La Suprema Corte (Pres. Ragonesi, Rel. Cristiano), con la presente ordinanza, si è pronunciata su un caso di fallimento di soci di fatto in estensione ai sensi dell’art. 147 l. fall., stabilendo che, ai fini della dichiarazione di fallimento in esame, è rilevante unicamente l’accertamento (effettuabile anche in sede di dichiarazione di fallimento della società) della partecipazione all’attività sociale del socio illimitatamente responsabile, non essendo «richiesta la specificazione della natura (palese od occulta) di tale partecipazione». Inoltre, accertata la presenza di un socio di fatto, non è necessaria un’apposita istanza di estensione da parte di uno degli altri soci in occasione del giudizio di fallimento societario, «risultando evidente che il [quarto] comma dell’art. 147 regola l’ipotesi residuale in cui l’esistenza di altri soci illimitatamente responsabili emerga solo in data successiva alla dichiarazione di fallimento».
Nel caso di specie, i ricorrenti, ritenuti in sede di merito soci occulti di una s.n.c. fallita, lamentavano, dal punto di vista sostanziale, la violazione dell’art. 2284 c.c., obiettando che non è possibile la continuazione di un rapporto sociale tra i soci superstiti e gli eredi del socio defunto in assenza di una manifestazione di volontà di questi ultimi: pertanto, la norma citata non avrebbe disciplinato la possibilità di un accordo raggiunto per facta concludentia, essendo consentita soltanto una partecipazione palese da parte degli eredi. Inoltre, i ricorrenti non avrebbero nemmeno tenuto condotte tali da sostanziarsi in una partecipazione occulta all’attività sociale, in quanto si sarebbero limitati a presenziare in assemblea per acquisire informazioni patrimoniali sulla società: in concreto, infatti, non avrebbero effettuato conferimenti né assunto decisioni imprenditoriali. In aggiunta, non essendo stata provata la sussistenza dell’elemento psicologico dell’affectio societatis, sarebbe risultata carente nei loro confronti «la prova dell’esistenza del contratto di società nei rapporti interni» con i soci superstiti. Per quanto attiene al nostro tema, i ricorrenti, in sede difensiva, citavano a supporto delle proprie argomentazioni le sentenze di legittimità nn. 15488/2013 e 5533/2015, al fine di restringere l’operatività dell’art. 147 l. fall.
I giudici hanno, tuttavia, ritenuto infondati i motivi di ricorso (oltre che processuali, anche) sostanziali sulla base di un duplice ordine di ragioni: in primo luogo, una volta accertato l’intervenuto accordo (anche tacito) tra gli eredi ed i soci superstiti, non è rilevante verificare se esso sia stato manifestato all’esterno. In secondo luogo, non appare ragionevole interpretare restrittivamente l’art. 147 l. fall., ritenendo (come affermato dai ricorrenti sulla base delle sentenze citate) che il primo comma «disciplini unicamente il fallimento dei soci regolari ed il [quarto] unicamente quello dei soci irregolari»: è, infatti, ben possibile che i soci irregolari (i.e. di fatto, palesi od occulti) di una s.n.c. regolare siano dichiarati falliti ai sensi del primo comma «se la partecipazione sia contestualmente emersa», così com’è possibile che «soci regolari, la cui partecipazione sia sfuggita o sia venuta meno in epoca antecedente al fallimento della società, siano dichiarati falliti ai sensi del [quarto] comma». Ad avviso dei giudici, dunque, le sentenze richiamate sono apparse «esulanti dal tema dibattuto»: queste ultime, infatti, si limitano a statuire che il secondo comma dell’art. 147 l. fall. «si applica solo ai soci regolari di società regolari».
In definitiva, la Suprema Corte ha ritenuto che il fallimento si estenda automaticamente (non essendo necessaria un’apposita istanza di parte), ai sensi del primo comma dell’art. 147 l. fall., anche ai soci di fatto illimitatamente responsabili, non rilevando la circostanza che essi siano palesi od occulti.