprudenza e la dottrina tradizionalmente affermano che, ai fini della dichiarazione di fallimento, lo stato di insolvenza deve essere accertato attraverso una valutazione globale, sia quantitativa, sia qualitativa, in particolare dei debiti e dei crediti, in ogni caso a prescindere dalle cause che l’hanno determinato[21].
Può accadere tuttavia che l’indisponibilità finanziaria sia solo temporanea e non dipenda dal comportamento del debitore. Nel caso oggetto della pronuncia del Trib. Benevento, 18.12.2019[22], ad esempio, il Tribunale di merito ha ritenuto che il mancato pagamento dei creditori non fosse imputabile al debitore, in quanto la causa del suo inadempimento era da ravvisarsi nella mancata riscossione dei suoi crediti (certi, liquidi ed esigibili) nei confronti della P.A. In tale caso, si è ritenuto che il debitore potesse dimostrare, in sede prefallimentare, (i) non solo la non imputabilità del proprio inadempimento, provando di essere titolare di crediti certi, liquidi ed esigibili nei confronti della P.A., il cui ritardato pagamento da parte della P.A. rappresentava una causa estranea alla sfera di controllo del debitore, (ii) ma anche la transitorietà dell’insolvenza che, conseguentemente non era da considerarsi né strutturale, né irreversibile, posto che avrebbe potuto essere superata agevolmente con l’incasso (previsto di lì a breve) o quantomeno lo “smobilizzo” dei crediti vantati nei confronti della P.A..
La sentenza citata è certamente interessante, ma sembra presupporre una definizione ampia di “non imputabilità” dell’inadempimento al debitore. Occorre infatti distinguere il caso in cui un debitore non adempie alle proprie obbligazioni per ragioni a lui non imputabili in senso “oggettivo” (inerenti all’obbligazione da adempiere ovvero alla contro-prestazione), dal caso in cui l’inadempimento discenda da ragioni meramente “soggettive” (inerenti il debitore in sé e la sua attitudine/idoneità ad adempiere l’obbligazione). La circostanza che un debitore vanti crediti (liquidi, certi ed esigibili) nei confronti di un soggetto che non paga, non sembra costituire di per sé causa di giustificazione (o non imputabilità) del suo inadempimento[23]. O almeno, tale circostanza non sembra “non imputabile” al debitore più di quanto possa apparirgli (non) imputabile avere sostenuto una spesa necessaria, improvvisa e non prevedibile (si pensi al ripristino di un sito produttivo a seguito di una calamità naturale) che abbia esaurito la liquidità necessaria al pagamento dei propri creditori.
Ciò non toglie che – come rilevato dal Tribunale di Benevento nella pronuncia sopra citata – la circostanza che il debitore che vanti a sua volta crediti nei confronti di un debitore che non paga (nel caso affrontato dalla sentenza, la P.A.) possa rilevare in relazione al requisito della temporaneità dell’insolvenza (e quindi circa il fatto che l’insolvenza sia o meno strutturale e quindi – tendenzialmente irreversibile). Nel caso di specie, infatti, il debitore avrebbe forse potuto (in un lasso di tempo ragionevole, e comunque da valutarsi nel caso concreto) “smobilizzare” i crediti vantati nei confronti della PA, avvalendosi ad esempio di un operatore specializzato, al fine di acquisire la finanza necessaria per adempiere alle proprie obbligazioni.
Sotto questo profilo, appare infatti ragionevole ritenere che non possa vedersi dichiarato fallito l’imprenditore che, in ambito prefallimentare, fornisca la prova della titolarità di crediti di sicuro e pronto realizzo, il cui valore risulta adeguato a soddisfare le pretese dei propri creditori.
3.1.2. Gli altri fatti esteriori
Fermo quanto sopra, ai fini dell’accertamento della sussistenza dello stato di insolvenza si devono considerare anche altri “fatti esteriori” rilevanti.
La giurisprudenza di legittimità annovera tra i tipici “fatti esteriori”che dimostrano l’incapacità dell’imprenditore di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni, ad esempio, l’eccedenza del passivo sull’attivo patrimoniale, pur precisando che essa non è da sola sufficiente all’accertamento dell’insolvenza[24].
Al contrario, l’eventuale prevalenza dell’attivo sul passivo non esclude automaticamente la sussistenza dello stato di insolvenza, laddove ricorrano altri indici significativi (quali gli inadempimenti): l’eccedenza dell’attivo potrebbe infatti dipendere dal valore di beni patrimoniali che risultano però non agevolmente liquidabili[25].
3.2. L’orizzonte temporale di riferimento
Tradizionalmente si è considerata rilevante la sola insolvenza attuale, facendosi dipendere la dichiarazione di fallimento dalla circostanza che, al momento della dichiarazione, l’imprenditore versasse in uno stato di incapacità irreversibile di fare fronte regolarmente alle proprie obbligazioni[26].
Sotto questo profilo si è tuttavia osservato che una valutazione prognostica è sempre necessaria per poter accertare la irreversibilità dell’insolvenza, non potendosi altrimenti distinguere la difficoltà transitoria dalla incapacità strutturale e permanente a far fronte regolarmente alle proprie obbligazioni. È quindi ormai pacifico anche in giurisprudenza che l’indagine sullo stato di insolvenza non si identifichi con il mero dato contabile, ma debba invece compiersi in una prospettiva dinamica, valutando le prospettive aziendali in un lasso di tempo futuro, ancorché contenuto[27].
Sulla scorta delle considerazioni che precedono, si è sviluppato un orientamento secondo cui il fallimento sarebbe dichiarabile anche in una situazione di insolvenza non attuale, ma imminente, ossia nel caso in cui, pur in assenza di indici tipici del dissesto (quali gli inadempimenti), la situazione economico-finanziaria sia tale che possa con ragionevole certezza prevedersi l’insorgere, a breve termine, dell’incapacità strutturale ad assolvere regolarmente alle proprie obbligazioni[28].
In giurisprudenza, si segnalano:
- Cass. 20 novembre 2018, n. 29913, cit., secondo cui sussistono i presupposti per la dichiarazione di fallimento qualora, dai dati contabili dell’impresa, sia possibile desumere che il debitore non disponga di risorse idonee a fronteggiare, in modo regolare, le proprie obbligazioni, tenuto conto dei relativi termini di scadenza e della natura e composizione dei beni patrimoniali da cui sia ipotizzabile ricavare quanto necessario per farvi fronte;
- Trib. Milano 10 novembre 2009, secondo cui, ai fini della dichiarazione di fallimento, l’insolvenza deve essere attuale; e, seppur nella visione della dinamica imprenditoriale possa considerarsi l’insolvenza “prospettica”, l’incapacità del debitore a far fronte alle sue obbligazioni deve comunque rivelarsi di imminente verificazione o comunque misurabile in non lunghi periodi tempo (nella specie, era stato accertato che, in grazia dell’accordo di ristrutturazione, il debitore avrebbe potuto fronteggiare tutti i debiti scaduti e quelli in scadenza nell’anno successivo)[29];
- Trib. Torino 14 novembre 2008, secondo cui, laddove possa prevedersi con assoluta certezza l’esaurirsi della liquidità, deve senz’altro ravvisarsi lo stato di insolvenza,“non ancora attuale ma di imminente (ed anzi a brevissimo termine) verificazione, non rimediabile (soprattutto nel ridotto lasso di tempo a disposizione, appunto prima dell’esaurirsi della liquidità) con l’alienazione di cespiti patrimoniali”.[30]
- Trib. Roma 5 settembre 2008[31], che ha dichiarato lo stato di insolvenza di Alitalia ai fini dell’accesso alla procedura di amministrazione straordinaria. Il Tribunale, preso atto della grave crisi derivante “dalle pesanti perdite dell’ultimo esercizio […]; dalle attuali stime relative all’andamento della compagnia nel terzo trimestre 2008, le quali evidenziano un patrimonio netto negativo; dall’indebitamento totale […]; il tutto a fronte di strumenti finanziari ormai alquanto ridotti”, ha ritenuto che l’insolvenza della compagnia aerea fosse imminente e inevitabile[32].
In tali precedenti, l’insolvenza non attuale, ma comunque imminente e inevitabile, è stata ritenuta presupposto della dichiarazione di fallimento.
Lo stesso non può dirsi, come già anticipato, dell’insolvenza solo possibile o anche probabile, ma non ancora imminente e inevitabile (né tanto meno irreversibile).
In tale ultimo caso, infatti, l’imprenditore versa in una condizione di difficoltà finanziaria che si avvicina all’insolvenza senza tuttavia esserlo già, definibile come “temporanea difficoltà ad adempiere” o “insolvenza reversibile”[33]. Tale condizione sussiste ogni qual volta non vi siano manifestazioni esteriori dell’insolvenza né sussistano elementi tali da poter ritenere con sicurezza che l’impresa sarà insolvente nel breve termine.
Infatti, sebbene ai fini dell’accertamento della irreversibilità dell’insolvenza sia necessario un giudizio prognostico sulla persistenza dell’incapacità dell’imprenditore a far fronte ai propri debiti, la prognosi non può andare oltre il limite temporale dell’imminenza e della inevitabilità. In altri termini, il requisito oggettivo di cui all’art. 5 l. fall. non può essere interpretato estensivamente al punto da ritenerlo integrato laddove i “fatti esteriori” sintomatici dell’insolvenza siano solo eventuali, per quanto probabili, ma non imminenti e inevitabili[34].
Sulla scorta di analoghe considerazioni, nella pronuncia in commento i giudici milanesi hanno affermato di non poter dichiarare il fallimento della società resistente in quanto – non solo mancava una condizione di procedibilità, ma addirittura – hanno ritenuto che la prospettata insolvenza dipendesse da “molteplici elementi imprenditoriali incerti” e non fosse quindi certamente imminente e irreversibile[35].
La soluzione adottata dal Collegio appare equilibrata e condivisibile in quanto tutela non solo l’interesse della società resistente a proseguire la propria attività, ma anche quello dei relativi dipendenti e creditori alla prosecuzione dei rapporti e a una soddisfazione dei propri crediti più celere di quanto non possa avvenire in un contesto concorsuale.
3.3. Il concetto di insolvenza reversibile
Dovrebbe inoltre escludersi che l’imprenditore possa essere dichiarato fallito qualora, in sede prefallimentare, emerga che l’insolvenza sia reversibile, ossia superabile attraverso l’ordinaria prosecuzione dell’attività di impresa (ad esempio, qualora tale prosecuzione consenta la riscossione di crediti di certo realizzo: v. supra sub 3.1.2), ovvero, come più di frequente accade, attraverso il ricorso a uno degli strumenti di composizione della crisi (quali il piano attestato, l’accordo di ristrutturazione dei debiti o il concordato preventivo), purché tempestivamente “attivati”[36].
A ben vedere, la nozione di “insolvenza”, come risultante dalla elaborazione giurisprudenziale e dottrinale (v. supra sub § 3), si basa sul concetto di “impossibilità strutturale” (e non meramente transitoria) dell’imprenditore a fare fronte alle proprie obbligazioni e quindi mal si concilia con il carattere della reversibilità. Nei casi in cui l’insolvenza abbia carattere reversibile – e in particolare quando il superamento dell’insolvenza sia conseguibile anche attraverso la prosecuzione dell’attività di impresa – parrebbe opportuno utilizzare il concetto di “crisi”, precisamente nel significato più ampio (e che include quello di insolvenza, anche “reversibile”) che viene assegnato a tale termine nell’attuale legge fallimentare (v. infra sub § 4.1).
Peraltro, il dato normativo e la giurisprudenza non chiariscono se la nozione di insolvenza reversibile vada intesa nel senso che la dichiarazione di fallimento debba essere esclusa qualora, anche alla luce dell’attivo patrimoniale dell’imprenditore (o di altri elementi ravvisabili caso per caso), l’insolvenza appaia prospetticamente risolvibile mediante il ricorso a uno degli strumenti previsti dalla legge fallimentare, quali il piano di risanamento, l’accordo di ristrutturazione dei debiti o il concordato preventivo (sia esso in continuità o liquidatorio). Parrebbe invero eccessivo ritenere che l’astratta possibilità di risolvere lo stato di insolvenza attraverso uno dei predetti strumenti possa escludere l’insolvenza (anche perché si tratta di strumenti che richiedono adesioni o consensi di un numero qualificato di creditori); certo è, per contro, che l’attivazione di tali strumenti nelle forme e nei tempi previsti dalla legge fallimentare può condurre alla ristrutturazione dei debiti ed escludere quindi la dichiarazione di fallimento.
Anche in pendenza dell’istanza per la dichiarazione di fallimento, il debitore avrà infatti diritto di proporre ricorso per l’ammissione alla procedura di concordato preventivo (anche “con riserva” ex art. 161, comma 6 l. fall.), con la conseguenza che – salvi naturalmente i casi di abuso del mezzo concordatario – il fallimento potrà essere dichiarato solo qualora la procedura concordataria si concluda con esito negativo[37].
4. I concetti di crisi e insolvenza nel Codice della Crisi. Cosa cambia rispetto alla disciplina vigente
4.1. Crisi e insolvenza nella disciplina vigente
Nella legge fallimentare è prevista una definizione di “insolvenza”[38], ma non è prevista una definizione espressa di “crisi”. Il concetto di “crisi” è stato introdotto nella attuale legge fallimentare solo con la riforma del 2005, che ha stabilito che può accedere al concordato preventivo il debitore in stato di “crisi”[39].
L’introduzione del riferimento al concetto di “crisi” ha da subito suscitato alcuni dubbi e un vivace dibattito, poiché ci si chiedeva, ad esempio, se il concordato preventivo fosse accessibile all’imprenditore in “crisi”, ma non anche a quello insolvente e, nel caso, quali fossero i requisiti per distinguere lo stato di “crisi” da quello di insolvenza[40]. Tali dubbi sono stati poi chiariti dallo stesso legislatore che, all’indomani della riforma del 2005, ha introdotto nel medesimo art. 160 l. fall. un apposito comma che prevede espressamente che “ai fini di cui al primo comma per stato di crisi si intende anche lo stato di insolvenza”[41].
Anche per effetto di tale precisazione, non vi sono ormai dubbi circa il fatto che il concetto di “crisi”- nella attuale legge fallimentare – includa quello di insolvenza[42]. Nell’assetto della attuale legge fallimentare, dunque, la crisi si pone rispetto all’insolvenza in rapporto di “genere a specie”[43], tale da potersi rappresentare graficamente quale sistema a “cerchi concentrici” (il cerchio più ampio rappresentato dalla definizione di “crisi”, che racchiude in sé il cerchio più ridotto, rappresentato dalla definizione di “insolvenza”).
4.2. La distinzione concettuale fra crisi e insolvenza nel Codice della Crisi
Sotto questo profilo, il Codice della Crisi apparentemente muta approccio. Il legislatore introduce infatti una definizione ad hocdi “crisi” identificandola con “lo stato di squilibrio[44] economico-finanziario che rende probabile l’insolvenza del debitore, e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate”.
Tale definizione si aggiunge a quella di “insolvenza”, che nel Codice della Crisi recepisce la definizione di insolvenza già prevista nella attuale legge fallimentare, descritta come “lo stato del debitore che si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”.
Si tratta pertanto di due definizioni autonome, che descrivono due situazioni – almeno concettualmente – ben distinte: (i) quella di crisi, che si risolve in uno stato di squilibrio economico-finanziario che rende probabile l’insolvenza[45] (e che quindi la precede), (ii) quella di insolvenza, che ricorre qualora il debitore non sia più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni.
Come si è anticipato, tale nuova impostazione supera quindi quella dell’attuale legge fallimentare che – per espressa previsione normativa – considerava l’insolvenza una forma particolarmente “grave” di crisi, strutturale e non meramente transitoria.
Ma se nel sistema del CCII occorre dunque tenere distinti i due concetti, la linea di demarcazione fra lo stato di crisi e quello di insolvenza (specie se “prospettica”) può risultare in concreto piuttosto labile.
Almeno concettualmente, l’insolvenza, come sopra delineata, è caratterizzata da una (sostanziale) “certezza” e (almeno tendenziale) “irreversibilità”; caratteristiche che, nel caso dell’insolvenza prospettica, sono da proiettare su un orizzonte temporale (non ancora attuale, bensì) imminente.
La crisi, per contro, corrisponde a uno stato di squilibrio economico-finanziario tale da sfociare in vera e propria insolvenza solo in termini di probabilità e quindi, per definizione, di incertezza.
In concreto, tuttavia, la distinzione non è agevole, posto che tutto sembra ruotare intorno al concetto di insolvenza certa (attuale o imminente) e insolvenza probabile(ma non ancora certa).
4.3. Implicazioni pratiche della distinzione fra crisi e insolvenza nel Codice della Crisi
Se da un punto di vista pratico, come si è visto, distinguere tra “crisi” e “insolvenza” può non essere agevole, tale distinzione non è comunque priva di conseguenze e ha significative implicazioni. Essa rileva, infatti, quantomeno sotto due profili:
- ai fini della dichiarazione di fallimento (e, nella vigenza del CCII, dell’apertura della procedura di liquidazione giudiziale); e
- ai fini dell’accesso agli strumenti di risoluzione della situazione di difficoltà dell’impresa (i.e. della crisi, nella accezione generica attualmente utilizzata dalla legge fallimentare).
Entrambi tali profili verranno brevemente illustrati nei paragrafi che seguono.
4.3.1. La distinzione fra crisi e insolvenza nel Codice della Crisi ai fini della dichiarazione di fallimento (rectius, liquidazione giudiziale)
Si è visto che la prima implicazione pratica della distinzione fra crisi e insolvenza operata dal CCII riguarda la possibilità di dichiarare il fallimento (ovvero la liquidazione giudiziale) dell’imprenditore nel caso in cui versi in stato di insolvenza (attuale o prospettica), ma non invece ove esso versi semplicemente in stato di crisi, per sua natura reversibile.
Tale profilo è affrontato in maniera sostanzialmente condivisibile anche nel provvedimento in commento. Come si è visto[46], esso infatti afferma che “diviene importante capire quando si è di fronte alla c.d. insolvenza prospettica e, invece, quando si è di fronte alla sola crisi di varia entità”. In altre parole, anche alla luce del consolidato orientamento giurisprudenziale maturato nel corso degli ultimi anni (su cui si veda il precedente paragrafo 3), appare necessario distinguere fra insolvenza (anche prospettica) e crisi (intesa in senso stretto) posto che, come è stato correttamente osservato, “solo nella prima ipotesi, verrebbe da concludere, sarebbe possibile l’immediata dichiarazione di fallimento, mentre nel secondo caso sarebbe applicabile un percorso di interventi che il legislatore si appresta a delineare con il nuovo codice della crisi e dell’insolvenza”[47].
Nel passaggio argomentativo successivo, tuttavia, il provvedimento in commento sembra tuttavia sovrapporre i concetti di crisi e insolvenza: –dopo avere dato atto che “l’insolvenza prospettica, creazione tutta dottrinale e giurisprudenziale, è necessariamente legata ad un orizzonte temporale molto contenuto, perché quanto più la prognosi è lontana nel tempo, tanto più si possono inserire nel meccanismo imprenditoriale fattori nuovi ed imprevedibili”, ilTribunaleafferma che “essa [si direbbe l’insolvenza prospettica, menzionata subito prima]è stata sdoganata integralmente come concetto previsionale dalla futura riforma che entrerà in vigore nell’agosto 2020 [poi, come sappiamo, prorogata al settembre 2021], con un orizzonte temporale semestrale, ma è utilizzata come situazione di pericolo che giustifica la segnalazione interna affidata all’organo di controllo, o giustifica la segnalazione esterna affidata ai grandi creditori istituzionali. Ciò avviene infatti nell’ambito delle misure di allerta, ovvero di misure di prevenzione dell’insolvenza e non per consentire una declaratoria di fallimento indiscriminata di tutti coloro che, in prospettiva anche abbastanza prossima (sei mesi appunto), potrebbero non essere in grado di far fronte alle scadenze dei propri debiti programmati”[48].
Tale passaggio del provvedimento è stato criticato in dottrina, essendosi correttamente rilevato che“il tribunale, pur riferendosi giustamente alla nuova imminente disciplina, sembra assumere che l’insolvenza prospettica, definita correttamente una “creazione tutta giurisprudenziale”, e “legata ad un orizzonte temporale molto contenuto”, finisca per identificarsi con la nozione di crisi, e cioè con la “situazione di pericolo che giustifica la segnalazione interna affidata all’organo di controllo, o giustifica la segnalazione esterna affidata ai grandi creditori istituzionali”. Con il che le nozioni di insolvenza prospettica e di crisi finiscono per sovrapporsi e divenire un tutt’uno: una soluzione che, ai fini della futura applicazione delle misure di allerta è, come già detto, assolutamente condivisibile, ma che crea qualche problema sul fronte, limitrofo, dell’applicazione della disciplina del fallimento e, in un futuro prossimo, della liquidazione giudiziale, sempre che resti fermo il convincimento che la liquidazione giudiziale, alias il fallimento, possa essere dichiarata anche in presenza di una prognosi di imminente sicura insolvenza e mantenendo quindi una separazione concettuale pratica tra probabilità di insolvenza “[49].
Al di là delle questioni terminologiche, sembra che la giurisprudenza (anche quella più recente, inclusa quella in commento) e la dottrina siano concordi nel ritenere che la semplice probabilità di insolvenza – declinata su un orizzonte temporale pur contenuto, ma non immediato (quale è il semestre utilizzato quale parametro per la normativa del CCII sulla c.d. allerta) – non sia sufficiente ai fini della dichiarazione di fallimento (o, a seguito dell’entrata in vigore del CCII, della liquidazione giudiziale). In questo senso la distinzione fra insolvenza (attuale o prospettica – se come tale si intende quella imminente e sostanzialmente certa) e semplice crisi (intesa quale mera probabilità di insolvenza), ai fini della dichiarazione di fallimento (o della liquidazione giudiziale), appare confermata anche alla luce del nuovo CCII, che non si discosta sul punto dalla prassi consolidatasi nel vigore della attuale legge fallimentare.
4.3.2. La distinzione fra crisi e insolvenza nel Codice della Crisi ai fini dell’accesso agli strumenti di risoluzione della situazione di difficoltà dell’impresa
Il secondo profilo rispetto al quale verificare le conseguenze della distinzione fra crisi e insolvenza attiene al presupposto oggettivo per l’accesso ai vari strumenti previsti dall’ordinamento per la risoluzione dello stato di crisi o di insolvenza del debitore.
Il CCII – non diversamente dalla attuale legge fallimentare – consente all’”imprenditore in stato di crisi o di insolvenza” l’accesso siaagli “accordi in esecuzione di piani attestati di risanamento” (di cui all’art. 56 del CCII), che riprendono gli attuali piani attestati ex art. 67 comma 3, lettera d) l. fall., siaagli “accordi di ristrutturazione dei debiti” (di cui agli artt. 57 e ss. del CCII), che riprendono gli attuali accordi di ristrutturazione dei debiti di cui all’art. 182-bisl. fall., sia, infine, al concordato preventivo (di cui agli artt. 84 e ss. del CCII). All’atto pratico, quindi, la distinzione fra crisi e insolvenza non appare essenziale per l’accesso ad alcuno degli strumenti sopra indicati, che sono utilizzabili in entrambe le situazioni.
La definizione di stato di crisi (e, quindi, anche la sua distinzione rispetto allo stato di insolvenza) parrebbe per contro rilevante, almeno prima faciee salve comunque ulteriori modifiche del dettato normativo, ai fini dell’applicazione della normativa sugli assetti organizzativi, sulle misure di allerta e di composizione della crisi.
Anzitutto, l’art. 2086 cod. civ. (rubricato “Gestione dell’impresa”) – già in vigore[50] – dispone, al suo secondo comma, che: “l’imprenditore, che operi in forma societaria o collettiva, ha il dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell’impresa e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale”.
A tale disposizione si aggiunge la disciplina – destinata ad entrare in vigore, salve modifiche, il 1° settembre 2021 – prevista dagli artt. 12 e seguenti del CCII e avente ad oggetto le “Procedure di allerta e di composizione assistita della crisi”. Tale disciplina individua gli indicatori e gli indici di crisi, in presenza dei quali sorgono (i) gli obblighi di segnalazione posti a carico dell’organo di controllo (c.d. “allerta interna” di cui all’art. 14 CCII) e dei creditori istituzionali (c.d. “allerta esterna” di cui all’art. 15 CCII); nonché (ii) l’obbligo in capo all’organo amministrativo di adottare tempestivamente “uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale”[51] ovvero le “misure più idonee alla sua composizione”, tra cui il “procedimento di composizione assistita della crisi”[52] innanzi all’OCRI.
Ai fini della corretta definizione (e identificazione) dello stato di crisi, l’art. 13, comma 1 del CCII (rubricato “Indicatori e indici della crisi”) prevede che “costituiscono indicatori della crisi gli squilibri di carattere reddituale, patrimoniale o finanziario, rapportati alle specifiche caratteristiche dell’impresa e dell’attività imprenditoriale svolta dal debitore, tenuto conto della data di costituzione e di inizio dell’attività, rilevabili attraversi appositi indici che diano evidenza della non sostenibilità dei debiti per almeno i sei mesi successivi e della assenza di prospettive di continuità aziendale per l’esercizio in corso o, quando la durata residua dell’esercizio al momento della valutazione è inferiore a sei mesi, per i sei mesi successivi. A questi fini, sono indici significativi quelli che misurano la non sostenibilità degli oneri dell’indebitamento con i flussi di cassa che l’impresa è in grado di generare e l’adeguatezza dei mezzi propri rispetto a quelli di terzi. Costituiscono altresì indicatori di crisi ritardi nei pagamenti reiterati e significativi, anche sulla base di quanto previsto dall’articolo 24”.
Il comma 2 dell’art. 13 del CCII, affida al Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili (CNDCEC) l’elaborazione – secondo le migliori prassi nazionali ed internazionali – “degli indici di cui al comma 1 che, valutati unitariamente, fanno ragionevolmente presumere la sussistenza di uno stato di crisi dell’impresa”.
A tal fine, il CNDEC ha rilevato che “la presenza di uno stato rilevante di crisi, nei termini di cui all’art. 13 co. 1, è diagnosticata attraverso la preliminare rilevazione della presenza di ritardi reiterati e significativi nei pagamenti (per la quale il documento fornisce puntuali indicazioni) nonché attraverso la verifica della presenza di un patrimonio netto negativo o inferiore al minimo di legge, infine mediante l’evidenza della non (…) sostenibilità del debito nei sei mesi successivi attraverso i flussi finanziari liberi al servizio dello stesso.”[53]
Nel documento pubblicato dal CNDCEC recante la “bozza” degli“Indici dell’allerta ex art. 13, co.2 Codice della Crisi e dell’Insolvenza”[54] si precisa che “dal punto di vista logico il sistema [degli indici di crisi, ndr]è gerarchico e l’applicazione degli indici deve avvenire nella sequenza indicata. Il superamento del valore soglia del primo (i) rende ipotizzabile la presenza della crisi. In assenza di superamento del primo (i), si passa alla verifica del secondo (ii), e in presenza di superamento della relativa soglia è ipotizzabile la crisi. In mancanza del dato, si passa al gruppo di indici di cui all’art. 13, co.2”.
In altre parole, per sintetizzare il complesso sistema di rilevazione della crisi[55] si può affermare che gli indicatori – che si pongono al “vertice” di tale sistema e sono desumibili direttamente agli artt. 13 e 24 CII – consistono anzitutto (i) in “ritardi nei pagamenti reiterati e significativi, anche sulla base di quanto previsto nell’articolo 24”[56], nonché (ii) in “squilibri di carattere reddituale, patrimoniale o finanziario”, che sono a loro volta “rilevabili attraverso appositi indici che diano evidenza della non sostenibilità dei debiti per almeno i sei mesi successivi e dell’assenza di prospettive di continuità aziendale per l’esercizio in corso o, quando la durata residua dell’esercizio al momento della valutazione è inferiore a sei mesi, nei sei mesi successivi. A questi fini, sono indici significativi quelli che misurano la non sostenibilità degli oneri dell’indebitamento con i flussi di cassa che l’impresa è in grado di generare e l’inadeguatezza dei mezzi propri rispetto a quelli di terzi”[57].
In proposito il documento pubblicato dal CNDCEC recante la “bozza” degli“Indici dell’allerta ex art. 13, co.2 Codice della Crisi e dell’Insolvenza” prevede che “sono indici che fanno ragionevolmente presumere la sussistenza di uno stato di crisi dell’impresa, i seguenti:
– patrimonio netto negativo;
– DSCR [i.e. il Debt Service Coverage Ratio]a sei mesi inferiore a 1;
– qualora non sia disponibile il DSCR, superamento congiunto delle soglie più avanti descritte per i seguenti cinque indici:
- indice di sostenibilità degli oneri finanziari in termini di rapporto tra gli oneri finanziari ed il fatturato;
- indice di adeguatezza patrimoniale, in termini di rapporto tra patrimonio netto e debiti totali;
- indice di ritorno liquido dell’attivo, in termini di rapporto da cash flow e attivo;
- indice di liquidità, in termini di rapporto tra attività a breve termine e passivo a breve termine;
- indice di indebitamento previdenziale e tributario, in termini di rapporto tra l’indebitamento previdenziale e tributario e l’attivo”.
Senza entrare nel merito dei singoli indicatori stabiliti dal CCII e degli indici sviluppati dal CNDCEC per la (tempestiva) rilevazione della crisi, si ritiene tuttavia che – quantomeno ai fini della distinzione fra crisi e insolvenza – tali indicatori e indici (presi singolarmente e nel loro insieme) non consentano sempre di tracciare una netta linea di demarcazione fra semplice crisi e insolvenza vera e propria. Al punto che vi è chi ha osservato (i) che “gli indicatori di crisi codificati non sempre rinviano a quella probabilità [di insolvenza]intesa anche come assenza di fatti esteriori (e pur escludendovi prognosi da indici di bilancio), essendo spesso quelli indicatori più prossimi alla insolvenza certa o imminente”[58] e (ii) che, alla luce di quanto sopra, “si evince che il legislatore del nuovo Codice, complice la preoccupazione (per vero non priva di fondamento…) per un livello troppo basso delle soglie di allerta, è finito per incorrere in contraddizione: da un lato egli individua dichiaratamente nello stato di crisi il presupposto oggettivo delle procedure di allerta e di composizione assistita, dall’altro qualifica come indicatori della crisi situazioni che, in realtà, sono di regola – e comunque possono essere – sintomatiche dello stato di insolvenza”[59].
Se tuttavia gli indicatori (in primis, i “ritardi nei pagamenti reiterati e significativi”, protratti per un tempo rilevante, e il patrimonio netto negativo o inferiore al minimo legale, che – come sappiamo – opera, salve eccezioni, quale causa automatica di scioglimento) sono sintomatici più di una situazione di vera e propria insolvenza (già attuale o comunque imminente), piuttosto che di semplice crisi (ove l’insolvenza resta una mera probabilità), allora ci si chiede se anche l’imprenditore insolvente possa accedere alle forme di composizione assistita presso l’OCRI[60]. Ciò che comporterebbe – nella sostanza – un ritorno ad una nozione di crisi che finirebbe per includere anche quella di insolvenza, come è quella prevista nell’attuale legge fallimentare (quanto meno ai fini dell’accesso alle procedure concorsuali “minori” e agli altri strumenti previsti dall’ordinamento per la risoluzione della crisi).
Una diversa opinione sul punto ritiene maggiormente conforme alla voluntas legische la disciplina dell’allerta e della composizione assistita si applichi solo all’imprenditore in crisi (nella accezione di cui al CCII) e ciò in quanto “la precipua finalità delle nuove misure di allerta consiste appunto nel far emergere tempestivamente la crisi dell’impresa per porvi rimedio e non anche di evitare l’aggravamento del dissesto di un soggetto già decotto”.
In ogni caso, anche chi aderisce a questa seconda opinione, ritiene che gli indicatori (e indici) dovrebbero consentire una maggiore differenziazione fra il concetto di “crisi” nella accezione di mera probabilitàdi insolvenza e quello di insolvenza certa[61].
4.4. Possibili modifiche e ulteriore differimento dell’entrata in vigore del Codice della Crisi
Fermo quanto sopra, per completezza, si rileva che è possibile che il corpus normativo del CCII, specie nella parte relativa all’allerta e alla composizione assistita (per le quali assume rilievo, come si è visto, la definizione di crisi) potrebbe subire modifiche prima dell’entrata in vigore. Con decreto ministeriale del 22 aprile 2021[62] è stata infatti costituita presso il Ministero di Grazia e Giustizia una commissione di esperti chiamati a elaborare proposte di interventi di modifica sul CCII.
Il predetto decreto dà atto che:
– “occorre dare completa attuazione, anche mediante integrazioni delle disposizioni contenute nel Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, alla Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio, 20 giugno 2019, n. 2019/1023/UE, riguardante i quadri di ristrutturazione preventiva, l’esdebitazione e le interdizioni, e le misure volte ad aumentare l’efficacia delle procedure di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione, e che modifica la direttiva (UE) 2017/1132 (direttiva sulla ristrutturazione e sull’insolvenza)”;
– “meritano approfondimenti le criticità, da più parti segnalate, che potrebbero derivare dall’applicazione immediata di talune norme del Codice, anche in relazione al mutato contesto economico di riferimento”;
– “in particolare, merita di essere approfondita l’opportunità di modificare talune norme del Codice alla luce dell’emergenza sanitaria in atto e, comunque, di emanare ulteriori disposizioni integrative e correttive”.
– “quindi, occorre costituire una Commissione di esperti che provveda:
- alla valutazione dell’opportunità di differire l’entrata in vigore di talune norme contenute nel Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza;
- alla formulazione di proposte correttive del medesimo Codice;
- alla formulazione di proposte concernenti l’integrazione del Codice in attuazione della direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio, 20 giugno 2019, n. 2019/1032/UE sopra menzionata;
- alla formulazione di proposte di modifica, anche temporanea, di talune norme del Codice in relazione alla emergenza sanitaria in atto”.
Si ricorda che, ai sensi dell’articolo 34 della predetta Direttiva 2019/1023/UE[63], gli Stati membri devono adottare, entro il 17 luglio 2021, le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative per conformarvisi. È tuttavia prevista, per gli Stati che dovessero incontrare particolari difficoltà nell’attuazione della direttiva, la possibilità di richiedere – previa notifica alla Commissione Europea entro il 17 gennaio 2021 – una proroga di massimo un anno del termine per l’attuazione della direttiva. L’Italia, così come altri Paesi dell’Unione Europea (tra i quali Irlanda, Cipro, Danimarca, Repubblica Ceca, Lettonia, Lussemburgo e Slovenia) si è avvalsa di tale opzione – si dice “a scopo cautelativo, nell’eventualità che non sia possibile coordinare il Codice della crisi entro la scadenza del 17 luglio 2021”[64] – sicché il termine per il recepimento della suddetta direttiva dovrebbe scadere il 17 luglio 2022.
5. Conclusioni
La pronuncia in commento, così come anche quella del Tribunale di Benevento in precedenza citata, offre lo spunto per alcune riflessioni conclusive sui concetti di insolvenza attuale e prospettica, nonché di stato di crisi, specie alla luce del CCII.
Anzitutto, tale pronuncia si distingue per il particolare equilibrio e l’attenzione non solo (come è ovvio) in relazione alle complesse problematiche giuridiche – di diritto sostanziale e processuale – sottese alla fattispecie (fra cui, in primis, la corretta individuazione del presupposto soggettivo per la dichiarazione di fallimento, nonché delle relative cause di procedibilità, così come la questione – tutt’altro che semplice – della legittimazione attiva dei ricorrenti), ma anche in relazione alla continuità aziendale, ai risvolti occupazionali e sociali che caratterizzano la vicenda.
La moral suasion operata nei confronti degli organi amministrativi e di controllo della debitrice (si veda in proposito gli obiter dicta riportati al precedente paragrafo 1), sembra avere da un lato incentivato l’adozione di misure (quali il deposito della domanda di pre-concordato) volte alla risoluzione della crisi e, dall’altro lato, contribuito alla implementazione di azioni volte a preservare la continuità aziendale, nonché i livelli occupazionali e il rilevante indotto.
Al di là di questi importanti aspetti, si può dire che il provvedimento in commento si inserisca nel filone giurisprudenziale relativo alla c.d. insolvenza prospettica, laddove osserva – del tutto condivisibilmente e in linea con la giurisprudenza citata – che “diviene importante capire quando si è di fronte a c.d. insolvenza prospettica e, invece, si è di fronte a sola crisi di varia entità” e che l’insolvenza prospettica che può essere posta a fondamento di una dichiarazione di fallimento deve necessariamente essere valutata in relazione a un orizzonte temporale molto contenuto, perché “quanto più la prognosi è lontana nel tempo, tanto più si possono inserire nel meccanismo imprenditoriale fattori nuovi e imprevedibili” potenzialmente in grado di risolvere la crisi.
Dopo avere svolto le precedenti (condivisibili) considerazioni, il provvedimento in esame sembra contenere un “salto logico” nella distinzione fra i concetti di insolvenza prospettica e crisi alla luce del CCII. Esso infatti sembra sovrapporre lo stato di insolvenza prospettica – che, come si è visto, corrisponde a una insolvenza (non ancora attuale, ma) certa e imminente – a quello di “crisi” che nel CCII è definita quale mera probabilità di insolvenza e legittima – non l’accesso alla liquidazione giudiziale ma – l’applicazione della disciplina sulle misure di allerta e di composizione assistita.
Tale possibile salto logico risulta se si affiancano la proposizione secondo cui “diviene importante capire quando si è di fronte a c.d. insolvenza prospettica e, invece, si è di fronte a sola crisi di varia entità” (dal momento che solo la prima potrebbe essere posta a fondamento di una dichiarazione di fallimento) e l’affermazione secondo cui la medesima insolvenza prospettica “è [sarebbe] stata sdoganata integralmente come concetto previsionale dalla futura riforma che entrerà in vigore nell’agosto 2020, con un orizzonte temporale semestrale, ma è utilizzata come situazione di pericolo che giustifica la segnalazione interna affidata all’organo di controllo, o giustifica la segnalazione esterna affidata ai grandi creditori istituzionali”.
Esso tuttavia discende in larga misura dal dato normativo e in particolare dal fatto che – con altrettanto salto logico – il legislatore del CCII sembra avere stabilito indicatori di crisi (in primis, i “ritardi nei pagamenti reiterati e significativi”, per di più protratti per un tempo rilevante, e il patrimonio netto negativo) che, in realtà, sembrano piuttosto sintomatici di un vero e proprio stato di insolvenza (se non attuale, quantomeno prospettica: vedi precedente paragrafo 4.3).
Alla luce di quanto sopra, nell’ambito dei lavori della sopramenzionata commissione istituita al fine elaborare proposte di interventi di modifica sul CCII, potrebbe essere opportuno valutare se (i) tornare a una definizione di crisi che includa l’insolvenza (così come prevede l’attuale legge fallimentare), ovvero (ii) esplicitare che è consentito l’accesso alle misure di allerta e alla composizione assistita anche a imprese insolventi (preso atto della difficoltà, nella pratica, di distinguere i concetti di crisi e insolvenza) o, almeno, (iii) rivedere parzialmente la disciplina degli indicatori di crisi onde evitare (o ridurre) le aree di sovrapposizione (pratica) fra lo stato di crisi (come risultante dai relativi indicatori e indici) e di vera e propria insolvenza. Con l’avvertenza che tale ultima ipotesi, che potrebbe verosimilmente risolversi nell’adozione di indicatori finalizzati a rilevare la crisi in un momento anticipato rispetto a quello che risulta in base agli indicatori attuali – pur teoricamente auspicabile in un momento di economia stabile o in crescita – potrebbe rivelarsi eccessivamente pro-ciclica e poco adatta “al mutato contesto economico di riferimento” che segue l’“emergenza sanitaria in atto” (per utilizzare la terminologia del decreto che ha istituito la commissione di riforma del CCII).
[1] I ricorrenti lamentano in particolare che, per far fronte alla carenza di liquidità e ottemperare ai propri debiti bancari, la società abbia ceduto alcuni natanti, depauperando il patrimonio sociale e mettendo a rischio il futuro soddisfacimento del loro credito.
[2] Cfr. la Direttiva (UE) 2019/1023 (v. in partic. cons. 22-28 e art. 3), la Raccomandazione 2014/135/UE (v. in partic. cons. 11 e punto III) e il Regolamento 2015/848 (v. in partic. cons. 10 e art. 1).
[3] La c.d. twilight zone. In argomento, v. Montalenti P., La gestione dell’impresa di fronte alla crisi tra diritto societario e diritto concorsuale, in Riv. dir. soc., 2011, p. 820 ss.; Rossi A., Dalla crisi tipica ex CCI alla resilienza della twilight zone, in Fall., 2019, 3, p. 291 ss; Ambrosini S., Crisi e insolvenza nel passaggio fra vecchio e nuovo assetto ordinamentale: considerazioni problematiche, in ilCaso.it, 2019; Della Santina R., Crisi d’impresa e insolvenza prospettica dell’imprenditore: questioni ancora aperte nell’imminenza dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 14/2019, 12.11.2019in IlCaso, 4-5; Spiotta M., Insolvenza (non ancora) prospettica: quali rimedi?, in Fall. 2020, 126 e 128.
[4] Come è noto, l’art. 15, u.c., l. fall., prevede che “non si fa luogo alla dichiarazione di fallimento se l’ammontare dei debiti scaduti e non pagati risultanti dagli atti dell’istruttoria prefallimentare è complessivamente inferiore a euro trentamila […]”.
[5] Tali modifiche sono state introdotte dagli artt. 375 e 377 del Codice della Crisi, entrati in vigore – in anticipo rispetto alla maggior parte delle nuove disposizioni – in data 16 marzo 2019, ai sensi dell’art. 389 dello stesso Codice.
[6] Per questa ragione, nelle ristrutturazioni di prestiti obbligazionari è frequente che la società emittente preliminarmente invii ai bondholders una richiesta di c.d. forbearance:si tratta di una sorta di richiesta di “moratoria” finalizzata a “neutralizzare” i rimedi attivabili in caso di possibili events of default, quali, ad esempio, il mancato pagamento di una rata di capitale o degli interessi alla relativa scadenza ovvero l’accesso a uno strumento di risanamento.
[7] In proposito, la pronuncia in commento richiama la sentenza della Court of Appeal dello Stato di New York in Quadrant Structured ProdctsCo. v. Vertin (disponibile su www.caselaw.findlaw.com), sulla base della quale afferma che “la no action clauseimpedisce ai security holderssolo le iniziative attinenti al contratto esistente con la emittente, mentre non impedisce di rivolgersi alla legge ordinaria e di utilizzare iniziative legate ai propri strumenti di investimento”.
[8] Sul punto v. Gallarati A., Il trustee degli obbligazionisti. Qualche precisazione a margine di Cassazione Civile 22 dicembre 2015 n. 25800, maggio 2016, in www.dirittobancario.it.
[9] In senso contrario, in dottrina è stato sostenuto che il trustee, in quanto titolare esclusivo della gestione dei crediti degli obbligazionisti,sarebbe l’unico soggetto legittimato, in luogo degli obbligazionisti, a esperire qualsiasi azione giudiziaria, inclusa l’istanza per la dichiarazione di fallimento, nei confronti della società emittente (cfr.Zambelli M., Prestito obbligazionario, indenture e legittimazione a richiedere il fallimento, in Trust e attività fiduciarie, luglio 2020, p. 392 ss.).
[10] Tale definizione è ormai costante in giurisprudenza: cfr., ex multis, Cass. Ord. 19 maggio 2020, n. 9151, in Pluris, secondo cui “la dichiarazione di fallimento trova il suo presupposto, dal punto di vista obbiettivo, nello stato d’insolvenza del debitore, il cui riscontro prescinde da ogni indagine sull’effettiva esistenza dei crediti fatti valere nei confronti del debitore, essendo, a tal fine, sufficiente una situazione d’impotenza, strutturale e non soltanto transitoria, a soddisfare regolarmente e con mezzi normali le proprie obbligazioni a seguito del venir meno delle condizioni di liquidità e di credito necessarie alla relativa attività. Detto stato di insolvenza deve desumersi, più che dal rapporto tra attività e passività, dalla possibilità dell’impresa di continuare ad operare proficuamente sul mercato, fronteggiando con mezzi ordinari le obbligazioni e comunque a prescindere dal numero dei creditori, essendo ben possibile che anche un solo inadempimento assurga ad indice di tale situazione oggettiva”; Cass. 27 maggio 2015, n. 10952, in www.ilcaso.it, Sez. Giur., 2015, secondo cui “in tema di dichiarazione di fallimento, lo stato di insolvenza dell’impresa, che esso presuppone, da intendersi come situazione irreversibile, e non già come una mera temporanea impossibilità di regolare l’adempimento delle obbligazioni assunte, può essere desunto, ai sensi dell’art. 15 ult. co. della L.F., dal complesso dei debiti, purché almeno pari all’ammontare stabilito, secondo il periodico aggiornamento previsto dal terzo co. dell’art. 1 L.F., dallo stesso art. 15 ult. co. L.F., accertati nel corso dell’istruttoria prefallimentare”; Cass. 27 aprile 1999, n. 4277, in Fall., 1999, p. 297 ss., dove l’insolvenza viene intesa come una “condizione di impotenza economica nella quale l’imprenditore non è in grado di adempiere regolarmente, con normali mezzi solutori, le proprie obbligazioni per il venir meno della liquidità finanziaria e della disponibilità di credito necessari per lo svolgimento della sua attività”.
[11] Sulla “irreversibilità” quale requisito immancabile dell’insolvenza si rinvia alle osservazioni di Ambrosini S., Crisi e insolvenza nel passaggio fra vecchio e nuovo assetto ordinamentale: considerazioni problematiche, cit., p. 9, il quale rileva che: “neppure l’elemento della reversibilità del dissesto, d’altra parte, va enfatizzato oltre un certo limite, se è vero che la giusta considerazione della dimensione dinamica propria dell’attività d’impresa deve tener conto del fatto che valutazioni spiccatamente aleatorie appaiono difficilmente conciliabili con la “filosofia” del nostro sistema concorsuale. Ed anzi, che lo stato di cui all’art. 5 l. fall. non possa reputarsi “ontologicamente” incompatibile con il risanamento dell’impresa lo si evince con chiarezza dal regime dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, la quale, benché rivolta esclusivamente ad imprenditori di cui il tribunale abbia dichiarato l’insolvenza, vede quale esito possibile (seppure, per il vero, statisticamente infrequente) l’esecuzione del piano di risanamento di cui all’art. 27, comma 2, lett. b), d.lgs. n. 270/1999, il cui esito naturale è il ritorno inbonisdel debitore; obiettivo, questo, ancor più enfatizzato dal d.l. n. 347/2003, convertito nella l. n. 39/2004.”. Sul punto anche Della Santina R., Crisi d’impresa e insolvenza prospettica dell’imprenditore: questioni ancora aperte nell’imminenza dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 14/2019, 12.11.2019in IlCaso, 4; nonché Spiotta M., Insolvenza (non ancora) prospettica: quali rimedi?, cit., 127.
[12] Sul punto, v. Di Marzio F., L’insolvenza nel “Codice della Crisi e dell’insolvenza”, approfondimento del 25 maggio 2020, in www.giustiziacivile.com., che individua nella progressività il tratto tipico dell’insolvenza: “pur essendo possibile che un mutamento radicale e brutale delle condizioni contestuali di mercato (come lo scoppio di una guerra che altera tutte le pregresse condizioni di scambio) oppure delle condizioni interne dell’impresa (come la morte di un geniale imprenditore non adeguatamente sostituito) determinino lo stato di insolvenza, di norma quest’ultimo si genera progressivamente a partire da iniziali e superabili difficoltà adempitive di cui però non vengono comprese né vengono rimosse le cause: il che determina il progressivo aggravamento della condizione soggettiva. L’errata costruzione della realtà finanziaria dell’impresa; l’inefficienza della regola societaria adottata nello statuto; l’inattualità della formula imprenditoriale si annoverano come cause ricorrenti, singolarmente prese o anche cumulate, di una progressiva fragilità dell’organizzazione imprenditoriale. Una fragilità che produce immediate ripercussioni sulla capacità di solvenza del debitore fino ad annientarla del tutto se non rimediata per tempo”.
[13] Ambrosini S., Crisi e insolvenza nel passaggio fra vecchio e nuovo assetto ordinamentale: considerazioni problematiche, cit., vedi in particolare il testo riportato alla precedente nota 11.
[14] Spiotta M., Insolvenza (non ancora) prospettica: quali rimedi?, cit., 127, che osserva correttamente che mentre lo stato di crisi “è caratterizzato dalla probabilità e non basta per la declaratoria di fallimento (o di liquidazione giudiziale che dir si voglia), l’insolvenza in fieri [prospettica]è connotata da un attributo di certezza “(per quanto possa essere certo il futuro!)” e dovrebbe essere sufficiente ad aprire la detta procedura concorsuale (e, forse, come si vedrà, anche quelle minori)”.
[15] L’art. 2, comma 1, lett. b) del Codice della Crisi definisce l’insolvenza come “lo stato del debitore che si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”.
[16] Sul punto, v. Di Marzio F., L’insolvenza nel “Codice della Crisi e dell’insolvenza”, cit.
[17] Cfr. Trib. Benevento, 18 dicembre 2019 (Pres. est. Monteleone), in www.ilcaso.it, nonché in Giur. Comm. 2021, II, 1470 e ss. con nota di Jorio A., Sulle nozioni di crisi e insolvenza prospettica, 1474 e ss.
[18] Ibidem.
[19] Cfr. Cass. Ord. 19 maggio 2020, n. 9151, cit.; Cass., 30 settembre 2004, n. 19611, in CED Cassazione, 2004, secondo cui “in tema di dichiarazione di fallimento, lo stato di insolvenza dell’impresa, che esso presuppone, da intendersi come situazione (in prognosi) irreversibile, e non già mera temporanea impossibilità di regolare adempimento delle obbligazioni assunte, legittimamente può essere desunto, nel contesto dei vari elementi, anche dal mancato pagamento di un solo debito. In dottrina, v. Paluchowski A, Codice del fallimento, a cura di M. Bocchiola e A. Paluchowski, sub art. 5, VII ed., Milano, 2013, p. 104.
[20] Giova rammentare che, ai sensi dell’art. 1453 c.c., la risoluzione del contratto non è invocabile qualora l’inadempimento dell’altra parte sia di scarsa importanza e, ai sensi dell’art. 1218 c.c. il debitore risponde delle conseguenze dannose dell’inadempimento, salvo che l’inadempienza sia stata determinata da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile.
[21] In giurisprudenza, cfr. Cass., 7 giugno 2012, n. 9253, in Fall., 2013, 367 e, più recentemente, C App. Palermo, 13 gennaio 2018, in Pluris e Cass., 24 settembre 2013, n. 21802, in Fall.,2014, 6, 702, secondo cui: “Ai fini della dichiarazione di fallimento, lo stato di insolvenza deve essere valutato secondo dati oggettivi, prescindendo da qualsiasi indagine in ordine alle relative ragioni; pertanto, nessuna rilevanza hanno le cause che lo hanno determinato, a meno che da esse non possa evincersi una situazione di mera temporanea difficoltà”. In dottrina, cfr., tra gli altri, Dalmartello-Sacchi-Semeghini, I presupposti del fallimento, in Jorio (a cura di), Fallimento e concordato fallimentare, Milano, 2016, 239.
[22] V. precedente nota 17.
[23] Collegato al tema dell’imputabilità dell’inadempimento appare il tema delle rilevanti conseguenze generate ad esempio dal blocco delle attività economiche “non essenziali” stabilito D.P.C.M. del 22 marzo 2020 al fine di contrastare la diffusione del Covid-19. La prolungata chiusura delle imprese e delle attività commerciali ha provocato un brusco arresto dei flussi di cassa, che ha determinato, per molte imprese, non solo l’impossibilità – incolpevole – di fare fronte alle proprie obbligazioni, ma anche gravi incertezze in merito alla continuità aziendale. In tale contesto, sono state introdotte alcune norme eccezionali e temporanee, in deroga al diritto comune, al fine di sostenere le imprese nell’affrontare le attuali difficoltà finanziarie e nella gestione dei rapporti contrattuali in essere. Infatti, nella valutazione dei c.d. inadempimenti emergenziali, non potrà non tenersi conto che in taluni casi essi sono dovuti, non già a dolo o colpa del debitore, bensì all’osservanza di una misura governativa che impedisce l’esecuzione delle prestazioni dovute. In proposito, si segnala l’introduzione del comma 6-bis dell’art. 3 D.L. n. 6/2020 ad opera dell’art. 91 D.L. n. 18/2020, secondo cui “il rispetto delle misure di contenimento di cui [al predetto]decreto è sempre valutato ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”. Tenuto conto dell’eccezionalità della situazione determinata dalla diffusione del Covid-19, oltre all’imputabilità dell’inadempimento – che, quantomeno per talune tipologie di obbligazioni, pare essere esclusa dalla normativa “emergenziale” – era stata introdotta anche una generale sospensione (rectius improcedibilità), di tipo “eccezionale” e “temporaneo”, dei procedimenti per la dichiarazione di fallimento delle imprese che fossero divenute insolventi per effetto dell’impatto economico dovuto alla diffusione del Covid-19: Si veda sul punto il D.L. 8 aprile 2020, n. 23 (c.d. Decreto liquidità) che, all’art. 10 (“Disposizioni temporanee in materia di ricorsi e richieste per la dichiarazione di fallimento e dello stato di insolvenza”), aveva previsto l’improcedibilità dei ricorsi per dichiarazione di fallimento e di insolvenza sino al 30 giugno 2020.
[24] Cfr. Cass., 20 novembre 2018, n. 29913, in www.ilcaso.it.
[25] Ibidem.
[26] Cfr.T.A.R. Lazio, 26 giugno 2006, n. 5165, in Pluris; Trib. Palermo, 10 ottobre 2001, in Giur. di Merito, 2002; Trib. Firenze, 20 settembre 2001, in Foro Padano, 2001, I, 641.
[27] Cfr., oltre al decreto in commento:Trib. Benevento, 18 dicembre 2019, cit.; Cass., 20 novembre 2018, n. 29913, cit.; Tribunale Palermo, 29 marzo 2018.
[28] Sul punto, v. Della Santina R., Crisi d’impresa e insolvenza prospettica dell’imprenditore: questioni ancora aperte nell’imminenza dell’entrata in vigore del D.lgs. n. 14/2019 (Note a margine del decreto del Tribunale di Milano 3 ottobre 2019), in Crisi d’Impresa e Insolvenza, 12 novembre 2019.
[29] Trib. Milano, 10 novembre 2009, in Corriere Giur., 2010, 1, 109, con nota di V. Colesanti.
[30] Trib. Torino, 14 novembre 2008, Bertone S.p.A., in Giur. it., 2009.
[31] Trib. Roma, 5 settembre 2008, Alitalia – Linee aree italiane S.p.A., in Foro it., 2009, I, p. 266 ss.
[32] Verbatim: “nelle condizioni attuali, non è possibile ipotizzare alcun miglioramento, […]per la notoria situazione derivante dal prezzo del petrolio e dalla attuale congiuntura economica”.
[33] Terminologia adottata da Di Marzio F., L’insolvenza nel “Codice della Crisi e dell’insolvenza”, cit..
[34] In tal senso si esprime la recentissima App. Venezia, 11 maggio 2020, n. 1243,ined., secondo cui: “…lo stato di insolvenza prospettica non è una condizione sufficiente per la declaratoria di fallimento di un’impresa, poiché il tenore della vigente legge fallimentare non autorizza ad interpretare estensivamente il requisito oggettivo fino a sussumere quelle situazioni di fatto nelle quali sia solo presumibile l’incapacità (futura) dell’impresa di far fronte regolarmente alle proprie obbligazioni. Per quanto, infatti, il concetto di insolvenza di cui all’art. 5 L.F., così come interpretato dalla giurisprudenza di merito e di legittimità, non sia totalmente scevro da giudizi di carattere prognostico – poiché la valutazione sull’irreversibilità dello stato di insolvenza presuppone pur sempre un accertamento proiettato nell’immediato futuro circa la persistenza dell’incapacità di adempiere – tuttavia, tra lo stato di insolvenza attuale e lo stato di insolvenza c.d. prospettica vi è una significativa differenza, data dall’esteriorizzazione dei suoi sintomi. Infatti, mentre quest’ultima condizione si connota per la sua intrinsecità – vi è solo una prognosi di futuri inadempimenti –, lo stato attuale di insolvenza trova sempre una manifestazione in fatti esterni di immediata percezione, quali l’incapacità di soddisfare i creditori”.
[35] Verbatim:“…in attesa fra otto mesi di vedere se la convenzione con lo stato Italiano sarà rinnovata, identica, diversa, o non lo sarà per nulla (elemento fondamentale ed incerto); in attesa della decisione della commissione Europea che potrebbe condannarla alla restituzione degli affermati aiuti di stato oppure no, e che ha un obbligo di pagamento differito del parziale corrispettivo dell’acquisto di Tirrenia, indeterminato allo stato nell’entità, dipendendo dalla quantificazione della condanna summenzionata. Allo stato non vi sono manifestazioni esteriori e nell’immediato futuro vi sono molteplici elementi imprenditoriali incerti, per poter ritenere sicuramente la società prospetticamente insolvente a breve”.
[36] In dottrina è stato evidenziato come l’espressione “insolvenza reversibile” sia in realtà ambigua, poiché non chiarisce se la crisi sia superabile senza il ricorso a procedure concorsuali o, all’opposto, soltanto per il tramite di esse. Così Terranova G., Lo stato d’insolvenza: per una concezione formale del presupposto oggettivo del fallimento, in Giur. comm., 1996, I, pp. 62 ss.
[37] Cfr. Cass., SS. UU.,15 maggio 2015, n. 9935 (e n. 9936), che ha chiarito che, pur risultando “superato” il principio di prevenzione, in pendenza di una procedura concordataria è possibile dichiarare il fallimento solo quando si sia verificato uno degli eventi di cui agli artt. 162, 173, 179, 180 l. fall. (inammissibilità, revoca dell’ammissione, rigetto, mancata omologazione), ossia quando il concordato sia stato definito con esito negativo.
[38] L’art. 5, comma 2, l.fall. prevede che “Lo stato d’insolvenza si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”. Tale definizione è stata recepita verbatimnel Codice della Crisi, che all’art. 2 lett. b) definisce “insolvenza” come “lo stato del debitore che si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”
[39] V. art. 2, comma 1, lett. d), del D. L. 14 marzo 2005, n. 35, convertito con modificazioni nella l. 14 maggio 2005, n. 80. In argomento, per tutti, Ambrosini S., Crisi e insolvenza nel passaggio fra vecchio e nuovo assetto ordinamentale: considerazioni problematiche, cit., pp. 1 e ss.
[40] All’indomani della riforma (e prima dell’introduzione del comma 2 – oggi comma 3 – dell’art. 160 l. fall. di cui si dirà in appresso) vi era stato chi aveva ritenuto che al concordato potesse accedere il debitore in “crisi”, ma non anche quello tecnicamente insolvente. In questo senso, per tutti: Bozza G., Le condizioni soggettive ed oggettive del nuovo concordato, in Fall. 2005; per l’opinione contraria, Ambrosini S., Crisi e insolvenza nel passaggio fra vecchio e nuovo assetto ordinamentale: considerazioni problematiche, cit., p. 2 che osserva “che i concetti di “crisi” e di “insolvenza” – come si è osservato in sede di primissimo commento della novella del 2005 – si ponevano fra loro in rapporto di genere a specie, nel senso che l’insolvenza rappresentava una delle forme (sicuramente la più grave) in cui poteva manifestarsi la crisi dell’impresa commerciale: e ciò comportava, per l’appunto, che l’imprenditore insolvente potesse senz’altro continuare a chiedere l’ammissione al concordato”.
[41] Tale comma è stato introdotto dall’art. 36 del D.L. 30 dicembre 2005, n. 273, convertito con modificazioni dalla L. 23 febbraio 2006, n. 51
[42] Si è osservato che “a riprova della tendenza del legislatore ad utilizzare nozioni più late del tradizionale concetto di insolvenza (pur in esse ricompreso) sta la definizione di “sovraindebitamento” (contenuta nella l. 27 gennaio 2012, n. 3, come novellata dal d.l. 18 ottobre 2021, n. 179, convertito, con modificazioni, nella l. 17 dicembre 2012, n. 221), nell’ambito della quale è stato individuato il presupposto oggettivo della procedura di composizione delle crisi, appunto, da sovraindebitamento. Tale locuzione è espressamente definita dall’art. 6, comma 2, come una “situazione di perdurante squilibrio tra le obbligazioni assunte e il patrimonio prontamente liquidabile per farvi fronte, che determina la rilevante difficoltà ad adempiere le proprie obbligazioni, ovvero la definitiva incapacità di adempierle regolarmente.”: così Ambrosini S., Crisi e insolvenza nel passaggio fra vecchio e nuovo assetto ordinamentale: considerazioni problematiche, cit., pp. 7-8.
In argomento, diffusamente, anche Fortunato S., Insolvenza, crisi e continuità aziendale nella riforma delle procedure concorsuali: ovvero la commedia degli equivoci, in Dir. Fall., 1/2021, 6 e ss., secondo cui “la crisi richiama inevitabilmente le cause del quel malfunzionamento [il malfunzionamento dell’impresa, ndr], mentre l’insolvenza ne prescinde e si preoccupa solo del risultato, cioè delle incapacità del patrimonio a soddisfare regolarmente le ragioni dei creditori. … in senso aziendalistico, peraltro, autorevole dottrina individua quattro differenti momenti nell’evoluzione della crisi aziendale genericamente intesa e che, in assenza di tempestive manovre di risanamento, può condurre ad una situazione di dissesto permanente e irreversibile: incubazione, maturazione (che insieme costituirebbero il “declino” dell’impresa), insolvenza e dissesto (che insieme individuerebbero la “crisi” vera e propria)”.
[43] Ambrosini S., Crisi e insolvenza nel passaggio fra vecchio e nuovo assetto ordinamentale: considerazioni problematiche, cit., pp. 1 e ss. Così anche Fortunato S., Insolvenza, crisi e continuità aziendale nella riforma delle procedure concorsuali: ovvero la commedia degli equivoci, cit., 23-24, osserva che “la nozione di crisi, che nell’impostazione delle riforme del 2005-2007 costituiva il genus di cui la species era rappresentata dalla insolvenza, diventa con il Codice della Crisi apparentemente una species pariordinata all’insolvenza, di fatto una qualificazione delle insolvenza che si pone allora come il genus rilevante. Mi sembra un ribaltamento di non poco conto”.
[44] Sul punto si rileva che la formulazione originaria era “lo stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza del debitore, e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate” e le parole “difficoltà economico-finanziaria” sono state sostituite con “squilibrio economico-finanziario” dall’articolo 1, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 26 ottobre 2020, n. 147 (il c.d. “decreto correttivo”), con effetto dal 1° settembre 2021.
[45] Si è osservato che la definizione di crisi contenuta nel CCII “appare coerente con il corrispondente principio di delega, che richiedeva di introdurre una definizione di crisi “intesa come futura insolvenza”, e chiarisce che lo stato di vera e propria insolvenza va tenuto distinto da quello di mera crisi, dal momento che in questa seconda situazione il soggetto non è ancora insolvente, sebbene la precarietà della condizione finanziaria renda (non solo possibile, ma per l’appunto) probabile l’inverarsi dell’incapacità di soddisfare regolarmente le proprie obbligazione”: così Ambrosini S., Crisi e insolvenza nel passaggio fra vecchio e nuovo assetto ordinamentale: considerazioni problematiche, cit., p. 22.
[46] Vedi precedente paragrafo 3.
[47] Così Jorio A., Sulle nozioni di crisi e insolvenza prospettica, cit. 1477.
[48] Così il provvedimento in commento. In senso analogo Trib. Benevento, 18 dicembre 2019, cit., che afferma che “la irreversibilità della crisi consiste sempre in una previsione negativa sulla possibilità che i creditori possano trovare integrale soddisfazione, in presenza, tuttavia, di un limbo, soventemente ricorrente, in cui la crisi non si manifesta con inadempimento o altri fatti esteriori: diviene così importante capire quando si è di fronte alla c.d. insolvenza prospettica o ad una vera e propria crisi più o meno grave, tenendo presente che l’insolvenza prospettica non può che essere legata ad un orizzonte temporale molto contenuto, perché quanto più la prognosi è lontana nel tempo, tanto più si possono inserire nel meccanismo imprenditoriale fattori nuovi ed imprevedibili. Soccorre qui il Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza, di imminente entrata in vigore, laddove l’insolvenza prospettica assume rilevanza come situazione di pericolo che giustifica la segnalazione interna affidata all’organo di controllo o quella esterna affidata ai creditori istituzionali, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 14 e 15. Finalità precipua infatti del nuovo costrutto normativo è il risalto dato a tale condizione dell’impresa nell’ambito delle misure di allerta (cfr. artt. 12 e ss.), che ha lo scopo di adottare, tempestivamente, strumenti di prevenzione dell’insolvenza e non certo quello di consentire una indiscriminata declaratoria di fallimento (rectius liquidazione giudiziale) di tutte le imprese che, in una prospettiva anche abbastanza prossima (se mesi appunto), potrebbero non essere in grado di far fronte alle scadenze dei propri debiti.
È questo il motivo per cui, evolutivamente, il concetto di insolvenza prospettica deve essere declinato nella fattispecie concreta con la necessaria prudenza, tenendo di volta in volta conto della situazione dell’impresa e della sua eventuale complessità (cfr. in tal senso Tribunale di Milano, 03 Ottobre 2019, ilCaso.it Sez. Giurisprudenza, 22557 – pubb. 22/10/2919)”.
[49] Così Jorio A., Sulle nozioni di crisi e insolvenza prospettica, cit. 1477.
[50] La modifica dell’art. 2086 c.c. è stata introdotta dall’art. 375 CCII che, ai sensi del comma 2 dell’art. 389 (rubricato “Entrata in vigore”) del d. lgs. 14/2019 è entrato in vigore il trentesimo giorno successivo alla sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale (i.e. il 14 marzo 2019).
[51] Così l’art. 2086 comma 2, cod. civ.
[52] Così l’art. 2086 comma 2, cod. civ.
[53] Così nel documento del CNDCEC, Crisi di impresa. Gli indici di allerta, del 20 ottobre 2019, p. 3, disponibile al seguente link: https://press-magazine.it/wp-content/uploads/2019/10/codice-della-crisi_definizioni-indici_ott-2019.pdf.
[54] Il documento, rubricato “Gli indici dell’allerta ex art. 13, co.2 Codice della Crisi e dell’Insolvenza” e datato 19 ottobre 2019, è ancora in bozza poiché non è stato ancora approvato dal Ministero dello Sviluppo Economico, come previsto dall’art. 13, comma 2, ultimo periodo, del CCII. Il testo di tale documento è consultabile, fra l’altro, al seguente link: https://press-magazine.it/wp-content/uploads/2019/10/191019-relazione-commissione-cndcec-indici-3.2-1.pdf. Per tutti, sul punto, Ranalli R., Definiti gli indici di crisi e il percorso di rilevazione dei suoi fondati indizi, in www.ilfallimentarista.it,Focus del 23 settembre 2019; Della Santina R., Indicatori e indici della crisi nel sistema degli strumenti di allerta: l’interpretazione sistematica e di metodo offerta dal Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili, in www.ilcaso.it, Crisi d’Impresa e Insolvenza 23 gennaio 2020; Fortunato S., Insolvenza, crisi e continuità aziendale nella riforma delle procedure concorsuali: ovvero la commedia degli equivoci, cit., 18 e ss.
[55] Sul punto si veda Fortunato S., Insolvenza, crisi e continuità aziendale nella riforma delle procedure concorsuali: ovvero la commedia degli equivoci, cit., 23-24, che osserva come “il documento elaborato il 19 ottobre 2019 dal CNDEC, e in attesa di approvazione da parte del MISE, offre certamente un pregevole contributo a sbrogliare la intricata matassa terminologica, optando per una interpretazione definita ad albero e gerarchica degli indicatori di crisi, nonché per una interpretazione combinata degli indici di crisi, quale presupposto essenziale dell’obbligo di segnalazione per l’allerta interna”.
[56] Norma che si riferisce, in particolare alla “esistenza di debiti per retribuzioni scaduti da almeno sessanta giorni per un ammontare pari ad oltre la metà dell’ammontare complessivo mensile delle retribuzioni” nonché“di debiti verso fornitori scaduti da almeno centoventi giorni per un ammontare superiore a quello dei debiti non scaduti”
[57] Così l’art. 13, comma 1 CCII.
[58] Sul punto si veda Fortunato S., Insolvenza, crisi e continuità aziendale nella riforma delle procedure concorsuali: ovvero la commedia degli equivoci, cit., 26-27 (e ulteriori riferimenti alle ivi alle note 38 e 39), il quale aggiunge che “alcuni indicatori, come si è già sottolineato, evidenziano fatti esteriori di inadempimenti reiterati e significativi che si protraggono da oltre sessanta o centoventi giorni o addirittura da oltre sei mesi e forse anche da un anno: si tratta insomma di indici di insolvenza certa che solo un piano fattibile di ristrutturazione potrebbe rendere reversibile; altri indicatori hanno natura prospettica, ma l’arco temporale di previsione del manifestarsi della insolvenza ruota intorno al semestre, e mi parrebbe che – più che nell’ottica di una probabilità di insolvenza – quella previsione si muova nell’ottica di una insolvenza imminente, anch’essa reversibile solo con drastici interventi di turnaround”. Nello stesso senso, ancora prima della pubblicazione del documento del CNDCEC, Ambrosini S., Crisi e insolvenza nel passaggio fra vecchio e nuovo assetto ordinamentale: considerazioni problematiche, cit., pp. 28 e ss.
[59] Sul punto Ambrosini S., Crisi e insolvenza nel passaggio fra vecchio e nuovo assetto ordinamentale: considerazioni problematiche, cit., p. 30, il quale aggiunge che “la previsione di cui all’art. 13, oltre tutto, appare in contrasto con quanto stabilito, in tema di allerta c.d. interna, dall’art. 14, primo comma, che parla testualmente della “esistenza di fondati indizi della crisi” laddove i reiterati e significativi ritardi nei pagamenti rappresentano piuttosto, in base all’id quod prelumque accidit, fondati indizi dell’insolvenza”.
[60] Così, per tutti, Jorio A., Sulle nozioni di crisi e insolvenza prospettica, cit. 1476 e 1477, che aggiunge “che la distinzione fra le situazioni comportanti probabilità di insolvenza [i.e. crisi, secondo la definizione del CCII]e quelle significative di insolvenza prospettica, destinata cioè a verificarsi con certezza, e quindi ineluttabile secondo la valutazione delle umane cose, non dovrebbe assumere rilievo ai fini dell’applicazione della parte più originale del nuovo CCII, ossia delle misure di allerta e della composizione assistita della crisi mediante un accordo con i creditori, tramite l’OCRI, avente carattere al tempo stesso remissorio e dilatorio e realizzabile nel ristretto arco temporale consentito dal nuovo CCII”. L’Autore conclude quindi che essendo dell’opinione “che la composizione assistita della crisi possa essere applicata anche nei casi di conclamata insolvenza, purché compatibile con brevi mediante un accordo con i creditori tramite l’OCRI, è ovvio che sia portato a sostenere l’irrilevanza, sul terreno concreto dell’applicazione della disciplina dell’allerta, tra i concetti di crisi e di insolvenza prospettica, e cioè tra probabilità di prossima insolvenza e certezza di prossima insolvenza. Ove invece si ritenga che la disciplina dell’allerta e della composizione assistita della crisi riguardi soltanto le situazioni riconducibili alla nozione di crisi così come definita dall’art. 2, lett. a) del CCII, l’insolvenza prospettica, consentendo anche l’immediata apertura della procedura di liquidazione giudiziale, dovrebbe restare fuori dal perimetro della composizione assistita.”
[61] Così, per tutti, Ambrosini S., Crisi e insolvenza nel passaggio fra vecchio e nuovo assetto ordinamentale: considerazioni problematiche, cit., pp. 28-30; Jorio A., Sulle nozioni di crisi e insolvenza prospettica, cit. 1476 e 1477; Fortunato S., Insolvenza, crisi e continuità aziendale nella riforma delle procedure concorsuali: ovvero la commedia degli equivoci, cit., pp. 26-27.
[62] Il testo del decreto è consultabile, fra l’altro, al seguente link: https://dirittodellacrisi.it/file/Cu5aOd3skInI5Bn7Eb9FGkxLuvV35oD69Yy1uCf3.pdf
[63] Per un commento sulla disciplina della Direttiva 2019/1023/UE, anche in relazione con l’attuale CCII, vedi Panzani L., Il preventive restructuring frameworknella Direttiva 2019/1023 del 20 giugno 2019 ed il codice della crisi. Assonanze e dissonanze¸ in Diritto Bancario, Crisi d’impresa, Fallimento 14/10/2019.
[64] Così CNDCEC, Osservatorio Internazionale Crisi di Impresa, n. 3, marzo 2021. Consultabile al seguente link: https://www.fondazionenazionalecommercialisti.it/filemanager/active/01506/2021_03_22_Osservatorio_internazionale_crisi_d_impresa.pdf?fid=1506.