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Note

Interessi di mora al vaglio delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione: aspetti critici e prospettive future un anno dopo la pronuncia della Suprema Corte

17 Maggio 2022

Federica Grasselli, Dottore di Ricerca in “Diritto ed Impresa”, Università LUISS Guido Carli

Di cosa si parla in questo articolo

A distanza di circa un anno dalla nota sentenza delle Sezioni Unite n. 19597 del 2020 resa in tema di interessi di mora, l’articolo analizza i principali rilievi critici espressi dalla dottrina e giurisprudenza successiva, al fine di comprendere le possibili prospettive future del contenzioso bancario in tema di usura.  

One year on the well – known decision of Italian Supreme Court rulling n. 19597/2020, the essay analyses the main critical remarks expressed by the legal doctrine and the following jurisprudence, in order to understand the possible future prospects regarding the usury legal litigations.


Sommario: 1. Premessa. – 2. Interessi di mora e interessi corrispettivi: presunta disomogeneità dei tassi e soglie antiusura. – 2.1. Gli interessi di mora rilevano ai fini della verifica delle soglie di usura: tesi “restrittiva”. – 2.2. Gli interessi di mora rilevano ai fini della verifica delle soglie di usura: tesi “estensiva”. – 3. Applicabilità della disciplina antiusura agli interessi moratori. – 4. Le rilevazioni di Banca d’Italia e il c.d. “tasso soglia moratorio”: rilievi critici e il c.d. principio di simmetria. – 5. L’accertamento dell’usurarietà degli interessi di mora: applicazione dell’art. 1224, comma 1, c.c. e conseguente debenza degli interessi corrispettivi lecitamente convenuti. 6. Ulteriori considerazioni: l’unicità del prestito e il c.d. “tasso complessivo del prestito”. – 7. Le tutele a favore del cliente: l’azione di accertamento e la disciplina consumeristica. – 8. Considerazioni conclusive e prospettive future.

 

1. Premessa

Come noto, la sentenza in commento[1] si inserisce in un quadro giurisprudenziale particolarmente dibattuto in merito alla rilevanza degli interessi moratori pattuiti tra le parti o determinati unilateralmente dalla banca nell’esercizio dello ius variandi di cui all’art. 118 del tub, con riferimento alla verifica del rispetto delle soglie usurarie.

Tale contesto giurisprudenziale ha reso necessario l’intervento delle Sezioni Unite della Cassazione, investite della questione in seguito all’ordinanza del 22 ottobre 2019, n. 26946[2] della prima Sezione Civile.

La sentenza della Suprema Corte era fortemente attesa e la soluzione adottata dai giudici di Cassazione ha certamente fatto molto discutere gli interpreti e operatori del diritto.

A distanza di poco più di un anno dalla pubblicazione della sentenza n. 19597/2020, pare opportuna una disamina dei principi espressi in quella sede dalla Suprema Corte e delle prime valutazioni in merito espresse da parte della dottrina e della giurisprudenza successiva.

Oltre a ripercorrere i principali rilevi critici evidenziati dalla dottrina fino ad ora, un ulteriore aspetto che merita particolare attenzione, è il fatto che il principio espresso dagli Ermellini, secondo cui in caso di accertata usurarietà degli interessi moratori sono comunque dovuti gli interessi corrispettivi correttamente pattuiti, non pare tenere in considerazione il fatto che il prestito erogato dalla banca in favore del cliente è unico, così come è unico l’interesse applicato al suddetto prestito, anche se calcolato con tassi differenti. Verrà poi analizzato il c.d. “tasso complessivo del prestito”, inteso come tasso medio ponderato ottenuto rapportando la somma di tutti gli interessi pagati (corrispettivi e moratori) al capitale prestato (v. infra par. 6), al fine di cercare di comprendere se la soluzione adottata con la citata sentenza della Suprema Corte sia effettivamente coerente con la corretta applicazione della tecnica bancaria.

Si svolgeranno inoltre alcune riflessioni in merito ai richiami effettuati dalla Suprema Corte rispetto alla giurisprudenza della Corte di Giustizia (C. Giust. UE, Banco Santander SA, cause riunite C-96/16 e C-94/17[3] e C. Giust. Unicaja Banco e Caixabank, cause riunite C-482/13, C-484/13, C-485/13 e C-487/13[4]) a sostegno del proprio percorso motivazionale.

2.Interessi di mora e interessi corrispettivi: presunta disomogeneità dei tassi e soglie antiusura

2.1. Gli interessi di mora rilevano ai fini della verifica delle soglie di usura: tesi “restrittiva”

In primo luogo, si ritiene utile una disamina dei principali argomenti portati a sostegno delle due contrapposte tesi in merito alla rilevanza degli interessi moratori rispetto alla verifica del rispetto delle soglie di usura, che hanno a lungo interessato il dibattito giurisprudenziale e dottrinale sul tema fino a giungere all’attenzione delle Sezioni Unite.

Appare utile esaminare i suddetti orientamenti e gli argomenti posti a sostegno delle due contrapposte tesi (ripercorsi dai giudici di Cassazione nel proprio percorso argomentativo, v. pag. 9 e ss. della sentenza n. 19597/2020), anche al fine di meglio comprendere e analizzare il principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite con la sentenza in commento.

La tesi secondo cui gli interessi di mora non dovrebbero rientrare nella verifica delle soglie di usura (c.d. “tesi restrittiva”[5]) si fonda, tra i vari argomenti, sul presupposto che gli interessi di mora abbiano natura giuridica diversa rispetto agli interessi corrispettivi.

Una prima argomentazione a sostegno di tale orientamento, veniva individuata dai sostenitori della tesi “restrittiva” nella lettera dell’art. 644 c.p. il quale, secondo tale impostazione, parrebbe circoscrivere la valutazione “dell’interesse usurario” entro il perimetro degli interessi corrispettivi[6]. Tale assunto troverebbe conferma nella differenza sussistente tra l’interesse corrispettivo e l’interesse moratorio, poiché l’interesse moratorio sarebbe assimilabile ad una clausola penale, prevista per il ritardo o per l’inadempimento, di cui all’art. 1382 c.c.

Come noto, infatti, la disciplina della clausola penale prevede che, nel caso in cui la suddetta clausola fosse ritenuta eccessiva, si possa richiedere una riduzione in via equitativa all’autorità giudiziaria.

Secondo i sostenitori della tesi “restrittiva”, l’ordinamento avrebbe quindi già previsto a livello di normativa primaria il corretto strumento teso a porre rimedio alla sproporzione tra le prestazioni e, di conseguenza, non si dovrebbe fare ricorso al meccanismo di cui all’art. 1815 c.c.

Alla stregua di tale impostazione, pertanto, l’interesse moratorio avrebbe una ratio e una funzione differente rispetto all’interesse corrispettivo, poiché il primo risponderebbe alla logica dell’inadempimento, mentre il secondo risponderebbe alla logica della naturale fecondità del denaro. L’interesse corrispettivo avrebbe, infatti, una natura remunerativa, tesa a corrispondere un’utilità per il mancato godimento del bene e in forza della naturale fecondità del denaro. L’interesse moratorio, al contrario, avrebbe solo natura risarcitoria e sarebbe riconducibile allo schema della clausola penale, teso a fornire una liquidazione forfettaria minima per ristorare del danno patito dal soggetto per il ritardo nell’adempimento.

L’interesse corrispettivo avrebbe poi la caratteristica di essere un interesse “effettivo”, ossia un interesse che deve essere corrisposto al creditore regolarmente. Al contrario, l’interesse moratorio sarebbe un interesse solo “eventuale” che andrebbe erogato solo in caso di inadempimento.

Alla stregua di quanto affermato, la diversa natura dell’interesse corrispettivo rispetto a quello moratorio, giustificherebbe il fatto che la norma penale (e la norma civile di conseguenza) prendano in considerazione solo l’interesse corrispettivo.

Ancora, la previsione dell’art. 1284, co. 4 c.c. sancisce che «se le parti non ne hanno determinato la misura, dal momento in cui è proposta domanda giudiziale il saggio degli interessi legali è pari a quello previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali». Considerato che di regola il tasso previsto dalla disciplina speciale di cui all’art. 5 d.lgs. n. 231 del 2002 è superiore al tasso soglia usurario, i sostenitori della tesi “restrittiva” hanno richiamato tale aspetto per concludere nel senso che non potrebbero avere rilevanza gli interessi moratori convenzionali, poiché, in caso contrario, la norma ammetterebbe “un’usura legale”.

Oltre a tutte le considerazioni esposte, tuttavia, uno degli argomenti che maggiormente ha contribuito a rafforzare la teoria secondo cui l’interesse di mora non dovesse rientrare nel calcolo dell’usura, è stato il contenuto delle Istruzioni di Vigilanza della Banca d’Italia.

Nel dettaglio, le Istruzioni della Vigilanza relative alle rilevazioni dei Tassi Medi applicati dalle banche e dagli intermediari ogni trimestre, affermano che dal «calcolo del tasso» rilevante ai fini dell’usura «sono esclusi (…) gli interessi di mora e gli oneri assimilabili contrattualmente previsti per il caso di inadempimento di un obbligo». In via correlata, i decreti trimestrali non includono la voce moratoria nel conto, e pertanto si legge «i tassi effettivi globali medi (…) non sono comprensivi degli interessi di mora contrattualmente previsti per i casi di ritardato pagamento».

Secondo tale impostazione, alla luce del c.d. “principio di simmetria”, se il TEGM non prende in esame il tasso di mora, tale voce di costo non dovrebbe rientrare neanche nella verifica del rispetto delle soglie usurarie del singolo rapporto.

2.2. Gli interessi di mora rilevano ai fini della verifica delle soglie di usura: tesi “estensiva”

I sostenitori della contrapposta “tesi estensiva”, che riconduce nel calcolo del tasso di usura anche gli interessi moratori, hanno di contro posto in luce molteplici argomenti[7].

In primis, il fatto di qualificare gli interessi di mora come interessi “speculari” rispetto agli interessi corrispettivi, considerandoli dotati della medesima funzione, ossia quella di risarcire e riparare il danno derivante dalla indisponibilità del denaro subito dal creditore. Si parla infatti di “omogeneità funzionale” dei due interessi[8], a prescindere dal fatto che materialmente tale remunerazione sia collocata nella fase fisiologica o patologica del rapporto. Pertanto, se la ratio e la funzione sono identiche, gli interessi moratori devono rilevare ai fini del calcolo del tasso di usura.

Questa prospettiva troverebbe un doppio riscontro sia nel dato normativo sia nel dato letterale.

In secondo luogo, è stato evidenziato il contenuto dell’art. 1224 c.c. co. 1, ultimo periodo, in quanto la norma prevede che se prima della mora erano dovuti interessi in misura superiore a quella legale, gli interessi moratori sono dovuti nella stessa misura. Ciò significa che se le parti hanno convenuto interessi corrispettivi in misura superiore a quella legale (purché inferiore al tasso soglia) e non è stata convenuta la misura degli interessi moratori, a questi ultimi si applica lo stesso tasso previsto per quelli corrispettivi. Secondo tale impostazione, pertanto, sarebbe lo stesso codice civile ad equipararli, trattando gli interessi moratori alla stregua degli interessi corrispettivi, e riconducendoli sotto l’alveo dell’art. del 1815, co. 2°.

Ulteriore testuale conferma di tale assunto, si ricaverebbe dall’art. 644 c.p. il quale, come più volte ribadito, fa riferimento alle “remunerazioni” a “qualunque titolo”.

Altro riscontro normativo a sostegno di tale orientamento sarebbe rappresentato dal d.l. 394 del 2000, art. 1[9], in cui vengono richiamati gli “interessi convenuti a qualsiasi titolo” e, di conseguenza, sarebbero ricompresi nella citata disposizione anche gli interessi moratori dovuti per il ritardo nell’adempimento dell’obbligazione pecuniaria.

Inoltre, la relazione governativa di accompagnamento al menzionato d.l. fa espresso riferimento a ogni tipologia di interesse che rileva nel calcolo del tasso di usura, sia esso corrispettivo, compensativo o moratorio.

Di conseguenza, i sostenitori della tesi “estensiva” intravedevano un’espressa volontà del legislatore nel dare rilevanza all’interesse moratorio nel calcolo dell’usura.

Proseguendo nella disamina della tesi estensiva, occorre rilevare che la mancata indicazione dell’interesse di mora nel TEGM risponde ad un’esigenza ben precisa, in quanto il Tasso Medio ha lo scopo di fornire il dato statistico in merito a quale sia il costo medio del credito in un dato momento storico-economico.

A tal proposito, le Istruzioni di Vigilanza della Banca d’Italia, hanno escluso dalle voci di costo da inserire nel calcolo del Tasso Medio, classi di operazioni creditizie che rappresentano forme di “credito agevolato”, come ad es. i “finanziamenti infragruppo” o i prestiti effettuati ai dipendenti di banca. Allo stesso modo, sono escluse quelle voci che segnalano forme di patologia connesse all’erogazione del credito, ad es. “crediti a sofferenza”, “crediti revocati/ristrutturati”.

La ratio di tali esclusioni è che tutte quelle voci di costo relative a forme di credito agevolato (che possono determinare il ricorso a tassi più favorevoli) o di situazioni di patologia, non sono voci di costo standardizzabili e replicabili erga omnes, poiché rappresentano un costo del credito peculiare, legato a situazioni specifiche che esulano dalla normalità operativa. Inserirli nel Tasso Medio vorrebbe dire inficiare un dato, in un senso o nell’altro, che nasce per essere la rappresentazione numerica del costo medio – statistico, attendibile per una molteplicità di operazioni. La rilevazione del costo medio deve essere effettuata nella fase di fisiologia del rapporto e, per tale ragione, anche la mora è rimasta esclusa dalle Istruzioni di Vigilanza. In caso contrario, l’inserimento di tale voce di costo, comminata al cliente in una situazione di patologia del rapporto, porterebbe ad una lievitazione del Tasso Medio del credito, che invece deve costituire un “calmiere” dei costi generalmente applicati alla clientela, e non delle peculiarità del singolo caso.

Cosa ben diversa, invece, è la ratio che anima la legge n.108 del 1996, che invece richiede di prendere in considerazioni “tutti” i costi connessi all’erogazione del credito nella situazione specifica. Pertanto, si potrà (e si dovrà) tenere conto di eventuali tassi di interesse agevolati (come nel caso di eventuali operazioni infragruppo concesse a tassi di interesse migliorativi), se materialmente applicati al cliente e, allo stesso modo, sarà necessario conteggiare ulteriori costi, come la mora e altri oneri effettivamente comminati al cliente.

Tale esclusione, appare quindi più che condivisibile, in quanto l’inserimento del tasso di mora porterebbe ad un innalzamento del TEGM e, di conseguenza, del tasso soglia, escludendo dalla normativa antiusura numerose operazioni.

Infine, non rileverebbe quanto indicato all’art. 1284, comma 4 c.c., ovvero, che dal momento in cui è proposta domanda giudiziale il saggio degli interessi legali è pari a quello previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali. Ciò in quanto, in tal caso, il maggior tasso ha la specifica funzione sanzionatoria a carico del debitore inadempiente, che perseveri nell’inadempimento anche dopo la proposizione della domanda giudiziale (che risulterà fondata) e non discende dalla semplice mora.

Tutto quanto esposto, porterebbe ad escluderebbe la cogenza del c.d. principio di simmetria, anche in forza del fatto che la legge ha previsto uno spread tra TEGM e tasso – soglia, tollerato dal sistema, proprio al fine di lasciare uno spazio ulteriore rispetto ai parametri di mercato (v. pag. 15 della sentenza in commento).

Si precisa, per completezza, che la rilevanza della mora nella verifica del rispetto delle soglie di usura, non deve essere in alcun modo intesa come “sommatoria dei tassi” (come da alcuni erroneamente sostenuto) che rappresenterebbe un grave errore giuridico e matematico. Bensì, deve intendersi nel senso che l’interesse di mora deve rientrare nella verifica delle soglie di usura quale costo connesso all’erogazione del credito.

La circostanza che frequentemente il tasso di mora sia espresso come maggiorazione del tasso corrispettivo pattuito, ha infatti ingenerato errori interpretativi in quanto non è il tasso di mora che va sommato al tasso corrispettivo, bensì è la maggiorazione che va sommata al tasso corrispettivo per ottenere il tasso di mora. I due tassi si succedono, non si sommano: a seguito dell’inadempimento non si realizza alcun cumulo, bensì, sono dovuti solo gli interessi di mora[10].

3. Applicabilità della disciplina antiusura agli interessi moratori

Con la sentenza n. 19597 del 2020, la Suprema Corte ha sancito che il “criterio-guida” della propria decisione sarebbe stata la ratio del divieto di usura e le finalità che con esso si siano intese perseguire (pag. 10 della sentenza). In particolare, continua la Corte, rilevano e conseguentemente fanno propendere per l’adesione alla tesi estensiva, che vuole anche il tasso di mora assoggettato alla normativa antiusura, l’esigenza di piena tutela del soggetto debitore e la circostanza che il concetto di interesse usurario e la relativa disciplina repressiva non possono dirsi estranei agli interessi moratori[11].

In primo luogo appare certamente condivisibile che la Corte abbia sancito, si spera definitivamente, il principio dell’applicabilità della disciplina antiusura agli interessi moratori, sanzionando sia la pattuizione degli interessi eccessivi convenuti al momento della stipula del contratto, sia la promessa di qualsiasi somma usuraria sia dovuta in relazione al contratto concluso.

Pertanto, la disciplina prevista dall’ordinamento con riguardo agli interessi usurari (artt. 1815 c.c. e 644 c.p., nonché 2 legge n. 108/1996, D.L. n. 394/2000, convertito dalla legge n. 24/2001, e relativi decreti ministeriali, nella specie D.M. 22 marzo 2002) è estensibile anche agli interessi moratori (e non solo agli interessi corrispettivi).

Le Sezioni Unite, attribuendo agli interessi moratori «natura di liquidazione forfettaria e preventiva del danno», ne fanno però discendere «l’inquadrabilità nell’art. 1382 c.c., strutturandosi il patto sugli interessi moratori come un tipo di clausola penale» e riconoscendo poi agli interessi di mora rispetto agli interessi corrispettivi, una diversa «intensità del cd. rischio creditorio». Pertanto, «il creditore dovrà ricomprendervi il costo dell’attivazione degli strumenti di tutela del diritto insoddisfatto» – sostenendo che in relazione a tale rischio, l’intermediario può determinare i tassi applicabili (ex artt. 120-undecies e 124-bis del TUB) «ma anche tale costo deve soggiacere ai limiti antiusura» (pag. 18 e 19 della sentenza).

Seppur non sia possibile in questa sede approfondire appieno il tema, che meriterebbe una trattazione a parte, non ci si può esimere dal rilevare che, per stessa ammissione delle Sezioni Unite, «il merito creditizio del cliente determina in concreto la misura degli interessi moratori». Sorge quindi spontaneo chiedersi in che modo tale merito creditizio venga in concreto determinato, considerato che per espressa indicazione della Suprema Corte, risulta essere un elemento determinante nello stabilire il costo di effettivo accesso al credito.

Proseguendo nell’analisi della sentenza in commento, la Corte ha preso in considerazione la normativa comunitaria di trasparenza sul credito al consumo – secondo la quale il T.E.G. è determinato sulla base del costo totale del credito per il consumatore, ad eccezione di eventuali penali per l’inadempimento[12] – la quale “non sembra confliggere con l’autonomo rilievo, a fini civili e penali, della disciplina di contrasto all’usura”.

Del resto, l’esclusione dell’interesse di mora dal calcolo del tasso di usura, avrebbe inevitabilmente determinato un approccio a favore della parte più forte del rapporto negoziale.

In questo senso, il Supremo Consesso ha aderito all’interpretazione “estensiva” e pare aver adottato l’impostazione maggiormente condivisibile in forza del principio di solidarietà, di non sproporzione e di equilibrio dei rapporti e delle prestazioni. Inoltre, parrebbe essere la chiave di lettura più consona anche in relazione all’interpretazione più corretta dell’art. 644 c.p.

Dall’altro lato, gli esiti a cui è giunta la decisione della Corte di Cassazione hanno destato forti perplessità da parte degli interpreti[13], avendo sensibilmente ridimensionato le conseguenze economiche derivanti dall’effettivo accertamento del superamento delle soglie di usura rispetto agli interessi moratori.

La Corte ha infatti ritenuto che in caso di accertato superamento delle soglie usurarie con riferimento agli interessi di mora, sono comunque dovuti gli interessi corrispettivi correttamente pattuiti (artt. 1815, co. 2 c.c. e 1224, co. 1 c.c.).

Ulteriori perplessità riguardano il parametro di valutazione dell’usurarietà del saggio di interessi richiamato dalle Sezioni Unite[14].

Di seguito verranno analizzate alcune delle tematiche esaminate dalle Sezioni Unite e che maggiormente hanno fatto discutere gli interpreti e gli studiosi fino ad ora.

Un primo aspetto che occorre porre in evidenza, è che la Corte di Cassazione è giunta ad asserire la rilevanza degli interessi di mora ai fini della verifica del rispetto delle soglie usurarie affermando, tuttavia, nel proprio percorso motivazionale che la pronuncia della Corte Costituzionale del 25 febbraio 2002, n. 29 fosse “priva di cogenza”, trattandosi di pronuncia sulla mera ammissibilità della questione e, in quanto tale, priva del crisma della inconfutabilità (s.v. pag. 17 della sentenza n. 19597/2020).

Si ricorda che con la pronuncia n. 29 del 25 febbraio 2002[15], la Corte Costituzionale aveva affermato che il riferimento agli “interessi a qualunque titolo convenuti”, contenuto nel d.l. n. 394 del 2000[16] (legge di Interpretazione autentica della legge 7 marzo 1996, n. 108, recante disposizioni in materia di usura), e precisamente nell’art. 1, comma 1, rendeva plausibile l’assunto che “il tasso soglia si riferisca anche gli interessi moratori”.

In tale occasione la Corte Costituzionale ha affermato altresì che il regime civilistico della nullità delle clausole contenenti la pattuizione di interessi usurari, è del tutto distinto dal profilo penalistico, ed in sé autosufficiente. Questo sarebbe confermato dal fatto che il legislatore del 1996, redigendo la legge n. 108, abbia provveduto a riscrivere tanto la norma di cui all’art. 644 c.p. quanto, separatamente, quella di cui all’art. 1815, 2° co., c.c. Da ciò ne deriverebbe, secondo l’interpretazione fornita dal giudice delle leggi, che per ottenere la dichiarazione di nullità civilistica della clausola del mutuo che sia ritenuto usurario, ai sensi dell’art. 1815 cod. civ., non sarebbe neppure necessaria la contestazione della fattispecie penale di cui all’art. 644 cod. pen., trattandosi di norma da ritenersi autonoma e in sé sufficiente.

La suddetta pronuncia della Corte Costituzionale ha inoltre rappresentato un importante punto di riferimento per la giurisprudenza successiva[17], ricordando inoltre che «la ratio della legge n. 108 del 1996, quale risulta con chiarezza dai lavori preparatori, è quella di contrastare nella maniera più incisiva il fenomeno usurario. Siffatta finalità è stata essenzialmente perseguita, per ciò che interessa il presente giudizio, da un lato rendendo più agevole l’accertamento del reato, attraverso l’individuazione di un tasso obiettivamente usurario e la trasformazione dell’approfittamento dello stato di bisogno, di difficile prova, da elemento costitutivo del reato a circostanza aggravante, dall’altro inasprendo le sanzioni penali e civili connesse alla condotta illecita (articoli 1 e 4 della legge)» (punto 4.3 della sentenza n. 29 del 2002 Corte Cost.).

La suddetta ratio che animava la legge n. 108/1996, per le ragioni esposte in seguito, è stata fortemente ridimensionata a seguito della sentenza delle Sezioni Unite n. 19597/2020.

Appare in proposito estremamente puntuale quanto affermato in dottrina, ovvero che «non pare dubbio che il tratto della sentenza della Corte Costituzionale, lungi dall’essere una digressione incidentale, costituisca l’affermazione di un vero e proprio principio di diritto: la legge 108 del 1996 si applica anche agli interessi moratori. Sembra dunque scorretto tentare di minimizzare peso e spessore dell’intervento della Corte Costituzionale. Anche perché va osservato, in linea con quanto appena riscontrato, che l’arresto non va affatto nella direzione della «creazione» di un tasso soglia ad hoc per gli interessi moratori, come invece fanno le Sezioni Unite (cfr. n. 3). In realtà, va nel senso di predicare l’unitarietà della considerazione della fattispecie usuraria (cfr. 644 c.p.), come poi più pronunce delle sezioni semplici hanno rilevato»[18].

Senza dimenticare poi che la Consulta è l’organo deputato dalla Carta Costituzionale all’interpretazione delle leggi.

Affermare a distanza di quasi vent’anni dalla pubblicazione della sentenza n. 29 del 2002 che sarebbe priva di cogenza appare, quantomeno, un’interpretazione discutibile.

4. Le rilevazioni di Banca d’Italia e il c.d. “tasso soglia moratorio”: rilievi critici e il c.d. principio di simmetria

Un ulteriore aspetto che appare poco convincente rispetto a quanto affermato dalle Sezioni Unite, è il richiamo alla c.d. “maggiorazione media degli interessi moratori”, che frequentemente viene applicata per determinare il “tasso soglia” degli interessi moratori, diverso dal “tasso soglia ordinario” il quale, secondo questa impostazione, verrebbe circoscritto ai solo interessi corrispettivi.

Come ricordato nei paragrafi che precedono, l’esclusione del tasso di mora dal TEGM risponde ad un’esigenza ben precisa.

E’ quindi possibile (o per meglio dire “inevitabile”) che il Tasso Medio (TEGM), quale calmiere dei costi applicati alla normale clientela, e il Tasso Effettivo Globale (TEG)[19], quale costo effettivo dell’operazione, possano essere diversi tra loro, perché diversa è la ratio e la funzione che anima le due voci. La disomogeneità dei due indici è pertanto intrinseca nella diversa funzione espressa dagli stessi.

Il ragguaglio tra il Tasso Medio e il Tasso Soglia che indica l’eccessiva onerosità del credito concretamente applicato, viene fornito dal cuscinetto previsto ex lege[20] e che rappresenta una forbice entro la quale vanno inseriti i costi e le remunerazioni ulteriori rispetto al Tasso Medio. Se le ulteriori remunerazioni concretamente applicate all’operazione restano nella forbice legislativamente prevista, il costo del credito è considerato legislativamente equo, rimanendo entro il TSU. Diversamente, se lo supera, il costo del credito diventa usurario ed è illecito.

Del resto, come ricordato dalle Sezioni Unite con la pronuncia in commento (v. pag. 13 della sentenza), anche la stessa comunicazione della Banca d’Italia del 3 luglio del 2013[21] ha affermato che il mancato rilievo degli interessi moratori da parte dell’autorità amministrativa, discende dall’esigenza di non considerare nella media «operazioni con andamento anomalo» le quali potrebbero addirittura, se incluse nel calcolo, determinare un eccessivo innalzamento delle soglie di usura, in danno della clientela.

Alla luce di tali considerazioni, l’esclusione del tasso di mora dal TEGM appare una scelta più che logica e in linea con la ratio istitutiva di tale indice, che nulla ha a che vedere con il diverso problema dell’inserimento del tasso di mora nella verifica del rispetto delle soglie di usura nel caso specifico.

La “maggiorazione media degli interessi moratori” indicata dalle Sezioni Unite non è invece prevista da alcuna previsione normativa. Tuttavia, a seguito della citata comunicazione della Banca d’Italia del 2013, ha iniziato a diffondersi l’idea che dovesse sussistere anche un “tasso soglia per gli interessi moratori”, ovviamente diverso e più alto rispetto al tasso soglia ordinario, sulla base del presupposto che quest’ultimo dovesse riferirsi ai soli interessi corrispettivi[22], anche al fine di rispettare il c.d. “principio di simmetria”.

In mancanza di previsioni normative specifiche in tal senso, numerosi Tribunali hanno iniziato ad applicare nei contenziosi bancari la maggiorazione indicata dalla suddetta Banca d’Italia, che per lungo tempo è stata del 2,1 rispetto al tasso soglia previsto dalla legge 108/96.

Una prima riflessione in merito dovrebbe portare a chiedersi se il fatto che la legge non abbia mai menzionato un tasso soglia “moratorio” sia da considerarsi una “svista” del legislatore o, piuttosto, una scelta normativa ben precisa.

In tale seconda ipotesi sia gli interessi di mora sia gli interessi corrispettivi avrebbero dovuto rispettare l’unico tasso soglia previsto ex lege (senza maggiorazioni) tempo per tempo vigente, con evidenti implicazioni in relazione al configurarsi di fenomeni usurari,

Ci si dovrebbe poi chiedere se sia opportuno che la determinazione di un tasso soglia moratorio provenga da un’Autorità amministrativa, soprattutto alla luce del fatto che i provvedimenti emanati dalle Autorità amministrative, per quanto autorevoli, non possono sostituirsi né essere in contrasto con le disposizioni normative.

Per quanto riguarda il valore da attribuire alle Istruzioni di Vigilanza della Banca d’Italia, infatti, è opportuno ricordare che nell’ambito della normativa sull’usura al Ministero dell’Economia e alla Banca d’Italia non risulta affidato nessun potere secondario di specificazione dei precetti primari di legge[23].

In particolare la Corte di legittimità con la pronuncia n. 12028 del 2010[24] ha ribadito con chiarezza quanto già precedentemente affermato dalla Suprema Corte[25], ovvero che compito del Ministero del Tesoro è solo quello di “fotografare”, secondo rigorosi criteri tecnici, l’andamento dei tassi finanziari. Non v’è dubbio che la legge abbia determinato con grande chiarezza il percorso che l’Autorità amministrativa deve compiere per “fotografare” l’andamento dei tassi finanziari. Questo percorso postula l’intervento della Banca d’Italia, che nella sua qualità di Organo di Vigilanza deve fornire le dovute istruzioni alle banche ed agli operatori finanziari autorizzati per la rilevazione trimestrale dei tassi effettivi globali medi praticati dal sistema bancario e finanziario, in relazione alle categorie omogenee di operazioni creditizie.[26]

Questo intervento tecnico per “fotografare” l’andamento dei tassi finanziari postula comunque delle scelte interpretative da parte dell’Organo di vigilanza tanto in merito alla classificazione delle operazioni omogenee rispetto alle quali effettuare la rilevazione dei tassi medi effettivamente praticati nel trimestre, quanto in merito all’individuazione “delle commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e delle spese (…) collegate all’erogazione del credito”, che devono essere incluse nelle rilevazioni statistiche, quanto delle voci che devono essere escluse, in quanto imposte o tasse, ovvero oneri non collegati all’erogazione del credito. Tale meccanismo, tuttavia, non costituisce violazione del principio di riserva di legge costituendo una mera esigenza tecnico – operativa, in quanto solo il Ministero può rilevare periodicamente e con esattezza l’andamento dei tassi finanziari.

Senza poi dimenticare che le indagini della Banca d’Italia erano originariamente state effettuate a mero scopo statistico e conoscitivo, non per essere impiegate al pari di un provvedimento normativo di rango primario, al punto da determinare un tasso soglia moratorio privo di idonea base normativa.

Inoltre, a tutto concedere, anche volendo aderire all’impostazione secondo cui dovrebbe sussistere anche un tasso soglia moratorio calcolato sulla base delle maggiorazioni previste dalla Banca d’Italia, occorrerebbe quantomeno provvedere ad un aggiornamento periodico e costante di tali indici.

Difatti, la maggiorazione degli interessi moratori ha iniziato ad essere compiuta solo a partire dal decreto ministeriale del 25 marzo 2003, rispetto ad una normativa antiusura che risale al 1996.

Inoltre, la maggiorazione del 2,1 indicata nella Comunicazione di Banca d’Italia del 2013 si basava sulle rilevazioni del periodo 2001 – 2002 che non sono state più riviste per molti anni.

Tuttavia tale maggiorazione, seppur non aggiornata, è stata largamente impiegata nei contenziosi bancari per definire il tasso soglia moratorio delle operazioni contestate, con un evidente “distacco” tra all’effettivo costo del denaro e i tassi di interesse applicati nei contratti bancari di cessione del credito, rispetto al parametro impiegato in giudizio per verificare l’usurarietà o meno dei medesimi.

Appare evidente che l’utilizzo di dati non aggiornati possa realizzare solo un livello di simmetria “debole” e, in quanto tale, non idoneo allo scopo.

Solo dal 2017, inoltre, si è iniziato a distinguere all’interno di tale tasso individuando tre classi di operazioni (mutui ipotecari ultraquinquennali, operazioni di leasing e complesso degli altri prestiti), mentre prima sussisteva una sola maggiorazione per tutte le tipologie creditizie.

Appare evidente come tale modus operandi presentasse molte lacune e da tempo si discuteva dell’opportunità di fare ricorso a tali maggiorazioni.

Si richiama a tal proposito la giurisprudenza, sia di merito sia di legittimità, e l’autorevole dottrina[27] secondo cui l’accertamento degli interessi moratori deve essere effettuato confrontando il tasso pattuito con il tasso soglia per quel tipo di contratto, escludendo la possibilità di apportare l’incremento del 2,1% così come precedentemente previsto dalla circolare Banca Italia “Chiarimenti in materia di applicazione della Legge antiusura” (2013).

Nello specifico si richiama l’ordinanza resa dalla Terza sezione civile della Cassazione il 30.10.18, n. 27442[28] la quale, con argomentazioni che paiono convincenti e coerenti, ha espresso il seguente principio di diritto: «è nullo il patto con quale si convengono interessi convenzionali che, alla data di stipula, eccedano il tasso soglia di cui all’art. 2 della l. 7.3.1996 n. 108,»; ancora «il riscontro dell’usurarietà degli interessi convenzionali moratori va computato confrontando puramente e semplicemente il saggio degli interessi pattuito nel contratto col tasso soglia calcolato con riferimento a quel tipo di contratto, senza alcuna maggiorazione od incremento: è infatti impossibile, in assenza di qualsiasi norma di legge in tal senso, pretendere che l’usurarietà degli interessi moratori vada accertata in base ad un fantomatico tasso talora definito nella prassi di “mora soglia”, ottenuto incrementando arbitrariamente di qualche punto percentuale il tasso soglia» (s.v. punto 1.11 dell’ordinanza).[29]

Si ricorda altresì quanto affermato dal Tribunale di Torino, che appare opportuno riportare testualmente, in quanto ha descritto con estrema chiarezza le problematiche legate alla maggiorazione prevista dalla Banca d’Italia, al non aggiornamento periodico del relativo indice, oltre all’opportunità di ricorrere alla medesima maggiorazione, ricordando che il tasso soglia è unico: «è da osservare che, ai fini del tasso soglia deve considerarsi esclusivamente il TEGM pubblicato nei D.M. pro tempore vigenti, incrementato degli ordinari coefficienti, senza fare luogo ad alcuna maggiorazione. Ciò ancorché un’indagine statistica a fini conoscitivi, condotta dalla Banca d’Italia e dall’Ufficio Italiano Cambi, nel lontano 2002, abbia “rilevato che, con riferimento al complesso delle operazioni facenti capo al campione di intermediari considerato, la maggiorazione stabilita contrattualmente per i casi di ritardato pagamento è mediamente pari a 2,1 punti percentuali” (come tuttora si legge nei D.M. trimestrali). Osta all’incremento del TEGM in ragione del 2,1% un’evidente incompatibilità con i fondamenti della legge n. 108. “Il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari” (art. 644 co. 3 c.p.) è evidentemente unico, e per essere unico non può che essere globale (art. 644 co. 4). O il costo (interesse commissione spesa) è inerente alla concessione di credito – e allora rientra nel TEG – oppure ne è estraneo».[30]

È quindi evidente che un tasso rilevato una tantum e mai più aggiornato, neppure differenziato per classi di operazioni omogenee, “con riferimento al complesso delle operazioni”, è manifestamente incoerente col procedimento di determinazione delle soglie d’usura previsto dalla legge n. 108 e non può dunque essere utilizzato, perché contra legem, per decidere dell’usurarietà di un mutuo concesso dopo il 2002.[31]

Tuttavia, le Sezioni Unite con sentenza in commento hanno ritenuto di attribuire un ruolo determinate alle rilevazioni di Banca d’Italia, affermando che così come la legge ha introdotto la qualificazione oggettiva della fattispecie usuraria mediante l’individuazione del tasso-soglia per gli interessi corrispettivi, analogamente, per gli interessi moratori, l’identificazione dell’interesse usurario “passa dal tasso medio statisticamente rilevato, in modo altrettanto oggettivo ed unitario, idoneo a limitare l’esigenza di misurarsi con valutazioni puramente discrezionali” (pagina 19 della sentenza).

A sostegno delle proprie argomentazioni, gli Ermellini hanno richiamato l’ultima rilevazione statistica della Banca d’Italia avvenuta nel 2019, secondo cui i tassi di mora pattuiti presentano, rispetto ai tassi percentuali corrispettivi, una maggiorazione media pari a 1,9 punti percentuali per i mutui ipotecari ultraquinquennali, a 4,1 punti percentuali per le operazioni di leasing e a 3,1 punti percentuali per il complesso degli altri prestiti (pag. 21 della sentenza).

A distanza di tempo della pubblicazione della sentenza delle Sezioni Unite, persistono tutt’ora le perplessità che precedevano la suddetta pronuncia, in merito all’opportunità che rilevazioni statistiche, spesso non tempestivamente aggiornate, sporadiche e ritardate, risultino invece determinanti nello stabilire il tasso soglia moratorio. Oltre al fatto che la qualità della rilevazione risulta parziale, sia con riferimento al periodo oggetto di analisi, sia al numero di operazioni di mercato monitorate[32]. Inoltre, seppur di recente siano state create tre classi creditizie appaiono ancora classificazioni troppo generiche e limitate rispetto all’effettiva operatività nel mercato.

Ancora, non si può non notare che si tratta di indici determinati, di fatto, dal medesimo sistema bancario e non verificabili in alcun modo.

Da ultimo si ricorda che la stessa Comunicazione di Banca d’Italia del 2013, ha espressamente affermato che «La legge n. 108/1996 ha introdotto un limite ai tassi effettivi sulle operazioni di finanziamento, il cui superamento determina un caso di usura. I tassi soglia non sono fissati dalla Banca d’Italia ma determinati da un automatismo stabilito dalla legge, a partire dai tassi medi di mercato rilevati trimestralmente dalla Banca d’Italia e pubblicati dal Ministero dell’Economia e delle Finanze»[33].

Quindi, da un lato l’autorità di Vigilanza afferma che i tassi soglia sono definiti esclusivamente dalla legge n. 108/1996, dall’altro, con la sentenza in commento, la Cassazione ha attribuito alle rilevazioni statistiche della Banca d’Italia un ruolo determinate nella definizione del tasso soglia moratorio, il quale però non è previsto dalla legge. Non vi è chi non veda l’incongruenza del caso.

La Suprema Corte ha poi statuito che ove invece i decreti ministeriali non rechino l’indicazione della maggiorazione media dei moratori, quindi per l’epoca antecedente alla prima rilevazione della Banca d’Italia, resta il termine di confronto del T.E.G.M., così come rilevato, con la maggiorazione ivi prevista[34].

Anche tale assunto non può che lasciare spazio a varie criticità, in quanto appare logico affermare che se la regola di simmetria è presupposto della legge antiusura, i decreti ministeriali che non rilevino il valore medio degli interessi moratori vanno disapplicati in quanto contra legem. Se invece il principio di simmetria non governa la disciplina antiusura, allora si applica solo il tasso soglia “ordinario”.

Dall’accoglimento del seconda ipotesi deriverebbe poi l’ulteriore corollario dell’applicazione integrale della legge 108 del 1996 e, di conseguenza, anche del rimedio di cui all’art. 1815, comma 2, c.c.”[35]. In altre parole, per logica e coerenza strutturale, se effettivamente occorre individuare un “tasso soglia moratorio” occorre farlo sempre, non solo da una certa data in poi in quanto prima di tale momento non sussistono rilevazioni statistiche da parte della Banca d’Italia.

5. L’ accertamento dell’usurarietà degli interessi di mora: applicazione dell’art. 1224, comma 1, c.c. e conseguente debenza degli interessi corrispettivi lecitamente convenuti

Uno degli aspetti certamente più ambigui della sentenza in commento è il fatto che le Sezioni Unite abbiano stabilito che qualora il giudice accerti l’effettiva usurarietà degli interessi moratori è applicabile l’art. 1815, comma 2, c.c., “ma in una lettura interpretativa che preservi il prezzo del denaro”. Pertanto, il patto relativo agli interessi moratori è inefficace e si applica la regola generale del risarcimento per il creditore, di cui all’art. 1224 c.c., commisurato non più alla misura originariamente concordata ed usuraria, ma alla misura pattuita per gli interessi corrispettivi.

A parere della Corte quindi l’art. 1815, comma 2, c.c., va ora interpretato nel senso che, pur sanzionando la pattuizione degli interessi usurari, fa seguire la sanzione della non debenza limitatamente al tipo di interesse che quella soglia abbia superato.

Secondo questa impostazione, ove l’interesse corrispettivo sia lecito e solo il calcolo degli interessi moratori applicati comporti il superamento della soglia usuraria, ne deriva che solo gli interessi moratori sono illeciti e preclusi. Resta ferma in ogni caso la previsione di cui all’art. 1224, comma 1, c.c., con la conseguente applicazione degli interessi nella misura dei corrispettivi lecitamente pattuiti.

Traducendo questo principio sul piano applicativo, secondo le Sezioni Unite, una volta dichiarata nulla la clausola sugli interessi moratori:

  • le rate scadute al momento della caducazione del prestito restano dovute nella loro integralità, comprensive degli interessi corrispettivi in esse già conglobati, oltre agli interessi moratori sull’intero nella misura dei corrispettivi pattuiti;
  • per quanto attiene le rate a scadere, sorge l’obbligo d’immediata restituzione dell’intero capitale ricevuto, sul quale saranno dovuti gli interessi corrispettivi, ma attualizzati al momento della risoluzione.

Nonostante l’indubbia autorevolezza dell’Organo giudicante, il principio di diritto qui riportato appare francamente poco convincente. Non solo perché non si ravvisa un’adeguata base normativa a sostegno di tale impostazione bensì, al contrario, la scelta adottata dalla Corte appare confliggere con il dettato normativo del medesimo art. 1815, co. 2.

La norma recita infatti “Se sono convenuti interessi usurari la clausola è nulla e non sono dovuti interessi”, senza alcuna distinzione tra la tipologia di interessi. Si ricorda inoltre che la disciplina normativa antecedente alla riforma del 1996, stabiliva che in caso di accertata applicazione di interessi usurari questi venivano automaticamente ridotti al tasso legale, in deroga al disposto dell’art. 1343 c.c. Con la nuova formulazione il legislatore del 1996 ha adottato una linea più severa nei confronti del creditore, prevedendo una sanzione che converte il mutuo usurario in mutuo gratuito, mantenendo in essere il contratto di mutuo (o linea di credito in senso ampio) al fine di non sacrificare l’interesse della parte debole del rapporto.

L’impostazione coniata dalla Suprema Corte con la sentenza in commento appare invece sovvertire il dato letterale del precetto normativo e la ratio stessa della riforma del 1996, sulla base di un’interpretazione che appare “forzata” della medesima norma, che la Corte ha giustificato affermando che rendendo nulla l’intera clausola di interessi (corrispettivi e moratori) il debitore inadempiente verrebbe “premiato” rispetto al debitore che adempia con regolarità e puntualità ai propri obblighi “come avverrebbe qualora, all’interesse moratorio azzerato, seguisse un costo del denaro del tutto (inesistente), con l’obbligo a carico del debitore di restituire il solo capitale, donde un pregiudizio generale all’intero ordinamento sezionale del credito (cui assegna una funzione di interesse pubblico), nonché allo stesso principio generale di buona fede, di cui all’art. 1375 c.c.” (v. pag. 24 della sentenza).

Per quanto la tesi possa apparire ad una prima lettura suggestiva, in realtà, non persuade.

Ciò in quanto, in primo luogo, il debitore che adempia con regolarità, potrebbe non avere mai modo di appurare che il tasso di mora pattuito per l’erogazione del proprio credito è, in realtà, superiore alle soglie di usura. Salvo intraprendere un’azione di accertamento che, tuttavia, per come delineata dalla Suprema Corte nella sentenza in commento, rischierebbe di essere (sostanzialmente) “inutiliter data”, per le ragioni che verranno esposte (v. infra sul punto).

L’aspetto che però maggiormente pare rendere non condivisibile la tesi sostenuta dalle Sezioni Unite, è la ratio stessa che ha istituito la disciplina antiusura, tesa a sanzionare la condotta di colui che presta denaro ad un costo usurario, sia esso relativo agli interessi corrispettivi, sia agli interessi moratori, a prescindere dal fatto che il debitore provveda regolarmente nei pagamenti o meno.

Si ricorda nuovamente il contenuto dell’art. 1 del D.L. 29 dicembre 2000, n. 394, convertito nella L. 28 febbraio 2001, n. 24, ovvero che «si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento de loro pagamento», dando quindi rilevanza al momento della pattuizione.

A sostegno del proprio percorso motivazionale, le Sezioni Unite hanno poi richiamato la giurisprudenza della Corte di Giustizia, in particolare la sentenza del 7 agosto 2018, Banco Santander SA, cause riunite C 96/16 e C-94/17[36], in quanto la suddetta pronuncia della Corte di Lussemburgo, avrebbe concluso nel senso di mantenere in essere la pattuizione degli interessi corrispettivi anche a fronte dell’abusività della clausola relativa agli interessi di mora.

Tuttavia, il richiamo effettuato dalla Sezioni Unite non appare pertinente, in quanto i casi sottoposti all’attenzione della Corte di Giustizia avevano ad oggetto la valutazione di abusività delle clausole che stabilivano gli interessi moratori, in quanto non negoziate con il consumatore, e non l’usurarietà del suddetto saggio di interessi richiesti in pagamento[37].

Un conto infatti è stabilire sulla base della disciplina consumeristica[38] l’eventuale abusività di determinate clausole, tali da determinare uno squilibrio dei diritti e obblighi derivanti dal contratto, come nel caso esaminato dalla Corte di Giustizia. Fattispecie ben diversa è invece l’ipotesi di pattuizione di interessi moratori usurari in violazione della disciplina antiusura.

Inoltre, risultano molto diversi la ratio e lo scopo sottesi alle normative esaminate. Infatti, «l’obiettivo perseguito da detta direttiva (ovvero la Direttiva 93/13, ndr) consiste nel proteggere il consumatore e nel ristabilire l’equilibrio tra le parti escludendo l’applicazione delle clausole considerate abusive, conservando al tempo stesso, in linea di principio, la validità delle altre clausole del contratto in questione (v., in tal senso, sentenze del 30 maggio 2013, Jőrös, C397/11, EU:C:2013:340, punto 46, e del 31 maggio 2018, Sziber, C483/16, EU:C:2018:367, punto 32)» (v. punto 75 della sentenza della Corte di Giustizia)[39].

Fattispecie molto diversa è la pattuizione di interessi usurari in violazione della normativa antiusura, che è stata coniata dal legislatore nazionale con scopo punitivo e preventivo nei confronti del creditore che esige una prestazione usuraria, integrante (in determinati casi) un’ipotesi di reato.

Appare quindi evidente che la decisione della Corte di Giustizia citata non possa realmente supportare l’impianto motivazionale delle Sezioni Unite, trattandosi di fattispecie non assimilabili, che rispondono a ratio e scopi tra loro molto diversi.

Diverso aspetto attiene invece al momento in cui la mora dovrebbe essere materialmente presa in considerazione ai fini della verifica dell’usurarietà. Ovvero se si debba considerare il momento della pattuizione dei tassi, quindi anche di quelli di mora, come parrebbe essere indicato dalla legge di interpretazione autentica del 2000 che fa riferimento al momento della “pattuizione” (c.d. scenario potenziale)[40].

Diversa impostazione interpretativa, invece, afferma che la verifica del tasso moratorio dovrebbe avvenire nel momento in cui l’interesse “è effettivamente dovuto”, non solo in termini di effettivo pagamento, bensì anche nel senso di attribuire rilevanza al momento in cui l’interesse dovrebbe essere pagato, a fronte dell’inadempimento o del ritardo nell’inadempimento. Ovvero, del momento in cui l’interesse o l’onere aggiuntivo, come la penale di anticipata estinzione, è diventato esigibile (c.d. scenario della effettività)[41].

Da tempo si discute se la mora rilevi al momento della pattuizione (c.d. “scenario potenziale”) o se invece rilevi solo nel momento in cui è richiesto l’effettivo pagamento della stessa (c.d. “scenario dell’effettività”) in quanto, prima di tale momento, l’interesse di mora resterebbe solo un costo “potenziale”.

La sentenza delle Sezioni Unite, con tutti gli aspetti di luci e ombre che la caratterizzano, ha però affermato che gli interessi rilevano “al momento della pattuizione”. Ci si chiede quindi se la Corte abbia voluto prendere posizione anche sul tema relativo al momento in cui la mora assume rilievo, sancendo la rilevanza della medesima i fini della verifica delle soglie di usura al momento in cui il tasso viene pattuito e non al momento in cui ne viene richiesto l’effettivo pagamento.

D’altro canto però la pronuncia in commento introduce il concetto diinteressi moratori in concreto applicati” (pag. 29 della sentenza), da ricondurre all’interno del T.E.G. del singolo rapporto da comparare al T.E.G.M. rilevato nel D.M. vigente al momento e conclusione del contratto «…onde poi sarà il margine, nella legge previsto, di tolleranza a questo superiore, sino alla soglia usuraria, che dovrà offrire uno spazio di operatività all’interesse moratorio lecitamente applicato» (pag. 23 della sentenza).

Ora, la locuzione “interessi moratori in concreto applicati”, oltre a risultare estremamente ambigua, suscita almeno due perplessità: una, relativa alle modalità del loro computo all’interno del T.E.G. per i contratti stipulati ante D.M. 25.3.2003 e l’altra (del tutto indipendente dalla sussistenza o meno della loro rilevazione campionaria nel D.M. vigente alla data di sottoscrizione del contratto bancario) che concerne la scissione tra l’interesse moratorio convenuto e quello in concreto applicato dall’intermediario creditizio.

Ulteriore aspetto non trascurabile, sono le implicazioni di ordine penalistico che derivano dall’incentrare la sussistenza o meno dell’usurarietà del tasso limitando l’analisi solo su quello applicato “in concreto” dall’intermediario creditizio. Ciò in quanto una tale impostazione equivarrebbe ad introdurre una non prevista causa di esclusione del delitto di cui all’art. 644, c.p., nell’ipotesi in cui il tasso “in astratto”, ossia quello convenuto, risulti ab origine oltre soglia mentre quello “in concreto” risulti al di sotto della soglia[42].

Come è stato acutamente osservato «ne consegue con l’avere assunto a parametro di verifica dell’usurarietà del tasso solo quello in concreto preteso dall’intermediario creditizio, e quindi spostare il momento della rilevazione usuraria ad uno successivo a quello della pattuizione del c.d. tasso in astratto, le Sezioni Unite qui commentate non solo si pongono in contrasto con la norma di interpretazione autentica più sopra citata ma si formulano una locuzione, che include l’aggettivo qualificativo “astratto”, del tutto estraneo al linguaggio giuridico inerente alla materia degli interessi»[43].

6. Ulteriori considerazioni: l’unicità del prestito e il c.d. “tasso complessivo del prestito”

L’impostazione adottata dalle Sezioni Unite, che in caso di accertata usurarietà del tasso di interesse moratorio, prevede comunque la corresponsione del tasso di interesse corrispettivo correttamente pattuito, non considera in realtà alcuni aspetti, ovvero che il prestito erogato dalla banca in favore del cliente è unico, così come è unico l’interesse applicato al suddetto prestito, pur se calcolato con tassi differenti.

Ovvero, nel momento in cui il debitore non è più in grado di pagare le rate in scadenza, la natura del credito scaduto non cambia, bensì ad esso verrà soltanto applicato un tasso superiore, contrattualmente prestabilito e la durata del prestito diventa indefinita (fatta salva la possibilità dell’intermediario di richiedere l’immediato rientro della somma prestata, attivando la clausola di risoluzione prevista in contratto).

La situazione è molto simile a quella che si riscontra quando un affidamento in conto corrente non viene rinnovato alla scadenza: il tasso applicato dall’intermediario al correntista sale immediatamente al livello previsto per gli “utilizzi senza affidamento”, senza mutare le caratteristiche del credito. La pattuizione ad una certa data di un tasso “entro fido” e di un tasso “extra fido” è una prassi comune per gli affidamenti in conto corrente. Per i conti correnti, infatti, non è oggetto di contestazione la continuità e l’unicità del prestito nel momento in cui l’affidamento giunge a scadenza e non viene immediatamente rimborsato. Così come non è mai stata oggetto di discussione l’usurarietà dell’intero rapporto quando uno dei due tassi, o entrambi, superano le soglie di usura, confermando di fatto l’unicità del rapporto anche quando l’utilizzo prosegue oltre la scadenza dell’affidamento. Ci si chiede quindi perché il prestito sotto forma di mutuo dovrebbe avere un diverso trattamento.

Il confronto è ancora più evidente se si considera un finanziamento a medio/lungo termine con rata trimestrale di soli interessi e rimborso integrale del capitale alla scadenza (“bullet“). Supponendo che il debitore paghi regolarmente gli interessi corrispettivi trimestrali e alla scadenza non riesca però a rimborsare il capitale, ma sussista ancora la possibilità di pagare gli interessi di mora con frequenza trimestrale, la situazione del finanziamento pre-scadenza (rate 1-4) e post-scadenza (dalla 5° rata in poi) sarebbe perfettamente identica, con interessi pagati trimestralmente sullo stesso importo, calcolati ad un diverso tasso[44].

Come nel caso dell’affidamento in conto corrente scaduto, anche per il finanziamento sopra descritto la data di pagamento del capitale diventa indefinita, ed il prestito continua a tempo indeterminato fino al momento in cui l’intermediario non attiva le procedure giudiziali per il recupero della somma prestata.

Per un finanziamento con rate miste di capitale ed interessi, la situazione sopra descritta si ripete per ogni singola rata. Supponendo infatti che alla scadenza di una rata il debitore paghi solo la quota interessi, ma non la quota capitale, la frazione di prestito scaduta prosegue oltre la scadenza con la sola variazione del tasso applicato, cha passa dal tasso corrispettivo a quello di mora.

La dimostrata unicità di rapporto in relazione alla singola rata a fronte dell’unicità di rapporto per l’intero capitale (tra la situazione pre-scadenza e post-scadenza) per l’ovvia unicità di rapporto esistente tra le rate di ammortamento del prestito.

L’unicità del rapporto di finanziamento nella situazione pre-scadenza e post-scadenza non è quindi in discussione e non dovrebbero, quindi, essere poste in discussione neanche le conseguenze logico-giuridiche relativamente alla verifica del superamento delle soglie di usura e alle penalità corrispondenti all’eventuale superamento delle medesime soglie da parte dall’intermediario.

Il rapporto di finanziamento è unico così com’è unica la pattuizione di interessi. Pertanto, non si giustifica neanche dal punto di vista contabile e della tecnica bancaria una scissione tra le sorti degli interessi corrispettivi e interessi di mora in caso di accertata usurarietà solo di quest’ultimi: l’intero prestito dovrà essere considerato gratuito, con restituzione sia degli interessi corrispettivi, sia di quelli moratori.

Per offrire una visione più accurata del fenomeno dell’usura nei finanziamenti, è opportuno effettuare alcune precisazioni in merito alla determinazione del c.d. “tasso complessivo del prestito”, inteso come tasso medio ponderato ottenuto rapportando la somma di tutti gli interessi pagati (corrispettivi e moratori) al capitale prestato. Su questo punto la Cassazione è intervenuta (sentenza n. 17447/2019[45]) affermando, in primis, che al momento della stipula del contratto è esclusa la sommatoria dei tassi corrispettivi e moratori per la formazione del TEG da confrontare con i Tassi Soglia. L’argomentazione utilizzata dalla Suprema Corte nella citata sentenza non appare tuttavia pienamente convincente sul piano tecnico.

Infatti secondo la Cassazione «i due tassi sono alternativi tra loro: se il debitore è in termini deve corrispondere gli interessi corrispettivi, quando è in ritardo qualificato dalla mora, al posto degli interessi corrispettivi deve pagare quelli moratori; di cui qui la conclusione che i tassi non si possono sommare perché si riferiscono a basi di calcolo diverse: il tasso corrispettivo si calcola sul capitale residuo, il tasso di mora si calcola sulla rata scaduta»[46].

La prima motivazione non appare del tutto condivisibile perché nel caso di ritardato pagamento, al debitore sono richiesti contemporaneamente sia interessi moratori (calcolati sulla parte di debito scaduta) sia interessi corrispettivi (calcolati sulla parte di debito non ancora scaduta). I due interessi sono alternativi (non si sommano, come ricordato poc’anzi- paragrafo 2.2) ma sono riferiti a due porzioni dello stesso prestito che, per le ragioni già esposte, deve considerarsi unico ed è quindi possibile calcolarne il tasso medio ponderato, ovvero il “tasso complessivo del prestito”.

La seconda motivazione presuppone il mancato pagamento degli interessi scaduti mentre, come emerso negli esempi precedenti (prestito bullet e prestito rateale), il debitore potrebbe essere in mora con riferimento al capitale scaduto, ma essere in regola sul pagamento degli interessi scaduti. In questo caso la base di calcolo dei due tipi di interesse sarebbe identica e sarebbe quindi lecito determinare il tasso complessivo del prestito come media ponderata dei due tassi.

La seconda motivazione però non appare condivisibile neanche nel caso in cui il debitore possa essere effettivamente in mora sia con riferimento al capitale scaduto che agli interessi scaduti. Occorre infatti precisare che gli interessi scaduti contenuti in ciascuna rata non si trasformano in capitale, come affermato sentenza della Corte di Cassazione del 20 febbraio 2003, n. 2593[47] (e confermato poi dalla citata sentenza n. 17447/2019) secondo cui «Occorre, in primo luogo, rilevare che in ipotesi di mutuo per il quale sia previsto un piano di restituzione differito nel tempo, mediante il pagamento di rate costanti comprensive di parte del capitale e degli interessi, questi ultimi conservano la loro natura e non si trasformano invece in capitale da restituire al mutuante, cosicché la convenzione, contestuale alla stipulazione del mutuo, la quale stabilisca che sulle rate scadute decorrono gli interessi sull’intera somma integra un fenomeno anatocistico, vietato dall’art. 1283 c.c. Il principio è stato affermato da questa Corte a partire dalla sentenza n. 3479 del 1971, la quale osservò che “il semplice fatto che nelle rate di mutuo vengono compresi sia una quota del capitale da estinguere sia gli interessi a scalare non operi un conglobamento ne vale tanto meno a mutare la natura giuridica di questi ultimi, che conservano la loro autonomia anche dal punto di vista contabile”».

Per questo motivo gli interessi corrispettivi scaduti, non potendo essere confusi con il capitale, non possono essere inseriti al denominatore nella formula del TEG. In tal modo, poiché il denominatore della formula del TEG è il capitale prestato sia nel calcolo del tasso corrispettivo che di quello moratorio, non appare del tutto condivisibile l’affermazione secondo cui i due tassi “si riferiscono a basi di calcolo diverse”.

Nella verifica dell’usurarietà di un finanziamento, occorrerà poi verificare l’ammontare del “capitale effettivo” erogato in favore del cliente. Infatti, il capitale nominale di un finanziamento è indicato nel contratto ed è la somma di denaro sulla quale l’intermediario calcola gli interessi al tasso prestabilito.

Il capitale effettivo rappresenta invece la somma “effettivamente” ricevuta dal soggetto finanziato al netto delle spese ed oneri che devono essere riconosciuti all’intermediario al momento della stipula del contratto. Occorre quindi identificare l’effettiva prestazione iniziale di denaro sulla base della quale calcolare gli interessi ed altri oneri comunque collegati all’erogazione del credito. Si richiama in merito, il contenuto degli artt. 820 e 821 c.c. e il concetto, pacifico, che l’obbligazione di interessi è accessoria a quella per il capitale, con una funzione economica propria ed autonoma e che la fonte degli interessi è unicamente il capitale. Il calcolo è poi disciplinato dagli artt. 1284 e 1283 c.c.

Le principali voci di costo che intervengono con una riduzione del capitale effettivamente prestato (si veda lo sviluppo della formula del TEG proposta dalla Banca d’Italia) sono le seguenti:

 

Voci che diminuiscono il capitale finanziato
Spese Istruttoria
Costo Perizia
Costo Mediazione
Costo implicito derivati interni
Imposta Sostitutiva

 

Le spese di istruttoria, il costo della perizia e della mediazione sono espressamente indicate nelle “Istruzioni per la rilevazione dei tassi effettivi globali medi” della Banca d’Italia e sono generalmente di facile individuazione nel contratto o nella contabilità del debitore.

Nel caso particolare di un finanziamento stipulato per estinguere un precedente debito con lo stesso intermediario, il capitale effettivo deve tenere conto di eventuali somme non dovute (per eventuali illegittimità pregresse) contenute nel debito in estinzione. Infatti, quando il finanziamento viene concesso allo scopo di estinguere debiti con lo stesso intermediario, riscontrabili come saldo negativo di uno o più rapporti di conto corrente o di altra natura, occorre verificare preventivamente l’intero rapporto tra il correntista e l’intermediario, al fine di evidenziare la presenza di eventuali somme illegittimamente addebitate per interessi anatocistici, interessi ultralegali, commissioni di massimo scoperto ed ogni altra, eventuale, violazione normativa.

Alla luce di tutte le considerazioni suesposte, la soluzione adottata dalla Suprema Corte con la sentenza n. 19597/2020, secondo cui in caso di accertata usurarietà degli interessi moratori sono comunque dovuti gli interessi corrispettivi correttamente pattuiti, non pare tenere in debita considerazione la natura “unica” del prestito erogato e l’unicità intrinseca degli interessi applicati al suddetto prestito, ancorché calcolati su tassi diversi (corrispettivi e moratori).

7. Le tutele a favore del cliente: l’azione di accertamento e la disciplina consumeristica

Per quanto concerne le forme di tutela previste in favore del cliente, le Sezioni Unite n. 19597/2020 hanno statuito che sussiste l’interesse ad agire ex art. 100 c.p.c. per l’accertamento dell’eventuale usurarietà della clausola di interessi, sin dalla pattuizione della medesima. Ciò in quanto l’azione di mero accertamento non implica necessariamente l’attualità della lesione di un diritto, essendo sufficiente uno stato di incertezza oggettiva (pag. 29 della sentenza).

Occorre tuttavia chiarire che sulla base di quanto statuito dalle Sezioni Unite, ove tale azione di accertamento venisse intrapresa prima dell’effettivo inadempimento, la sentenza avrebbe solo lo scopo di accertare, in astratto, l’eventuale nullità di quella specifica clausola di interessi moratori pattuiti, nel caso in cui fosse utilizzata in futuro dal finanziatore.

Di conseguenza, ciò non significa che il debitore che abbia ottenuto la dichiarazione di nullità della clausola, da quel momento in poi potrà non adempiere e pretendere che nessun interesse gli sia applicato, oltre all’interesse corrispettivo incluso nelle rate già dovute. Ciò in quanto, prima dell’effettivo inadempimento, la sentenza di accertamento non avrà ancora l’effetto di rendere dovuto solo un interesse moratorio pari al tasso di interessi corrispettivi lecitamente pattuiti (ex art. 1224 c.c.), effetto che si potrà verificare solo alla condizione che in caso di ritardato pagamento dal parte del debitore, la banca applichi proprio il tasso di interesse previsto in contratto e dichiarato poi usurario. Oppure, che il tasso “in concreto” applicato sulla base della clausola di interessi, sia effettivamente sopra soglia.

Nel caso in cui il tasso “in concreto” applicato al debitore moroso sia invece sotto soglia, egli dovrà corrisponderlo e la sentenza di accertamento non potrà essere invocata, in quanto non avrà preso in esame il tasso di interesse concretamente applicato.

Ora, non vi è chi non veda che nel caso in cui la banca dovesse essere convenuta in giudizio prima dell’inadempimento del debitore, nell’eventualità in cui nel corso del rapporto con il cliente dovesse poi subentrare un effettivo ritardo nei pagamenti da parte di quest’ultimo, la suddetta banca (ragionevolmente) non richiederà in concreto il pagamento di quel medesimo tasso di interesse eventualmente dichiarato usurario da parte della sentenza di accertamento. Pertanto, il debitore sarà comunque tenuto al pagamento di un tasso di interesse moratorio superiore al saggio di interessi corrispettivi.

Ci si chiede quindi quale possa essere utilità per il soggetto finanziato ad intraprendere un contenzioso (e sostenerne i relativi costi) teso ad ottenere l’accertamento dell’eventuale usurarietà del tasso di mora pattuito prima dell’effettivo inadempimento, in considerazione del fatto che in caso di mancato o ritardato pagamento, la banca potrà comunque richiedere la corresponsione di un tasso di interesse moratorio inferiore a quello pattuito, che è stato oggetto di accertamento.

Sulla base di tali presupposti, l’azione di accertamento rischia di essere, di fatto, inutiliter data, rappresentando solo un costo per il finanziato, che avrà un effettivo interesse ad intraprendere un contenzioso giudiziale solo in caso di inadempimento già avvenuto, al fine di verificare l’usurarietà, o meno, dell’interesse moratorio “in concreto” richiesto in pagamento.

Tuttavia, a fronte del principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite, anche in caso di interesse moratorio accertato come usurario, il debitore non potrà beneficiare della gratuità del mutuo, bensì dovrà comunque corrispondere gli interessi corrispettivi lecitamente pattuiti.

Tale impostazione adottata dalla Suprema Corte, non potrà che sortire l’effetto di ridimensionare notevolmente il contenzioso bancario in tema di usurarietà del mutuo, rischiando però di lasciare le parti più deboli del rapporto contrattuale, sostanzialmente, prive di tutela.

Nel caso in cui il debitore rivesta la qualifica di consumatore, la Corte ha poi riconosciuto l’applicabilità anche della disciplina consumeristica, prevedendo quindi due possibili rimedi a tutela del consumatore, il quale potrà scegliere tra le tutele previste dal codice del consumo oppure, in alternativa, ricorrere alla disciplina codicistica.

La Corte ha richiamato l’art. 33, co. 2 lett. f) del d.lgs. 206 del 2005, prevede che “Si presumono vessatorie fino a prova contraria le clausole che hanno per oggetto, o per effetto, di (…) imporre al consumatore, in caso di inadempimento o di ritardo nell’adempimento, il pagamento di una somma di denaro a titolo di risarcimento, clausola penale o altro titolo equivalente d’importo manifestamente eccessivo”.

Nel proprio percorso argomentativo la Suprema Corte ha richiamato anche la sentenza della Corte di Giustizia del 21 gennaio 2015 (cause riunite C-482/13, C-484/13, C-485/13 e C-487/13, Unicaja Banco e Caixabank)[48], ponendo alcuni spunti di riflessione e di particolare interesse, che appare opportuno ripercorrere per meglio comprendere la portata che avrà il principio dettato dalle Sezioni Unite nella sentenza in commento[49].

Nell’ambito di tali ricorsi, il giudice si era concentrato sulla questione del carattere «abusivo» ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 93/13, delle clausole relative ai tassi d’interessi di mora, nonché dell’applicazione di detti tassi al capitale la cui esigibilità anticipata è dovuta al ritardo nel pagamento. A tal proposito il giudice del rinvio avanzava dubbi in merito alle conseguenze da trarre dal carattere abusivo di dette clausole, alla luce della seconda disposizione transitoria della legge 1/2013. Ciò in quanto se si fosse dovuta ritenere applicabile tale disposizione, sarebbe spettato al medesimo giudice far ricalcolare gli interessi di mora conformemente al terzo comma di tale disposizione[50].

La Corte di giustizia ha statuito che “quanto alle conseguenze da trarre dalla constatazione del carattere abusivo di una disposizione di un contratto che vincola un consumatore ad un professionista, dal tenore letterale dell’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13, risulta che i giudici nazionali sono tenuti unicamente ad escludere l’applicazione di una clausola contrattuale abusiva affinché non produca effetti vincolanti nei confronti dei consumatori, senza essere autorizzati a rivedere il contenuto della medesima. Infatti, detto contratto deve sussistere, in linea di principio, senz’altra modifica che non sia quella risultante dalla soppressione delle clausole abusive, purché, conformemente alle norme di diritto interno, una simile sopravvivenza del contratto sia giuridicamente possibile (sentenze Banco Español de Crédito, C-618/10, EU:C:2012:349, punto 65, nonché Asbeek Brusse e de Man Garabito, C-488/11, EU:C:2013:341”, si veda punto n. 28 della sentenza)[51].

Ai fini che maggiormente interessano in questa sede, appare particolarmente rilevante quanto indicato al punto 31 della citata sentenza, ove la Corte di Giustizia spiega la ratio sottesa alla direttiva europea, ovvero «di fatto, se il giudice nazionale potesse rivedere il contenuto delle clausole abusive, una tale facoltà potrebbe compromettere la realizzazione dell’obiettivo di lungo termine di cui all’articolo 7 della direttiva 93/13. Infatti tale facoltà contribuirebbe ad eliminare l’effetto dissuasivo esercitato sui professionisti dalla pura e semplice non applicazione nei confronti del consumatore di siffatte clausole abusive, dal momento che essi rimarrebbero tentati di utilizzare tali clausole, consapevoli che, quand’anche esse fossero invalidate, il contratto potrebbe nondimeno essere integrato, per quanto necessario, dal giudice nazionale, in modo tale, quindi, da garantire l’interesse di detti professionisti (sentenze Banco Español de Crédito, EU:C:2012:349, punto 69, nonché Kásler e Káslerné Rábai, EU:C:2014:282, punto 79)».

Pertanto, la Corte di Giustizia ha chiaramente evidenziato lo scopo di protezione verso il consumatore che è sotteso alla direttiva europea, poiché se il giudice nazionale potesse sostituire il contenuto della clausola abusiva, rimodulandolo, si perderebbe l’effetto dissuasivo sotteso alla normativa stessa, perché i professionisti avrebbero comunque interesse all’utilizzo delle suddette clausole abusive, le quali, in ogni caso, non verrebbero eliminate, bensì solo “ridimensionate” per effetto dell’intervento del giudice nazionale.

A parere di chi scrive, tale assunto appare di un certo rilievo nella lettura della sentenza della Suprema Corte in commento e induce inevitabilmente ad una serie di riflessioni.

Ciò in quanto fino alla pronuncia della Suprema Corte n. 19597/2020, la ratio della disciplina antiusura era quella di caducare la disposizione di interessi con la conseguente gratuità del mutuo. Lo scopo era di dissuadere, appunto, gli intermediari creditizi ma, più in generale, i creditori in senso ampio, dall’applicare tassi di interesse sopra soglia in quanto la conseguenza dell’accertata usurarietà degli interessi avrebbe determinato la perdita di tutti gli interessi.

Con la nuova impostazione adottata dalla Suprema Corte, ovvero, richiedendo comunque al soggetto finanziato il pagamento degli interessi corrispettivi correttamente pattuiti, si rischia di ottenere esattamente l’effetto non voluto dalla direttiva europea citata dalle stesse Sezioni Unite, ovvero, si perderà “l’effetto dissuasivo esercitato sui professionisti dalla pura e semplice non applicazione nei confronti del consumatore di siffatte clausole abusive”. Ciò in quanto se sarà in ogni caso garantita la corresponsione degli interessi corrispettivi, il creditore avrà comunque interesse ad applicare clausole abusive (usurarie)[52].

Alla luce delle considerazioni esposte, pare di poter affermare che la disciplina europea considera il potere del giudice di “rimodulare” (o ridurre) il tasso di interesse considerato abusivo (o usurario) come ipotesi comunque “residuale”, rispetto all’annullamento della clausola medesima, da attuarsi solo quando l’eliminazione della clausola comporterebbe anche la caducazione dell’intero contratto, determinando quindi per il debitore / consumatore un danno ancora maggiore[53].

L’impostazione data dalle Sezioni Unite con la sentenza in commento, invece, pare finalizzata a riconoscere al tasso moratorio oltre soglia una parziale esenzione dalle conseguenze della suddetta usurarietà, ammettendone la sostituzione in via di eterointegrazione con la misura validamente pattuita per gli interessi corrispettivi. Ciò probabilmente significherà incentivare gli intermediari creditizi ad incrementare il saggio della mora, anche oltre il limite dell’usura, nella consapevolezza che una volta accertata quest’ultima, il saggio si ridurrà a quello validamente pattuito per i corrispettivi.

8. Considerazioni conclusive e prospettive future

La sentenza delle Sezioni Unite n. 19597/2020 era attesa da tempo e in questa sede la Corte aveva la possibilità di stabilire, nella propria composizione più prestigiosa, un principio che poteva (finalmente) chiarire l’annosa questione connessa alla rilevanza o meno della mora, ai fini della verifica delle soglie usurarie.

A parere di chi scrive, la rilevanza dell’interesse di mora rispetto alla disciplina antiusura, era in realtà un falso problema. Ciò in quanto, come indicato nei paragrafi precedenti, non si vede ragione davvero apprezzabile che giustifichi una possibile esclusione del tasso di mora tra i costi connessi all’erogazione del credito.

Tuttavia, la questione è stata a lungo dibattuta in dottrina e in giurisprudenza e il principio di diritto enunciato dalla Suprema Corte, pur ammettendo la rilevanza della mora nella verifica del rispetto delle soglie di usura, ha in realtà determinato un sostanziale “snaturamento” della norma e della disciplina antiusura applicata sino ad oggi, per le ragioni suesposte.

Nel proprio percorso argomentativo, la Corte aveva in realtà esordito enunciando che la propria decisione avrebbe dovuto fondarsi sul “criterio – guida” «costituito dalla ratio del divieto di usura e dalle finalità che con esso si siano intese perseguire; fermo restando che le scelte di politica del diritto sono riservate al legislatore, al giudice competendo solo di interpretare la norma nei limiti delle opzioni ermeneutiche più corrette dell’enunciato» (s.v. pag. 10 della sentenza).

Le premesse sembravano quindi certamente più che condivisibili, in quanto i Giudici hanno richiamato, da un lato, la ratio che deve animare la disciplina antiusura (che dovrebbe essere da sempre tesa alla tutela del contraente più debole del rapporto contrattuale) e, dall’altro, hanno ribadito il primato del legislatore nelle scelte di politica del diritto.

Tuttavia, l’operazione ermeneutica realizzata dalla Suprema Corte pare essere andata verso tutt’altra direzione, sovvertendo i canoni normativi conosciuti e applicati sin dall’entrata in vigore dell’art. 644 c.p., come riformato dalla legge n. 108 del 1996.

E’ infatti innegabile che la portata applicativa della sentenza in commento ridimensionerà sensibilmente il fenomeno usurario e le conseguenze economiche del medesimo a danno, esclusivamente, della clientela delle banche.

Inoltre, la norma antiusura, così interpretata, perderà anche la funzione deterrente che una disposizione normativa dovrebbe possedere. Ciò in quanto l’intermediario, a fronte dell’applicazione di interessi accertati come usurari, invece che rischiare di vedersi convertire un mutuo oneroso in mutuo a titolo gratuito, e quindi restituire tutto quanto percepito fino a quel momento a titolo di interessi (come sarebbe previsto dalla lettera della norma), dovrà restituire, sostanzialmente, solo gli interessi moratori.

Con riferimento alla funzione deterrente che dovrebbe caratterizzare la disciplina antiusura, oltre alle riflessioni frutto dell’analisi della giurisprudenza europea ed esposte nei paragrafi precedenti, appare calzante quanto recentemente affermato i dottrina, ovvero che «il vero presidio contro l’usura bancaria risiede invece nella interpretazione qui prospettata che, individuata nel secondo comma dell’art. 1815, una presunzione assoluta di gratuità del mutuo, determina, una volta accertata l’usurarietà anche dei soli interessi moratori, la non debenza anche di quelli corrispettivi, pur se infra soglia. Solo così si può indurre il ceto bancario ad un abbattimento del costo dei finanziamenti, riducendo l’ampia forbice in atto esistente che lo separa da quello sostenuto dagli intermediari per approvvigionarsi della provvista necessaria per concedere credito»[54].

Si ricorda inoltre che l’ampia e onnicomprensiva formulazione dell’art. 644 c.p. trova la sua ratio nella necessità di colpire il fenomeno usurario in ogni sua forma.

L’accertamento dell’usurarietà del contratto quindi non può certo esaurirsi nel mero confronto dei tassi indicati in contratto con il tasso soglia, ma impone di analizzare e quantificare tutti i costi legati al credito, il che a sua volta non può prescindere dalla determinazione del preciso ammontare del capitale erogato e/o effettivo (artt. 820 e 821 c.c.).

Lo scopo della normativa antiusura è infatti quello di ravvisare e colpire le forme di usura surrettizia che si attuano attraverso l’applicazione di meccanismi di calcolo non trasparenti e voci di costo fuorvianti, aspetto che aveva animato il legislatore del 1996 al fine di tutelare la parte più debole del rapporto negoziale.

Come affermato in dottrina, il fine della legge n.108/96 è appunto quello di «debellare la piaga dell’usura, inclusa quella da strada spesso dimenticata ma non per questo meno oppressiva e pericolosa di quella bancaria, piaga che costituisce un ostacolo di ordine economico che la Repubblica ha il compito di rimuovere (arg. ex art. 3, cpv., Cost.), anche al fine di assicurare un corretto ed equilibrato accesso dei cittadini al mercato del credito, tutelandoli, in quanto contraenti deboli di fronte allo strapotere bancario implementato dalla legislazione speciale bancaria. Quest’ultima, infatti, si sta sempre più distaccando dai principi fondanti il nostro ordinamento giuridico e in particolare da quello della gerarchia delle fonti, assegnando di fatto il completamento delle norme primarie ad atti amministrativi generali».[55]

La sentenza in commento ha certamente destato grande interesse, suscitando anche notevoli perplessità, e da più parti ci si è chiesti se non sarebbe opportuno, a questo punto, la predisposizione di una nuova normativa antiusura.

A parere di chi scrive non sarebbe necessaria una nuova norma antiusura, bensì sarebbe sufficiente che l’attuale disciplina legislativa venisse correttamente interpretata.

La norma, così come i lavori preparatori alla medesima, hanno infatti previsto che “tutti i costi connessi all’erogazione del credito” siano inseriti nella verifica delle soglie usurarie. Soglie determinate dall’art. 644 c.p. che prevede il solo rinvio ai decreti ministeriali verificati ogni trimestre, senza che ciò determini alcuna delega legislativa a fonti secondarie. Nel caso di superamento delle medesime non sarebbero dovuti interessi, né corrispettivi, né moratori, al fine di sanzionare il soggetto che applica alla clientela costi usurari.

Nel tempo si è invece assistito ad una progressiva erosione dei pilastri che sorreggevano la disciplina antiusura[56], mettendo in discussione il fatto che gli interessi di mora potessero o meno rientrare nella verifica delle soglie di usura (come se si potesse realmente dubitare del fatto che gli interessi di mora siano un costo collegato all’erogazione del credito[57]). La lettera della norma dispone poi un chiaro riferimento al momento della pattuizione, senza distinzione tra interessi di mora e interessi corrispettivi, in considerazione della natura del reato di usura, considerato a duplice fattispecie, che sanziona sia l’erogazione della somma usuraria sia la mera pattuizione della medesima[58].

Si osserva inoltre che nella riforma avvenuta ad opera del D.L. n. 70 del 2011[59], che ha alzato il tasso soglia, non vi è alcun riferimento ad un tasso di interesse differente per gli interessi di mora. Quest’ultimo risulta, di fatto, essere il frutto di una creazione giurisprudenziale realizzata da parte degli interpreti e operatori del diritto, motivata, principalmente, sulla base del fatto che gli interessi corrispettivi e gli interessi moratori avrebbero diversa natura giuridica e ciò giustificherebbe la sussistenza di un tasso soglia differente[60].

Sorvolando in questa sede sul fatto che giuridicamente tale distinzione possa considerarsi corretta, in considerazione del fatto che (come più volte ricordato) appare priva di una base normativa di rango primario, quel che è certo è che nelle applicazioni concrete la “creazione” di un diverso tasso soglia per gli interessi di mora, ha indubbiamente portato ad un innalzamento del c.d. tasso “soglia moratorio”.

Innalzamento a cui si è progressivamente assistito anche a fronte degli ulteriori interventi sopra ricordati che hanno interessato il tema dell’usura bancaria.

Giunti al termine del presente elaborato, appare inevitabile chiedersi quali possano essere le prospettive future rispetto del contenzioso bancario, dopo la sentenza delle Sezioni Unite in commento.

Come già anticipato, rispetto all’ipotesi di dover riscrivere la normativa antiusura, appare invece maggiormente condivisibile l’opinione di chi auspica che gli atti e le circolari di Banca d’Italia possano essere disapplicati, a vantaggio della norma primaria che non avrebbe alcuna necessità di essere riscritta.

La questione della disapplicazione dei suddetti atti e circolari della Banca d’Italia, si è infatti già posta in passato, con specifico riferimento all’ipotesi in cui i medesimi potessero contenere un errore materiale nella determinazione del tasso soglia.

Il fatto che gli eventuali errori nell’individuazione del tasso soglia comportino una responsabilità del vertice amministrativo non esclude, evidentemente, altre conseguenze né, soprattutto, il dovere del Giudice di intervenire al fine di garantire il rispetto di una primaria norma penale qual è l’art. 644 c.p. Ovvero, di impedire l’elusione di una pluralità di norme di legge e di natura imperativa, per effetto di disposizioni di natura amministrativa.

Si richiama a tal proposito l’orientamento della Corte di Cassazione espresso dalla sentenza n. 46669/11 (oltre a Cass. 12028/10, Cass. 28743/10, cit.), che ha testualmente affermato quanto segue: «… Le circolari o direttive, ove illegittime e in violazione di legge, non hanno efficacia vincolante per gli istituti controparti sottoposti alla vigilanza della Banca d’Italia, neppure quale mezzo di interpretazione …»[61]. L’orientamento è stato confermato anche da Cass. 8806/2017[62] che, in materia di usura, ha ribadito la centralità sistemica dell’art. 644 c.p. rispetto alle Istruzioni di Vigilanza della Banca d’Italia e ai Decreti Ministeriali. Recentemente la Corte di Cassazione con la sentenza n. 20464/2020[63] ha ribadito che «può dirsi acquisito, nella giurisprudenza di questa Corte, che gli atti e circolari della Banca d’Italia (…) debbono comunque rispettare le norme di legge (costituzionale e ordinaria) posto che si tratta di atti a queste comunque soggetti (cfr., in proposito, specialmente le decisioni di Cass., 7 novembre 2019, n. 28803). Con la conseguenza che, nel caso di riscontrata violazione di legge da parte di uno di questi atti, “si imporrebbe … al giudice ordinario di prendere atto della legittimità degli stessi “e disapplicarli” (cfr. così, in termini puntuali, la pronuncia di Cass. SS.UU., 20 giugno 2018, n. 16303)».

In altri termini il predetto orientamento della Corte di Cassazione è espressione del principio generale che impone il rispetto della gerarchia delle fonti e della conseguente necessità di procedere alla disapplicazione degli atti sottordinati in quanto in contrasto con le disposizioni di legge[64].

Tutte le argomentazioni e criticità suesposte, ovvero l’aggiornamento non tempestivo dei decreti ministeriali, la non verificabilità dei medesimi, il fatto che prendano in considerazione solo un numero limitato di classi di operazioni creditizie ecc., appaiono ragioni sufficienti per poter ipotizzare una disapplicazione degli stessi.

Ancora, alla luce di tutti gli aspetti critici evidenziati, appare inevitabile chiedersi se nel prossimo futuro, una sezione semplice potrà rimettere nuovamente la questione dell’usurarietà degli interessi moratori all’attenzione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.

A tal proposito è stato ricordato in dottrina[65] che l’art. 374, co. 3 c.p.c. dispone che «se la sezione semplice ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite, rimette a queste ultime, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso».

Pertanto, la questione relativa all’usurarietà degli interessi moratori potrà essere nuovamente posta all’attenzione delle Sezioni Unite, a condizione che l’ordinanza di rimessione si fondi su argomentazioni differenti rispetto a quelle già affrontate da una precedente sentenza delle Sezioni Unite.

Alla luce di tutto quanto esposto, pare di poter affermare che allo stato attuale vi siano molteplici aspetti critici, che giustificherebbero una riproposizione del tema alla Corte di Cassazione nella sua composizione più prestigiosa.

Nell’attesa dei futuri sviluppi, non si deve comunque dimenticare che per quanto sia indubbia la funzione nomofilattica della Corte di Cassazione, in particolare a Sezioni Unite, al fine appunto di conservare una linea interpretativa uniforme, ai giudici di merito residua comunque la possibilità di discostarsi dalle pronunce rese dalla Suprema Corte, purché tale scelta sia supportata da un’ampia base motivazionale, idonea a giustificare le ragioni logico – giuridiche che hanno indotto il giudicante a non adeguarsi alla suddetta sentenza del Supremo Consesso.

Si veda sul punto quanto affermato dalla Corte Costituzionale secondo cui: «l’orientamento espresso dalla decisione delle Sezioni unite della Corte di Cassazione “aspira indubbiamente ad acquisire stabilità e generale seguito: ma si tratta di connotati solo tendenziali, in quanto basati su una efficacia non cogente, ma di tipo essenzialmente persuasivo. Con la conseguenza che, a differenza della legge abrogativa e della declaratoria di illegittimità costituzionale, la nuova decisione dell’organo della nomofilachia resta potenzialmente suscettibile di essere disattesa in qualunque tempo e da qualunque giudice della Repubblica, sia pure con l’onere di adeguata motivazione; mentre le stesse Sezioni unite possono trovarsi a dover rivedere le loro posizioni, anche su impulso delle sezioni singole, come in più occasioni è in fatto accaduto»[66].

Opinare diversamente vorrebbe dire minare alla radice i principi costituzionali di imparzialità e indipendenza dei giudici, che sono alla base della nostra Costituzione (art. 101 cost.).

A fronte di tutte le considerazioni esposte, anche da parte dei vari interpreti che hanno provveduto a commentare la sentenza delle Sezioni Unite n. 19597/2020 fino ad ora, pare di poter certamente affermare che ai giudici di merito e di legittimità a sezioni semplici, non mancheranno spunti di riflessione e analisi sul tema, per arricchire la base motivazionale di eventuali sentenze che si dovessero discostare dal principio di diritto enunciato dalla sentenza in commento.

Un primo passo verso questa direzione può essere rappresentato dalla recente sentenza della Corte di Cassazione, sez. III, n. 12964/2021[67], commentata favorevolmente «non solo per la correttezza del principio enunciato, ma anche per il metodo seguito: anziché rimettere nuovamente la questione alle Sezioni Unite, infatti, la Corte – stante l’evidente contrasto del principio di diritto enunciato nella sentenza n. 19597 del 2020 con la legge n. 108 del 1996 – ha preferito emettere una pronuncia di stampo “correttivo”, saltando sostanzialmente la prescrizione fissata dall’art. 374, 3° comma, c.p.c.»[68].

 

[1] Cass., Sez. Un., 18 settembre 2020, n. 19597.

[2] Ord. Cass. Civ., sez. I, 22 ottobre 2019, n. 26946, con la quale sono stati posti all’attenzione della Suprema Corte i seguenti quesiti:

  1. se, alla luce del tenore letterale degli artt. 644 c.p. e 2 della legge n. 108/1996, nonché delle indicazioni emergenti dai lavori preparatori della medesima legge, sia consentito escludere l’assoggettamento degli interessi di mora alla disciplina antiusura in quanto non costituenti oggetto di rilevazione ai fini della determinazione del TEGM;
  2. in caso contrario, se, ai fini della verifica del carattere usurario degli interessi, sia sufficiente la comparazione con il tasso soglia determinato in base alla rilevazione del TEGM di cui all’art. 2, comma 1, della legge n. 108/1996, oppure se la mera rilevazione del relativo tasso medio imponga di verificarne l’avvenuto superamento nel caso concreto e con quali modalità.

[3] C. Giust. UE, sez. V, 7 agosto 2018, cause riunite C – 96/16 e C-94/17.

[4] C. Giust. UE, sez. I, 21 gennaio 2015, cause riunite C-482/13, C-484/13, C-485/13 e C-487/13.

[5] Tesi sostenuta principalmente dall’ABF e da alcune pronunce di merito, a titolo esemplificativo s.v. in particolare Trib. di Roma sentenza n. 11764 del 2020.

[6] Ciò in quanto la ratio della norma sarebbe la stessa che anima l’art. 1815 c.c., sancendo entrambe la tutela del medesimo bene giuridico, ossia il divieto di sproporzione tra le prestazioni. In tal senso non si dovrebbe attribuire una diversità di significati alle due disposizioni, civilistica e penalistica, attribuendo rilevanza ai soli interessi corrispettivi.

[7] Tesi sostenuta dalla più recente giurisprudenza di legittimità, tra cui: Cass. Civ. 17 ottobre 2019, n. 26286; Cass. Civ. 13 settembre 2019, n. 22890, Cass. Civ. 30 ottobre 2018, n. 27442; Cass. Civ. 6 marzo 2017, n. 5598; Cass. Civ. 9 gennaio 2013, n. 350; Cass. Civ. 4 aprile 2003, n. 5324; s.v. anche Corte Cost. 25 febbraio 2002, n. 29.

[8] Cfr. anche sul punto Trib. Massa, ord. 23 marzo 2016.

[9] Ai sensi dell’art. 1, 1° co. d.l. 29/12/00 n. 394, di interpretazione autentica della L. 108/96, secondo cui sono considerati usurari, ai fini di cui all’art. 644 c.p. e dell’art. 1815 cod. c.c., gli interessi che superano il limite di legge “nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento”.

[10] Sul punto s.v. Ord. Cass. Civ., sez. III, 17 ottobre 2019, n. 26286, cit., che ha espressamente chiarito il fatto che «quello del “cumulo” degli interessi corrispettivi e moratori nei rapporti bancari è, in realtà, un falso problema”. Ciò in quanto “il cliente, dal giorno in cui diviene moroso, è tenuto a corrispondere anche lo spread che costituisce la maggiorazione convenzionale degli interessi moratori. Ora, se il rapporto fosse definitivamente “chiuso” (id est, se l’intermediario avesse esercitato il potere di recesso unilaterale), non vi sarebbe nessuna incertezza nel qualificare l’intero interesse percepito come avente natura moratoria. Nella misura in cui, invece, il rapporto è ancora “aperto”, vi è la sensazione che il cliente continui a corrispondere l’interesse corrispettivo quale remunerazione per il godimento del denaro ed inoltre l’interesse moratorio per il ritardato adempimento. In questa prospettiva, l’interesse di mora (costituito dal solo spread) sembra cumularsi con l’interesse corrispettivo, conservando ciascuno dei due la propria individualità, funzione giuridica e autonomia causale. A chi ravvisa, in questa evenienza, un vero e proprio “cumulo” si deve però controbattere che l’art. 1224 c.c. prevede espressamente che dal giorno della mora sono dovuti gli interessi moratori nella stessa misura degli interessi previsti “prima della mora”, ossia a titolo corrispettivo.

Ne deriva, dunque, che pure in questa ipotesi non si determina alcun “cumulo” effettivo. Gli interessi corrisposti dal cliente moroso sono tutti di natura moratoria, sia per quel che concerne la maggiorazione prevista dal contratto nel caso di ritardato pagamento, sia per la parte corrispondente, nell’ammontare, agli interessi corrispettivi previsti “prima della mora” ma che, per effetto di quest’ultima, ha cambiato natura, così come testualmente disposto dall’art. 1224 c.c. (…) Una volta costituito in mora, gli interessi che il cliente è tenuto a corrispondere hanno tutti natura moratoria, a prescindere dai criteri negoziali di determinazione del tasso convenzionale di mora. Ed è così sia nel caso il cui il rapporto sia stato definitivamente “chiuso”, sia quando il rapporto è ancora pendente».

[11] Ai fini della decisione le Sezioni Unite non hanno ritenuto “dirimenti”: l’argomento letterale” delle disposizioni relative alla disciplina antiusura (“essendo non univoci gli indici relativi”); l’argomento “storico”, “perché la disciplina è mutevole” ed il legislatore non è tenuto “a porsi in necessaria continuità con le scelte e le nozioni pregresse”; l’argomento della “sottrazione del denaro dalla disponibilità del creditore per attribuirlo al debitore” e conseguente capacità di remunerare il mancato godimento d’un capitale, “in quanto meramente descrittivo e non ordinante, esprimendo invero l’interesse di mora entrambe le funzioni, remuneratoria e sanzionatoria”; l’argomento della “mancata rilevazione del tasso di mora nel T.E.G.M. da parte dei decreti ministeriali”, che costituisce un “evento meramente accidentale privo di valenza ermeneutica” (pag. 10 della sentenza).

[12] Cfr. art. 19 direttiva 2008/48/CE; art. 4, comma 13, direttiva 2014/17/UE.

[13] In dottrina si ricorda A. Didone, Le Sezioni Unite e l’«usura degli interessi moratori». Spunti critici, in Rivista di diritto bancario, 2021, fasc. I, sez. II.

[14] I principi di diritto affermati dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 19597 del 2020 sono i seguenti:

  1. La disciplina antiusura si applica agli interessi moratori, intendendo essa sanzionare la pattuizione di interessi eccessivi convenuti al momento della stipula del contratto quale corrispettivo per la concessione del denaro, ma anche la promessa di qualsiasi somma usuraria sia dovuta in relazione al contratto concluso
  2. La mancata indicazione dell’interesse di mora nell’ambito del T.e.g.m. non preclude l’applicazione dei decreti ministeriali, i quali contengano comunque la rilevazione del tasso medio praticato dagli operatori professionali, statisticamente rilevato in modo del pari oggettivo ed unitario, essendo questo idoneo a palesare che una clausola sugli interessi moratori sia usuraria, perché “fuori mercato”, donde la formula: “T.e.g.m., più la maggiorazione media degli interessi moratori, il tutto moltiplicato per il coefficiente in aumento, più i punti percentuali aggiuntivi, previsti quale ulteriore tolleranza dal predetto decreto”.
  3. Ove i decreti ministeriali non rechino neppure l’indicazione della maggiorazione media dei moratori, resta il termine di confronto del T.e.g.m. così come rilevato, con la maggiorazione ivi prevista.
  4. Si applica l’art. 1815, comma 2, cod. civ., onde non sono dovuti gli interessi moratori pattuiti, ma vige l’art. 1224, comma 1, cod. civ., con la conseguente debenza degli interessi nella misura dei corrispettivi lecitamente convenuti.
  5. Anche in corso di rapporto sussiste l’interesse ad agire del finanziato per la declaratoria di usurarietà degli interessi pattuiti, tenuto conto del tasso-soglia del momento dell’accordo; una volta verificatosi l’inadempimento ed il presupposto per l’applicazione degli interessi di mora, la valutazione di usurarietà attiene all’interesse in concreto applicato dopo l’inadempimento.
  6.  Nei contratti conclusi con un consumatore, concorre la tutela prevista dagli artt. 33, comma 2, lett. f e 36, comma 1, del codice del consumo, di cui al d.lgs. n. 206 del 2005, già artt. 1469-bis e 1469-quinquies cod. civ.
  7.  L’onere probatorio nelle controversie sulla debenza e sulla misura degli interessi moratori, ai sensi dell’art. 2697 cod. civ., si atteggia nel senso che, da un lato, il debitore, il quale intenda provare l’entità usuraria degli stessi, ha l’onere di dedurre il tipo contrattuale, la clausola negoziale, il tasso moratorio in concreto applicato, l’eventuale qualità di consumatore, la misura del T.e.g.m. nel periodo considerato, con gli altri elementi contenuti nel decreto ministeriale di riferimento; dall’altro lato, è onere della controparte allegare e provare i fatti modificativi o estintivi dell’altrui diritto.

[15] C. Cost., 25 febbraio 2002, n. 29, in Foro It., Vol. 125, No. 4, aprile 2002, pp. 933 e ss., con nota di A. Palmieri.

[16] Decreto legge 29 dicembre 2000, n. 394, in Gazzetta Ufficiale – serie generale – n. 303 del 30 dicembre 2000, coordinato con la legge di conversione 28 febbraio 2001, n. 24, recante: “Interpretazione autentica della legge 7 marzo 1996, n. 108, concernente disposizioni in materia di usura”.

[17] Cass. Civ. sez. I, 9 gennaio 2013, n. 350, cit. La stessa impostazione si trova recepita dalla pronuncia di Cass. 22 aprile 2000, n. 5286, ove si legge: «non v’è ragione per escludere l’applicazione [della nuova normativa] anche nell’ipotesi di assunzione dell’obbligazione di corrispondere interessi moratori, risultati di gran lunga eccedenti lo stesso tasso soglia»; come pure da quella di Cass., 4 aprile 2003, n. 5324: «il tasso-soglia di cui alla … legge n. 108/1996 riguarda anche gli interessi moratori»; oltre che dalla citata Cass., 11 gennaio 2013, n. 603. In tale occasione la Corte afferma che al di sopra dei tassi soglia «gli interessi corrispettivi e moratori ulteriormente maturati vanno considerati usurari». Altre sentenze danno poi per presupposto l’indirizzo in discorso (della ricomprensione dei moratori nel calcolo usurario, cioè): si vedano in particolare, sebbene in via non esaustiva, Cass., 26 giugno 2001, n. 8742; Cass., 13 dicembre 2002, n. 17813; Cass., 22 luglio 2005, n. 15497; Cass., 13 maggio 2010, n. 11632 e Cass., 22 aprile 2010, n. 9532. Le ultime sentenze indicate sono incentrate, nello specifico, sulla questione del diritto transitorio (circa l’applicazione della legge del 1996 a contratti stipulati in tempi anteriori, che viene esclusa da tali pronunce pure per gli effetti degli stessi di produzione successiva alla vigenza della detta legge, ai sensi del citato art. 1 decreto legge n. 394/2000).

[18] Così A. Didone, Le Sezioni Unite e l’«usura degli interessi moratori». Spunti critici, cit. pag. 112.

[19] Il TEG (Tasso Effettivo Globale) viene impiegato per le verifiche di usurarietà delle operazioni di credito praticate da banche ed altri intermediari finanziari; serve a determinare il tasso massimo che non può essere oltrepassato secondo quanto previsto dalla legge 108/96 contro l’usura.

Il TEG viene segnalato su base annuale, dagli intermediari finanziari alla Banca d’Italia, ai fini della determinazione delle soglie d’usura. Dall’aggregazione statistica dei TEG segnalati dagli intermediari, viene determinato il Tasso Effettivo Globale Medio, per ciascuna delle categorie indicate dal Ministro del Tesoro: tale valore, aumentato della metà, viene a costituire la soglia d’usura, oltre la quale si applicano le sanzioni previste dall’art. 644 c.p.

[20] Il previgente 4° comma dell’art. 2, legge 108 del 1996, prevedeva che «il limite previsto dal terzo comma dell’art. 644 del codice penale, oltre il quale gli interessi sono sempre usurari, è stabilito nel tasso medio risultante dall’ultima rilevazione pubblicata nella Gazzetta Ufficiale ai sensi del comma 1 relativamente alla categoria di operazioni in cui il credito è compreso, aumentato della metà». Dal 14 maggio 2011 il limite oltre il quale gli interessi sono ritenuti usurari è calcolato aumentando il Tasso Effettivo Globale Medio (TEGM) di un quarto (25%), a cui si aggiungono ulteriori 4 punti percentuali (TSU=TEGM*1,25+4). La differenza tra il Tasso Soglia e il Tasso Effettivo Globale Medio non può comunque mai essere superiore a otto punti percentuali.

[21] Comunicazione della Banca d’Italia del 3 luglio 2031, Chiarimenti in materia di applicazione della legge usuraria.

[22] La suddetta comunicazione di Banca d’Italia del 2013 ha infatti affermato che, «per evitare il confronto tra tassi disomogenei», i decreti trimestrali «riportano i risultati di un’indagine per cui “la maggiorazione stabilita contrattualmente per i casi di ritardato pagamento è mediamente pari a 2,1 punti percentuali”». L’Autorità di Vigilanza ha poi affermato che, «in assenza di una previsione legislativa che determini la specifica soglia in presenza di interessi moratori, la Banca d’Italia adotta, nei controlli sulle procedure degli intermediari, il criterio in base al quale i TEG medi pubblicati sono aumentati» dell’importo determinato dalla detta indagine.

[23] Come puntualmente ha osservato proprio il Supremo Collegio, le rilevazioni trimestrali non hanno la funzione di produrre opinioni o di determinare autonomamente il tasso soglia, bensì quella esclusiva di «fotografare» l’esistente, ovvero di rilevare il fatto storico del tassi applicati dall’operatività bancaria e finanziaria, così come di dare seguito e riscontro alle consolidate letture del dato normativo fornite dalla Corte di Cassazione. Cfr., tra le altre, Cass. Pen., 18 marzo 2003, n. 20148, secondo cui il principio di riserva di legge era è stato rispettato in quanto la legge n. 108 del 1996 ha dettagliatamente delineato il procedimento per la determinazione dei tassi soglia, affidando al Ministero del Tesoro solo il compito di “fotografare”, secondo rigorosi criteri tecnici, l’andamento dei tassi finanziari. Conf. Cass Pen., sez. II, ud. 19 febbraio 2010, dep. 26 marzo 2010, n. 12028, in www.dirittopenalecontemporaneo.it. e in www.ilcaso.it.

[24] Cass. Pen., Sez. II, 26 marzo 2010, n. 12028, cit.

[25] Ovvero, Cass. Pen., 18 marzo 2003, n. 20148, cit.

[26] La citata sentenza n. 12028 del 2010, oltre ad aver sancito importanti principi in tema di Commissione di massimo scoperto (c.d. CMS), ha altresì ribadito che in tema di usura è manifestamente infondata l’eccezione di incostituzionalità del combinato disposto dell’art. 644 c.p., comma 3 e della L. 7 marzo 1996, n. 108, l’art. 2 per presunto contrasto con l’art. 25 Cost., secondo cui le predette norme, nel rimettere la determinazione del “tasso soglia” ad organi di natura amministrativa, avrebbero determinato una violazione del principio della riserva di legge in materia penale. La Corte ha ribadito che il principio della riserva di legge è rispettato in quanto la suddetta legge indica analiticamente il procedimento per la determinazione dei tassi soglia, affidando al Ministro del Tesoro solo il limitato ruolo di “fotografare”, secondo rigorosi criteri tecnici, l’andamento dei tassi finanziari e che non vi fosse dubbio sul fatto che la legge abbia determinato con grande chiarezza il percorso che l’autorità amministrativa deve compiere per “fotografare” l’andamento dei tassi finanziari.

[27] S.v. R. Marcelli, Gli interessi di mora e le soglie d’usura, articolo del 5 maggio 2015, reperibile in www.altalex.com.

[28] Cass. Civ., sez. III., ord. 30.10.18, n. 27442 relatore Rossetti, cit.

[29] In tal senso, Cass. Civ., ord. sez. III, 30 ottobre 2018, n. 27442, cit.

[30] Così testualmente Trib. Torino, sentenza del 27 aprile 2016, n. 14932, dott. E. Astuni. S.v. anche Trib. Udine 26 settembre 2014, in Danno e resp, 2015, p. 522: «il rilievo del tasso medio di mercato per ogni categoria di riferimento è operazione che basta e avanza ai nostri fini: il finanziatore istituzionale, con il tasso medio fisiologico praticato e rilevato dalla Banca d’Italia, evidentemente copre i costi di raccolta, struttura, organizzazione, nonché il rischio ordinario del credito e integra il margine del profitto. La legge prevede appunto che la soglia di usura si collochi ben al di sopra di tale tasso medio (50% o 25% + 4 punti, ratione temporis). Ebbene, nell’ambito del differenziale fra tasso medio e tasso soglia, il medesimo finanziatore può compiutamente coprire i rischi specifici del credito eccedenti l’ordinario, determinando l’entità delle prestazioni aggiuntive richieste a una simile controparte in caso di mora o in generale di inadempimento. Se il tasso ordinario praticato dalla banca si colloca attorno al valore medio di mercato, vi sono i margini per una maggiorazione in caso di mora. Se, invece, il tasso base praticato si colloca già a ridosso della soglia d’usura, ciò significa che è già stato valutato come presente il rischio di un insoluto alla scadenza; la banca allora non dovrebbe incontrare ulteriori costi oltre quelli il cui rischio è già coperto da un tasso corrispettivo più elevato, e non appare giustificato un ulteriore aggravio per lo stesso titolo a carico di controparte».

[31] Trib. Torino, sentenza del 27 aprile 2016, n. 14932, cit.

[32] S.v. sul punto G. Tagliavini, Usura: il recente orientamento delle Sezioni unite della Cassazione in tema di interessi di mora. Una nota tecnico-finanziaria, in www.dirittobancario.it, dicembre 2020, pag. 8, secondo cui: «è necessario sottolineare che l’esigenza di una simmetria di carattere tra TEG e TEGM è, in questo caso, assicurata parzialmente. La rilevazione circa la maggiorazione di mora da parte della Banca d’Italia è poco soddisfacente, in quanto sporadica e ritardata. La qualità della rilevazione è parziale rispetto alla piena significatività dei tassi di interesse in decorrenza. La differenza di significatività è legata alla parziale copertura in quanto all’intero periodo di rilievo, ma anche alla parziale copertura in quanto a numero di operazioni di mercato monitorate, alla parziale. In via esemplificativa, è stato sottolineato che il DM 19 dicembre 2013, fa riferimento ai dati statistici riferiti al 2002. Il ritardo della rilevazione rispetto al periodo di riferimento definisce un livello di simmetria debole. Molto presumibilmente, le rilevazioni future da parte della Banca d’Italia verranno adeguate al nuovo rilievo che ad esse è stato attribuito dalla Corte di Cassazione».

[33] Chiarimenti in materia di applicazione della legge antiusura, 3 luglio 2013, cit.

[34] Per quanto concerne alcuni aspetti di calcolo e conclusioni operative, si richiama quanto scritto da G. Tagliavini, op. cit., pag. 4 e ss.: «Questa è la conclusione operativa sostenuta nella sentenza in corso di analisi.

Per i contratti conclusi fino al 31/03/2003, il “tasso soglia di mora” coincide con il “tasso soglia dei corrispettivi”, atteso che i DD.MM. anteriori al D.M. 25 marzo 2003 (applicabile alle operazioni di credito dall’01/04/2003) non indicavano la maggiorazione media degli interessi moratori. La formula da seguire è la seguente: (T.E.G.M. x 1,5).

Per i contratti conclusi dall’01/04/2003 (data di entrata in vigore del D.M. 25 marzo 2003) al 30/06/2011, il “tasso soglia di mora” si determina sommando al T.E.G.M. il valore del 2,1 % (maggiorazione media interessi di mora indicata nei DD.MM.), il tutto maggiorato del 50% ex art. 2, comma 4, L. 108/1996 pro tempore vigente. La formula diviene la seguente: (T.E.G.M. + 2,1) x 1,5.

Per i contratti conclusi dall’01/07/2011 (data di entrata in vigore del D.M. 27 giugno 2011) al 31/12/2017, il “tasso soglia di mora” si determina sommando al T.E.G.M. il valore del 2,1 % (maggiorazione media interessi di mora indicata nei DD.MM.), il tutto maggiorato di 1/4 + ulteriori 4 punti percentuali ex art. 2, comma 4, L. 108/1996 ut modificato dal D.L. 13 maggio 2011 n. 70 convertito con modificazioni in L. 12 luglio 2011, n. 106. La formula corrispondente è la seguente: (T.E.G.M. + 2,1) x 1,25 + 4. Come si vede, la maggiorazione di 4 punti percentuali si applica una volta solo e non distintivamente per il tasso corrispettivo e in più sullo spread di mora. Questa soluzione risulta certamente di buon senso, anche se non esplicita nelle norme primarie o attuative.

Per i contratti conclusi dall’01/01/2018 (data di entrata in vigore del D.M. 21 dicembre 2017), il “tasso soglia di mora” si determina invece sommando al T.E.G.M. il valore del 1,9% (per i mutui ipotecari di durata ultraquinquennale) o del 4,1% (per le operazioni di leasing) o del 3,1% (per il complesso degli altri prestiti) (maggiorazioni medie interessi di mora indicate nei DD.MM. a partire dal D.M. 21 dicembre 2017), il tutto maggiorato sempre di 1/4 + ulteriori 4 punti percentuali sempre ex art. 2, comma 4, L. 108/1996 ut modificato dal D.L. 13 maggio 2011 n. 70 convertito con modificazioni in L. 12 luglio 2011, n. 106. La formula diviene la seguente: (T.E.G.M. + 1,9 o 4,1 o 3,1) x 1,25 + 4».

[35] A. Didone, Le Sezioni Unite e l’«usura degli interessi moratori». Spunti critici, cit., pag. 116.

[36] C. Giust. UE, sez. V, sentenza del 7 agosto 2018, cause riunite C 96/16 e C-94/17, cit.

[37] Si legge infatti al punto 48 della sentenza della Corte di Giustizia «Con la seconda questione, lettera a), nella causa C 96/16 e con la prima questione nella causa C 94/17, i giudici di rinvio chiedono, in sostanza, se la direttiva 93/13 debba essere interpretata nel senso che essa osta ad una giurisprudenza nazionale, come quella del Tribunal Supremo (Corte suprema) in discussione nei procedimenti principali, in virtù della quale una clausola non negoziata di un contratto di mutuo concluso con un consumatore, che fissa il tasso degli interessi moratori applicabile, è abusiva in quanto impone al consumatore in ritardo nei pagamenti un indennizzo di importo sproporzionatamente elevato, qualora tale tasso superi di oltre due punti percentuali quello degli interessi corrispettivi previsto da detto contratto».

[38] Nel caso di specie si trattava della Direttiva 93/13 concernente le clausole abusive stipulate con i consumatori, in https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/LSU.

[39] In questo senso, a parere dei Giudici di Lussemburgo, «la direttiva 93/13 deve essere interpretata nel senso che essa non osta ad una giurisprudenza nazionale, come quella del Tribunal Supremo (Corte Suprema) in discussione nei procedimenti principali, secondo la quale la conseguenza del carattere abusivo di una clausola non negoziata di un contratto di mutuo concluso con un consumatore, che fissa il tasso degli interessi moratori, consiste nella soppressione integrale di questi interessi, mentre continuano a maturare gli interessi corrispettivi previsti da detto contratto».

[40] A titolo esemplificativo, si ricorda Trib. Udine, 26 settembre 2014, cit.

[41] S.V., a titolo esemplificativo, Trib. di Torino, 27 aprile 2016, in www.dirittobancario.it, con nota D. Nardone – F. Cappelluti, La promessa usuraria. Costi eventuali e momento della verifica. Sulla sentenza del Tribunale di Torino del 27 aprile 2016, Est. Dott. Enrico Astuni. Gli Autori accolgono con favore l’impostazione del Tribunale in merito al fatto che la mora debba (astrattamente) rientrare nel calcolo dell’usura. Non condividono, invece, l’assunto secondo cui, a parere dell’Organo giudicante, la mora, come altri costi eventuali ma solo promessi, non possano materialmente essere ricompresi nel calcolo se non sono divenuti concretamente esigibili (c.d. scenario dell’effettività).

[42] Si noti che con ordinanza n. 12964 del 13 maggio 2021, la III Sezione Civile della Corte di Cassazione, ha precisato che se «la regola della usura vale dunque anche per gli interessi di mora […] essa vale sol che gli interessi vengano pattuiti, in quanto l’articolo 644 c.p. qualifica come illecita la condotta di chi si fa dare, sì, ma anche semplicemente promettere, interessi a tasso usuraio; senza considerare che la sanzione della nullità mira a tutelare il debitore, e sarebbe vanificata se costui potesse agire per la nullità della clausola solo dopo aver corrisposto gli interessi e dunque dopo averla attuata adempiendovi». In conclusione, la III Sezione pare aver rigettato quella distinzione, che pure sembrava potersi trarre dalle S.U. tra interesse “convenuto” ed interesse “applicato”, essendo sufficiente, affinché si determinino le conseguenze previste dalla legge, che questi siano stati “pattuiti” o “promessi” e che siano oltre il tasso-soglia.

[43] U. Vassallo Paleologo, Il finale era già noto – prime riflessioni sulla sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione civile n. 19597/2020, in www.assoctu.it, pag. 13.

[44] Analisi grafica ed econometrica Ing. G. Zucchinali, Zucchinali & Partners, www.sos-derivati.it.

[45] Cass. Civ., sez III, 28 Giugno 2019 n. 17447.

[46] Così testualmente Cass. Civ., sez III, 28 Giugno 2019 n. 17447, cit. «gli interessi convenzionali di mora non sfuggono alla regola generale per cui, se pattuiti ad un tasso eccedente quello stabilito dalla L. 7 marzo 1996, n. 108, art. 2, comma 4, vanno qualificati ipso iure come usurari, ma in prospettiva del confronto con il tasso soglia antiusura non è corretto sommare interessi corrispettivi ed interessi moratori. Alla base di tale conclusione vi è la constatazione che i due tassi sono alternativi tra loro: se il debitore è in termini deve corrispondere gli interessi corrispettivi, quando è in ritardo qualificato dalla mora, al posto degli interessi corrispettivi deve pagare quelli moratori; di qui la conclusione che i tassi non si possano sommare semplicemente perché si riferiscono a basi di calcolo diverse: il tasso corrispettivo si calcola sul capitale residuo, il tasso di mora si calcola sulla rata scaduta; ciò vale anche là dove sia stato predisposto, come in questo caso, un piano di ammortamento, a mente del quale la formazione delle varie rate, nella misura composita predeterminata di capitale ed interessi, attiene ad una modalità dell’adempimento dell’obbligazioni gravante sulla società utilizzatrice di restituire la somma capitale aumentata degli interessi; nella rata concorrono, infatti, la graduale restituzione del costo complessivo del bene e la corresponsione degli interessi; trattandosi di una pattuizione che ha il solo scopo di scaglionare nel tempo le due distinte obbligazioni».

[47] Cass. Civ., sez. III, 20 febbraio 2003, n. 2593.

[48] C. Giust. UE, sez. I, 21 gennaio 2015, cause riunite C-482/13, C-484/13, C-485/13 e C-487/13, cit.

[49] Nel caso sottoposto alla Corte di Giustizia, L’Unicaja Banco e la Caixabank avevano presentato, dinanzi al giudice del rinvio domande di esecuzione forzata sugli importi dovuti in applicazione dei tassi d’interesse di mora previsti in taluni contratti di mutuo ipotecario. I procedimenti principali riguardano procedimenti di esecuzione ipotecaria avviati dall’Unicaja Banco e dalla Caixabank per l’esecuzione forzata di varie ipoteche, costituite tra il 5 gennaio 2007 e il 20 agosto 2010 per importi compresi tra EUR 47 000 e EUR 249 000.

Nella causa C-482/13, il mutuo ipotecario era soggetto ad un tasso di interesse moratorio del 18%, che era suscettibile di aumento, qualora dalla maggiorazione di quattro punti del tasso di interesse modificato fosse risultato un tasso di interesse superiore, entro i limiti del massimale del 25% nominale annuo. Nelle cause C-484/13, C-485/13 e C-487/13, i mutui ipotecari erano soggetti ad un tasso di interesse moratorio del 22,5%

Inoltre, tutti i contratti di mutuo interessati nei procedimenti principali contenevano una clausola che consentiva, in caso di inadempimento del mutuatario ai suoi obblighi di pagamento, al mutuante di anticipare la data di esigibilità inizialmente pattuita e di richiedere il pagamento dell’intero capitale dovuto, maggiorato degli interessi di mora, delle commissioni e delle spese concordati.

[50] Nello specifico alla Corte di giustizia, in via pregiudiziale, era stato chiesto di esprimersi se “l’articolo 6, paragrafo 1 , della direttiva 93/13 debba essere interpretato nel senso che osta ad una disposizione nazionale in virtù della quale il giudice interno, investito di un procedimento di esecuzione ipotecaria, è tenuto a far ricalcolare le somme dovute a titolo della clausola di un contratto di mutuo ipotecario che prevede interessi moratori il cui tasso sia superiore al triplo del tasso legale, mediante l’applicazione di un tasso di interesse moratorio che non ecceda tale soglia”.

[51] La Corte ha quindi affermato che l’art. 6, co. 1 della direttiva 93/13, non può essere interpretata nel senso che consente al giudice nazionale, qualora quest’ultimo accerti il carattere abusivo di una clausola penale in un contratto stipulato tra un professionista e un consumatore, di ridurre l’importo della penale imposta a carico del consumatore, anziché di disapplicare integralmente la clausola in esame nei confronti di quest’ultimo (sentenza Asbeek Brusse e de Man Garabito, EU:C:2013:341, si veda punto 29 della sentenza). Inoltre, ha ricordato la Corte, data la natura e l’importanza dell’interesse pubblico sul quale si basa la tutela assicurata ai consumatori, che si trovano in una situazione d’inferiorità rispetto ai professionisti, la direttiva 93/13 impone agli Stati membri, come risulta dal suo articolo 7, paragrafo 1 , in combinato disposto con il ventiquattresimo considerando della medesima, di fornire mezzi adeguati ed efficaci per far cessare l’inserzione di clausole abusive nei contratti stipulati tra un professionista e i consumatori (sentenze Banco Español de Crédito, EU:C:2012:349, punto 68, nonché Kásler e Káslerné Rábai, EU:C:2014:282, si veda punto 30 della sentenza).

[52] Per completezza si segnala che la sentenza della Corte di Giustizia ha concluso riconoscendo la possibilità per il giudice nazionale di sostituire ad una clausola abusiva una disposizione nazionale di natura suppletiva “a condizione che tale sostituzione sia conforme all’obiettivo dell’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13 e consenta di ripristinare un equilibrio reale tra i diritti e gli obblighi delle parti contraenti. Tuttavia, tale possibilità è limitata ai casi in cui l’invalidazione della clausola abusiva obbligherebbe il giudice ad annullare il contratto nel suo insieme, esponendo così il consumatore a conseguenze tali da esserne penalizzato (v., in tal senso, Kásler et Káslerné Rábai, EU:C:2014:282, punti da 82 a 84)” (punto 33 della sentenza).

[53] Al punto 34 della sentenza della Corte di Giustizia è stato chiarito che nei procedimenti principali, e salve le opportune verifiche da parte del giudice del rinvio, l’annullamento delle clausole contrattuali di cui trattasi non avrebbe avuto conseguenze negative per il consumatore, in quanto gli importi per i quali i procedimenti di esecuzione ipotecaria erano stati avviati, sarebbero stati necessariamente minori in assenza di maggiorazione dovuta all’applicazione degli interessi moratori previsti da dette clausole.

[54] U. Vassallo Paleologo, Il finale era già noto – prime riflessioni sulla sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione civile n. 19597/2020, op. cit., pag. 12 e ss.

[55] U. Vassallo Paleologo, op. cit., pag. 11.

[56] Si è poi a lungo dibattuto sulla rilevanza della Commissione di massimo scoperto, della penale di estinzione anticipata e sui costi di assicurazione, con l’intento di ridimensionarne la portata delle suddette voci di spesa per il cliente ai fini della verifica delle soglie di usura. A titolo esemplificativo s.v. quanto segue «In altri casi, invece, la mancata considerazione ai fini del TEGM, da parte delle Istruzioni della Banca d’Italia, di voci di costo che rientravano, a tutti gli effetti, nella fisiologia del rapporto s’è tradotta in un’opinabile e censurabile sottostima del costo del credito. È il caso della c.m.s. (“rilevata separatamente” fino alle Istruzioni dell’agosto 2009) e dei premi di polizza assicurativa, previsti a copertura del rischio di credito ma obbligatori per legge (esclusi dalla rilevazione ai sensi del § C4 sub 5 delle Istruzioni del febbraio 2006, ma in seguito ricompresivi nelle Istruzioni dell’agosto 2009), Tribunale di Torino, 27 aprile 2016, n.14932, cit.

[57] Appare opportuno richiamare testualmente quanto stabilito da Trib. Torino, 27 aprile 2016, n.14932, cit., ovvero che: «anche l’interesse di mora deve ritenersi inerente alla concessione del credito. Primo, è previsto nel contratto e come patto contrattuale deve presumersi prima facie condizione per la concessione del credito. Secondo, regola preventivamente le conseguenze economiche del mancato pagamento alla scadenza di una rata di rimborso del prestito concesso. Non ultimo, secondo lo stabile indirizzo della Cassazione civile, gli interessi di mora sono assoggettati all’applicazione degli artt. 1815 c.c. e 644 c.p.».

[58] La Corte di Cassazione ha infatti sancito che il reato di usura si configura come reato a schema duplice e si perfeziona o con la sola accettazione della promessa degli interessi o degli altri vantaggi usurari, non seguita dalla effettiva dazione degli interessi, ovvero, quando questa segua, con l’integrale adempimento dell’obbligazione usuraria. Trattandosi di reato a schema duplice, pertanto, ne consegue che, nella prima, il verificarsi dell’evento lesivo del patrimonio altrui si atteggia non già ad effetto del reato, più o meno esteso nel tempo in relazione all’eventuale rateizzazione del debito, bensì ad elemento costitutivo dell’illecito il quale, nel caso dell’integrale adempimento dell’obbligazione usuraria, si consuma con il pagamento del debito. Nella seconda, al contrario, che si verifica quando la promessa del corrispettivo, in tutto o in parte, non viene mantenuta, il reato si perfeziona con la sola accettazione dell’obbligazione rimasta inadempiuta (Cass. Pen., sez. II, 8 settembre 2011 n. 33331).

[59] Decreto Legge 13 maggio 2011, n. 70, Prime disposizioni urgenti per l’economia, in G.U. Serie Generale n.110 del 13-5-2011, Entrato in vigore il 14 maggio 2011 e convertito con modificazioni dalla L. 12 luglio 2011, n. 106, in G.U. 12 luglio 2011, n. 160.

[60] S.v. ad esempio Cass. Civ., 17 ottobre 2019, n. 26286, cit. Nella motivazione della sentenza si legge infatti che «vi è una netta diversità di causa e di funzione tra interesse corrispettivo ed interesse moratorio. L’interesse corrispettivo costituisce la remunerazione concordata per il godimento diretto di una somma di denaro, avuto riguardo alla normale produttività della moneta. L’interesse di mora, secondo quanto previsto dall’art. 1224 c.c., rappresenta invece il danno conseguente l’inadempimento di un’obbligazione pecuniaria” (…) Tale assunto nelle conseguenze porta ad individuare una soglia usura per gli interessi moratori diversa da quella fissata per i corrispettivi».

[61] Cass. Civ. sez. V, 23 novembre 2011, n. 46669.

[62] Cass. Civ., sez. I, 5 Aprile 2017, n. 8806, est. A.A. Dolmetta, che nel confermare che le spese di assicurazione rientrano nel calcolo dell’usura, ha affermato che “non avrebbe neppure senso opinare diversamente nella prospettiva della repressione del fenomeno usurario, l’esclusione di talune delle voci per sé rilevanti comportando naturalmente il risultato di spostare – al livello di operatività della pratica – la sostanza del peso economico del negozio di credito dalle voci incluse verso le voci escluse”.

[63] Cass. Civ., sez. VI, 28 settembre 2020, n. 20464, est. A. A. Dolmetta.

[64] S.v. da ultimo Cass. Civ., sez. VI, 26 novembre 2021, n. 37058, che ha recentemente ribadito il principio della centralità della fattispecie usuraria come definita dall’art. 644 c.p. comma 5, norma alla quale si devono necessariamente uniformare e coordinare le diverse disposizioni che intervengono in materia bancaria. Il riferimento appare chiaro dalle Istruzioni della Banca d’Italia che costituiscono la base per la formazione dei Decreti Ministeriali di rilevazione del TEG. E’, altresì, condiviso il principio secondo il quale la mancata inclusione della voce di costo del credito dalle stesse istruzioni della Banca d’Italia (nello specifico i costi assicurativi) «…non comporta l’esclusione di tale voce ai fini della determinazione della soglia usuraia, imponendo semmai al Giudice ordinario di prendere atto della illegittimità dei decreti e disapplicarli». La Corte ha proseguito il percorso argomentativo ribadendo l’irrilevanza del principio secondo cui, ai fini della verifica del superamento del tasso soglia, si dovrebbero confrontare esclusivamente grandezze cd omogenee, poiché la nota pronuncia delle Sezioni Unite n. 19597/2020 ha chiarito che la voce di costo colpevolmente, esclusa dalle Istruzioni della Banca d’Italia per la rilevazione del TEG, potrà trovare dimora nel margine di tolleranza (cd “cuscinetto”) previsto dal legislatore per la determinazione del TEG (conf. Trib. Torino, sez. VI, sentenza 31 ottobre 2014 e 27 aprile 2016, dott. Astuni, cit.)

[65] Per ulteriori approfondimenti, anche in relazione al rapporto tra Sezioni Unite e Sezioni semplici e alla portata dell’art. 374, co. 3 c.p.c., s.v. A. Didone, Le Sezioni Unite e l’«usura degli interessi moratori». Spunti critici, cit. pag. 107 e ss.

[66] Corte Cost.,12 febbraio 2012, n. 230 in www.ilcaso.it. Per ulteriori spunti di riflessione rispetto alla vincolatività delle sentenze della Suprema Corte s.v. Cass. Ord. 09 gennaio 2015, n. 174.

[67] Cass. Civ., sez. III, 13 maggio 2021, n. 12964, cit.

[68] A. Didone, L’usura moratoria e la Cassazione: un (primo?) passo indietro (a proposito di Cass. 13 maggio 2021, n. 12964), www.dirittobancario.it., giugno 2021.

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