Il presente contributo analizza il potere del datore di lavoro di modificare (ius variandi) la retribuzione variabile del lavoratore ed i suoi limiti alla luce del principio di irriducibilità della retribuzione.
Il presente scritto si interroga sulla possibilità, per il datore di lavoro, di rimodulare, anche in termini peggiorativi, il complessivo trattamento economico del lavoratore, ovvero di revocare, in via unilaterale, alcune suoi componenti, in deroga dell’operatività del c.d. principio di irriducibilità della retribuzione.
L’analisi muove, quindi, dal contenuto dell’art. 2103 c.c., là dove, nel disciplinare lo ius variandi delle mansioni (in peius), si sancisce il diritto del lavoratore di mantenere il “trattamento retributivo in godimento”, con la sola eccezione degli “elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa”, prevedendo altresì, come ulteriore corollario – al di fuori di specifiche e codificate eccezioni previste dall’art. 2103, comma 6, c.c. – il principio della irriducibilità della retribuzione (“ogni patto contrario è nullo”, art. 2103, u.c., c.c.).
Il suddetto principio non è tuttavia intangibile, posto che può essere permeabile in funzione delle vicende modificative dei termini e delle condizioni del rapporto di lavoro originariamente pattuiti.
Esiste per il datore di lavoro un margine di flessibilità modificativo nell’assegnazione di trattamenti di diffusa applicazione verso i dipendenti, quali l’assegnazione dell’autovettura o dell’alloggio, ovvero nel riconoscimento di compensi economici variabili, incentivanti e/o premiali previsti da fonti collettive e individuali, in relazione ai quali il dibattito giurisprudenziale continua ad essere acceso ed in divenire.
1. Introduzione
Il lavoratore subordinato è soggetto al potere direttivo datoriale, che, in primo luogo, si esplica nella definizione delle mansioni che il lavoratore è chiamato a svolgere. Le mansioni identificano, quindi, l’oggetto dell’obbligazione principale del lavoratore. Il sinallagma contrattuale è completato con la retribuzione, che il datore di lavoro è tenuto a corrispondere e il lavoratore ha diritto di ricevere, quale corrispettivo del suo facere.
Pertanto, ogni variazione nelle mansioni assegnate al lavoratore è idonea, in astratto, a riflettersi sulla retribuzione che questi percepisce per svolgere quelle stesse attività.
Da tale correlazione nasce un primo interrogativo circa la facoltà datoriale, tramite l’esercizio dello ius variandi – vale a dire del potere di modificazione (unilaterale) delle mansioni – di apportare modifiche peggiorative al complessivo trattamento economico percepito dal lavoratore.
Il passaggio ulteriore è chiedersi se – ed eventualmente a quali condizioni – il datore di lavoro che abbia interesse, in corso di rapporto, a modificare il trattamento economico del lavoratore, possa farlo in via unilaterale, anche a prescindere da una variazione delle mansioni.
La risposta ai suddetti quesiti, oggetto di analisi della presente nota, richiede un’analisi della disciplina delle mansioni, oggetto dell’art. 2103 c.c. (“Prestazione del lavoro”), come interpretata dalla recente giurisprudenza.
2. L’art. 2103 c.c.: esercizio dello ius variandi e modifiche consensuali
Tale norma, al suo primo comma, afferma un principio cardine del nostro ordinamento, ovvero che “il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito”[1]. Tale principio è stato oggetto di modifica con la novella del 2015, che ha ampliato l’area della prestazione dovuta dal lavoratore, pur in assenza del suo consenso[2], in quanto il datore di lavoro può richiedere l’esecuzione di una prestazione diversa da quella inizialmente assegnata purché la diversa mansione si collochi nell’alveo, più o meno esteso, di tutte le attività / mansioni riconducibili al medesimo livello e categoria di riferimento[3].
Accanto a tale esercizio di ius variandi se ne collocano altri due, anch’essi unilaterali, previsti, rispettivamente, dal secondo e dal quarto comma dell’art. 2103 c.c.: il secondo comma prevede, infatti, che “in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale” [4], mentre il quarto comma ipotizza (possibili) “ulteriori ipotesi (…) previste dai contratti collettivi”, che consentano l’assegnazione a mansioni di livello inferiore “purché rientranti nella medesima categoria”.
Nonostante la citata facoltà del datore di lavoro di mutare unilateralmente ed in pejus le mansioni del lavoratore, non gli è tuttavia consentito modificare, a sua discrezione, anche il relativo trattamento economico in godimento. Segnatamente, infatti, il legislatore ha previsto come “il lavoratore ha diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo in godimento”, fatta eccezione per gli “elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa” (art. 2103, comma 5, c.c.).
Infatti, la modifica in senso peggiorativo della retribuzione – oltre che delle mansioni, della categoria e del livello – può essere convenuta tra le parti unicamente mediante accordi individuali sottoscritti in presenza di specifiche condizioni di procedura e di finalità: da un lato, si richiede che l’accordo sia raggiunto nelle c.d. “sedi protette” (ex art. 2113, comma 4, c.c. o avanti le commissioni di certificazione), con possibilità per il lavoratore di farsi assistere[5]; dall’altro lato, si richiede che il mutamento sia sorretto da specifiche ragioni legittimanti, i.e., la sussistenza di un interesse del lavoratore (i) alla conservazione dell’occupazione (vale a dire ad accettare una ricollocazione, seppure in mansioni di livello inferiore, in alternativa al licenziamento per soppressione del posto di lavoro); o (ii) all’acquisizione di una diversa professionalità, ovvero (iii) al miglioramento delle condizioni di vita[6].
3. Il principio di irriducibilità della retribuzione: ambito di applicazione e limiti di operatività nell’esercizio dello ius variandi delle mansioni e al di fuori dello stesso
Nel quadro normativo evidenziato si colloca il principio di irriducibilità della retribuzione, espressione finale dell’ultimo comma dell’art. 2103 c.c., ove si stabilisce che “salvo che ricorrano le condizioni di cui al secondo e al quarto comma e fermo quanto disposto al sesto comma, ogni patto contrario è nullo”[7].
A differenza di quanto avviene nelle ipotesi consensuali di cui al sesto comma dell’art. 2103 c.c. – ove è possibile una riduzione della retribuzione del dipendente al ricorrere di tutte le condizioni ivi previste – nell’esercizio (unilaterale) dello ius variandi si assiste, quindi, a una divaricazione tra inquadramento e trattamento economico. Per tale motivo, la tutela apprestata in favore del lavoratore si intensifica, quale contropartita al sacrificio imposto dall’esigenza organizzativa dell’impresa (che prevale nell’adibizione del lavoratore a mansioni di livello inferiore e che, quindi, ne sopporta il costo)[8].
Come anticipato, fanno eccezione, e sono quindi riducibili, gli “elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa”. Tale principio – già operante, per via giurisprudenziale, nella mobilità c.d. orizzontale ante 2015[9] – è stato definitivamente riconosciuto anche a livello normativo. Ciò implica, tuttavia, che “la garanzia della irriducibilità della retribuzione si estende alla sola retribuzione compensativa delle qualità professionali intrinseche essenziali delle mansioni precedenti, ma non a quelle componenti della retribuzione che siano erogate per compensare, come detto, particolari modalità della prestazione lavorativa”[10]. Con la conseguenza che tali voci economiche possono essere unilateralmente soppresse, ove siano venute meno, per insindacabile scelta organizzativa e produttiva del datore di lavoro, quelle peculiari modalità di svolgimento del lavoro[11].
Ebbene, il principio di irriducibilità dettato dal 2103 c.c. travalica i confini dello ius variandi delle mansioni, posto che “l’art. 2103 c.c. esprime il principio di irriducibilità della retribuzione, che ha una portata applicativa generale, non trovando esclusivamente applicazione nei casi di variazione in pejus delle mansioni del lavoratore”[12].
È, dunque, muovendo da tale assunto che occorre affrontare gli orientamenti formatisi in materia, per guidare l’operatore a comprendere quali componenti (incentivanti / premiali o comunque aggiuntive rispetto all’”ordinaria” retribuzione) possano essere effettivamente soppresse e/o modificate in senso peggiorativo per (sola) volontà datoriale, anche al fine di perseguire la necessaria flessibilità nell’organizzazione dell’impresa.
Giova al riguardo esaminare alcune interessanti pronunce, di merito e legittimità, che offrono concreti spunti di riflessione, mutuabili in diversi scenari operativi nel corso del rapporto di lavoro.
3.1 In via generale: i trattamenti economici di maggior favore
In via generale, con l’ordinanza del 31 luglio 2023, n. 23205, la Corte di Cassazione ha statuito, con riguardo a una serie di componenti economiche di miglior favore, come «il livello retributivo acquisito dal lavoratore subordinato, per il quale opera la garanzia della irriducibilità della retribuzione, prevista dall’articolo 2103 c.c., deve essere sì determinato con il computo della totalità dei compensi corrispettivi erogati ma tenendo conto delle qualità professionali intrinseche alle mansioni del lavoratore, attinenti, cioè, alla professionalità tipica della qualifica rivestita[13]. I trattamenti di miglior favore costituiscono componenti aggiuntive ai minimi tabellari e non sono coperti dalla tutela dell’articolo 36 Cost. La loro eliminazionenon è in contrasto con il principio di irriducibilità della retribuzione, previsto dall’articolo 2103 c.c.. (…) In sostanza il principio di irriducibilità della retribuzione (…) va tuttavia coordinato con il legittimo esercizio, da parte del datore di lavoro, dello “ius variandi”. In tal caso la garanzia della irriducibilità della retribuzione si estende alla sola retribuzione compensativa delle qualità professionali intrinseche essenziali delle mansioni precedenti, ma non a quelle componenti della retribuzione che siano erogate per compensare (…) particolari modalità della prestazione lavorativa”.
3.2 L’autovettura aziendale
In linea con quanto sopra, in relazione alla revoca dell’autovettura concessa in uso al dipendente, la Corte di Appello di Milano[14] ha escluso l’operatività del principio di irriducibilità della retribuzione: “in quanto condizione di miglior favore, esso (benefit) è componente aggiuntiva ai minimi tabellari, non coperta dalla tutela dell’art. 36 Cost., che si riferisce ai minimi retributivi fissati dalla contrattazione collettiva e idonei a garantire la proporzionalità della retribuzione stessa alla qualità e quantità del lavoro prestato”.
Nel caso in esame, tuttavia, l’autovettura era sì stata assegnata a uso promiscuo, ma era previsto il pagamento, da parte del dirigente, di un canone mensile, trattenuto in busta paga, a copertura delle spese sostenute dal datore di lavoro. Ciò ha, quindi, permesso ai Giudici milanesi di statuire che “quando dell’auto aziendale è consentito anche l’uso privato, ma questo è concesso a fronte del pagamento, mediante trattenuta in busta paga, di un canone non simbolico (…) non si può ritenere che l’uso privato costituisca una forma di retribuzione in natura, posto che al datore di lavoro è corrisposto un adeguato rimborso degli oneri e delle spese sostenute”. Di qui, dunque, la non applicabilità del principio di irriducibilità della retribuzione e la possibilità di revoca della disponibilità di auto aziendale senza riconoscimento al lavoratore di un indennizzo o compenso sostitutivo.
Tuttavia, ove, al contrario, l’autovettura fosse assegnata a uso promiscuo, ma con assoggettamento a imposizione fiscale e contributiva del suo valore convenzionale (determinato sulla base dalle tabelle nazionali ACI), essa potrà essere revocata (“unilateralmente da parte del datore di lavoro in presenza di una clausola contrattuale in tal senso”[15]), ma costituirà retribuzione in natura. Dunque, “dalla scelta – organizzativa e legittima – di richiedere la restituzione dei veicoli, non può tuttavia derivare la conseguenza – illegittima – di ridurre il trattamento retributivo fondamentale del lavoratore”. In tal caso, allora, la componente retributiva costituita dall’uso personale dell’auto aziendale – da determinare con riguardo alle tariffe ACI – assume “il carattere di retribuzione irriducibile”[16], con la conseguenza che la revoca dell’autovettura dovrà essere compensata da un indennizzo sostitutivo quantificato secondo il criterio sopra indicato.
Ciò significa che nel decidere se, e in che termini, procedere alla revoca dell’autovettura assegnata a uso promiscuo, il datore di lavoro dovrà verificare le modalità di tale riconoscimento, per indagare se lo stesso possa assurgere a retribuzione in natura, e così essere protetto dall’irriducibilità della retribuzione (fermo, inoltre, che la facoltà di revoca dovrà essere stata prevista al momento dell’assegnazione) o se, al contrario, la sua revoca possa essere effettuata senza diritto al riconoscimento, in favore del dipendente, di un’equivalente attribuzione economica, in quanto trattamento estraneo all’irriducibilità della retribuzione.
3.3 L’alloggio
In linea con i principi sopra espressi, si è statuito anche con riferimento al godimento dell’alloggio, rispetto al quale si è affermato che “il godimento a titolo gratuito dell’alloggio costituisce una componente in natura della retribuzione (…) solo qualora vi sia connessione con la posizione lavorativa del dipendente che ne fruisce e costituisca, dunque, emolumento collegato alle qualità intrinseche delle sue mansioni e non piuttosto allo specifico disagio di una prestazione dell’attività lavorativa[17]”.
Nel caso in esame, l’alloggio era stato assicurato al lavoratore per un periodo continuativo, ma è stato ritenuto emolumento non collegato alle qualità intrinseche delle mansioni del lavoratore, quanto piuttosto allo specifico disagio di una prestazione dell’attività lavorativa lontano dal luogo di residenza. Di qui, pertanto, la legittimità della sua revoca da parte del datore di lavoro, atteso che l’attribuzione dell’alloggio, quale condizione di miglior favore aggiuntiva ai minimi tabellari, non è coperta dalla tutela dell’art. 36 Cost.; del pari, si è escluso il contrasto con il principio di irriducibilità della retribuzione, previsto dall’art. 2103 c.c., perché tale norma non copre i compensi erogati in ragione di particolari modalità della prestazione lavorativa o collegati a specifici disagi o difficoltà, compensi che non spettano allorché vengano meno le situazioni cui erano collegati.
3.4 I bonus di fonte collettiva
Quanto, invece, a componenti retributive premiali/incentivanti, la Corte di Cassazione si è occupata della richiesta di percepire il c.d. “ex premio aziendale individuale ad personam”, previsto da un accordo integrativo aziendale, disdettato dal datore di lavoro. Accertato che tale voce aveva fonte collettiva e che la stessa non si era “incorporata” nel contratto individuale, si è chiarito che “venendo in rilievo un trattamento accessorio di derivazione collettiva alcuna lesione al principio della retribuzione proporzionata e sufficiente ex art. 36 Cost. può ritenersi consumata per il solo fatto della soppressione del premio in oggetto (…) non vi è spazio per l’applicazione dell’invocato principio di irriducibilità della retribuzione, che trova fondamento normativo nell’art. 2103 c.c.” [18].
Nell’indagine sull’ambito di applicazione del principio di irriducibilità della retribuzione si individua, pertanto, il confine con le attribuzioni “collettive”, intendendosi per tali quelle la cui fonte risieda nelle pattuizioni della contrattazione collettiva, la cui disciplina regolamenterà anche la loro (eventuale) revoca.
3.5 L’uso aziendale
Quanto sopra andrà, tuttavia, anche coordinato con l’indagine circa la configurabilità (o meno) di un uso aziendale.
Come è noto, si può parlare di uso aziendale nel caso di riconoscimento da parte del datore di lavoro di determinati trattamenti retributivi, in presenza dei seguenti requisiti: (i) spontaneità, che configuri l’uso come una mera liberalità del datore di lavoro, non determinata da vincoli legali o contrattuali; (ii) miglior favore del trattamento riconosciuto; (iii) reiterazione, essendo necessari il suo protrarsi nel tempo e il suo carattere continuativo; (iv) generalizzazione, in quanto, per configurare un uso aziendale, se ne richiede l’applicazione generalizzata nei confronti di tutti i dipendenti o comunque di una intera categoria degli stessi; (v) affidamento, in quanto la prassi necessita dell’affidamento dei lavoratori, che abbiano la ragionevole aspettativa della sua continuità.
Dunque, la configurabilità di un uso non potrebbe essere aprioristicamente esclusa, ad esempio, in presenza di un trattamento economico di miglior favore anche originariamente previsto dalla contrattazione integrativa aziendale, che abbia continuato a essere riconosciuto in favore dei lavoratori (purché per mero spirito di liberalità e non nella convinzione che il trattamento fosse dovuto[19] e con lo “specifico intento negoziale di regolare anche per il futuro determinati aspetti del rapporto lavorativo”[20]) anche successivamente alla scadenza della contrattazione collettiva integrativa[21].
E infatti, la giurisprudenza ha avuto modo di indagare se l’attribuzione di componenti economiche ai lavoratori avesse, alla luce delle circostanze fattuali del suo riconoscimento, la natura dell’uso aziendale. Poiché, infatti, “la ripetitività dell’erogazione, pur inizialmente effettuata per unilaterale determinazione, priva l’erogazione stessa dell’originaria funzione di liberalità, attribuendole quella (diversa) di corrispettivo della prestazione lavorativa dovuto per uso aziendale[22], si è appurato come “trattandosi dunque a tutti gli effetti di elemento retributivo, la sua corresponsione non può essere ingiustificatamente interrotta, per il principio di intangibilità e irriducibilità della retribuzione”[23].
Nell’implementare la decisione datoriale di eliminare l’erogazione di una certa componente economica, l’operatore dovrà quindi opportunamente distinguere tra[24]:
- “trattamento retributivo di miglior favore corrisposto ad un lavoratore”, che “rientra nel principio di irriducibilità della retribuzione nella misura in cui sia stato oggetto di contrattazione individuale e, pertanto, è diventato parte integrante del corrispettivo” della prestazione lavorativa,
- “erogazioni datoriali che non corrispondono ad obblighi normativi o contrattuali, risultano effettuati in via continuativa ed in favore di una generalità di dipendenti, sì da integrare un emolumento dovuto per uso o prassi aziendale”, le quali “devono essere considerati parte del trattamento retributivo e non possono, pertanto, essere revocati o ridotti unilateralmente dal datore di lavoro”, e infine
- “elargizioni frutto di determinazione datoriale, che viceversa sono soggette a modifiche e revoche unilaterali”.
3.6 I bonus di fonte individuale
L’indagine circa la possibilità di (dis)applicare il principio di irriducibilità della retribuzione diviene ancor più articolata quando vengano in esame componenti variabili/premiali di fonte individuale.
Pare, invero, sostenibile che ove l’erogazione variabile venga espressamente qualificata come straordinaria, ovvero come correlata ad eventi/accadimenti specifici e/o a precise finalità, la stessa non farebbe sorgere il diritto del lavoratore a una futura e/o uguale sua elargizione e potrebbe essere revocata e/o modificata, nel futuro, dal datore di lavoro. La Corte di Appello di Milano (Sentenza 23 ottobre 2020, n. 508) ha espresso chiaramente tale concetto, statuendo come “l’assenza di una espressa previsione contrattuale in ordine ad una retribuzione variabile integrativa di quella fissa predeterminata, unitamente al fatto che le somme, sempre diverse nell’importo, venivano, nelle lettere di riconoscimento delle stesse, qualificate come “eccezionali” e quale gratifica per l’attività svolta nell’anno nonché a fronte dell’impegno di non lasciare l’azienda prima di una certa data, sono tutti elementi che univocamente fanno ritenere che trattavasi di somme con carattere di liberalità e senza alcuna obbligazione in capo alla società. Del resto, non è stato in alcun modo documentato o provato un obbligo assunto dalla società (…)[25]”.
Del pari, si è ritenuto possibile ricollegare il diritto al bonus non solo alla performance individuale del lavoratore, ma anche (intrinsecamente) all’andamento aziendale, di modo che la situazione di squilibrio economico-finanziaria del datore di lavoro possa costituire condizione ostativa al riconoscimento dell’intera premialità, anche indipendentemente dai risultati individuali del dipendente[26].
Ne discende, in conclusione, la validità di un sistema premiale variabile nel quantum e, a monte, ipotetico nell’an, vale a dire che specifichi come, ad esempio, di anno in anno, lo stesso possa essere riconfermato, revocato ovvero modificato nei suoi pregressi elementi caratterizzanti e ciò solo per unilaterale volontà datoriale.
Tale facoltà datoriale dovrà essere, tuttavia, oggetto di precisa regolamentazione, in modo da escludere la natura strutturale del trattamento economico variabile assegnato, esplicitando altresì la sua specifica finalità di componente premiale e non garantita come ricorrente, in modo da collocare la stessa fuori dall’ambito di operatività del principio di irriducibilità della retribuzione.
4. Conclusioni
La decisione aziendale di revocare unilateralmente talune componenti, in denaro e/o in natura, del complessivo trattamento riconosciuto ai dipendenti, spesso conduce a una situazione di conflitto, anche in ragione dell’utilità intrinseca del bene assegnato, spesso ben maggiore del suo valore convenzionale.
Nondimeno, si è visto come vi siano margini di manovra per il datore di lavoro.
Tali ambiti saranno tanto più estesi quanto più accorta sia stata l’assegnazione / riconoscimento (e dunque, la definizione della relativa disciplina) di un determinato trattamento retributivo, che più facilmente potrà adattarsi alle esigenze di flessibilità dell’impresa quanto più efficacemente questa avrà saputo prevedere e regolamentare quelle stesse esigenze.
In definitiva, un’accorta assegnazione di un determinato trattamento retributivo richiederà un’accorta regolamentazione dei suoi termini e condizioni, che contemplino anche eventuali sue variazioni e, finanche, la sua revoca, così da adattarsi, fin da principio e in via preventiva, ai vari scenari operativi che potrebbero emergere nel corso del rapporto di lavoro.
[1] Cass. 2 maggio 2024, n. 11870, in DeJure: “La ratio della norma è quella di individuare e regolare i limiti all’esercizio del potere unilaterale del datore di lavoro di ius variandi rispetto alle mansioni di assunzione o alle ultime svolte. Sulla base di tale funzione, il legislatore stabilisce un principio di fungibilità delle mansioni che siano riconducibili “allo stesso livello e categoria legale”. (…) qualora il CCNL articoli una medesima categoria legale in più livelli, lo ius variandi è legittimamente esercitato ai sensi del co. 1 solo se le nuove mansioni appartengano, oltre che alla medesima categoria legale, anche allo stesso livello professionale di quelle precedenti. Ciò significa che, qualora il CCNL invece non preveda più livelli professionali, ma si limiti solo a prevedere diversi livelli economici differenziati per anzianità o sulla base di criteri diversi dalla tipologia di mansioni svolte, il potere in esame sarà ugualmente esercitabile, a condizione (ovviamente) che le nuove mansioni rientrino nella medesima categoria legale”.
[2] Nella giurisprudenza di merito, Tribunale di Roma, 30 settembre 2015, n. 8195, in DeJure: “a seguito della modifica dell’art. 2103 c.c. introdotta dall’art. 3 del D. Lgs. n. 81 del 2015, lo ius variandi orizzontale è correttamente esercitato ove le mansioni equivalenti cui il lavoratore è adibito siano riconducibili allo “stesso livello e categoria legale di inquadramento” delle precedenti, secondo le astratte previsioni del sistema di classificazione del contratto collettivo e senza che sia necessario un giudizio in ordine all’equivalenza c.d. sostanziale”. Nello stesso senso, Corte di Appello di Torino 23 maggio 2017, n. 354, in DeJure, Tribunale di Roma 31 ottobre 2018, n. 8357, in DeJure, Tribunale di Roma 2 novembre 2018, n. 8253, in DeJure. In senso contrario, tuttavia, il Tribunale di Bari, con sentenza del 4 maggio 2023, ha affermato la persistente necessità di condurre una valutazione circa l’equivalenza delle mansioni di nuova assegnazione rispetto alle precedenti, come richiesto dalla norma in esame prima della riforma del 2015. Per una prima panoramica sulla giurisprudenza che si è pronunciata dopo la riforma dell’art. 2103 c.c., M. Sartori, Il nuovo art. 2103 c.c. al vaglio della giurisprudenza di merito, nota a Tribunale di Ravenna 30 settembre 2015, n. 174, in IUS Lavoro, fasc. 5, 5 gennaio 2016, anche con riferimento all’applicabilità del nuovo art. 2103 anche agli atti di assegnazione antecedenti alla riforma.
[3] In dottrina si è così evidenziato che una delle maggiori novità introdotte dalla riforma del 2015 sta nel fatto di non limitare la mobilità laterale (o orizzontale) entro il perimetro dell’equivalenza professionale: “anzi, il precetto legale dell’equivalenza è stato eliminato a vantaggio di una più elastica possibilità di adibizione a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento. Ne deriva che il datore di lavoro potrà legittimamente adibire il lavoratore a tutte le mansioni ricomprese nel livello di inquadramento delle mansioni di assunzione e nella categoria legale” (Grandi- Pera, De Luca Tamajo-Mazzotta, Commentario breve alle leggi sul lavoro, Cedam, 2018, 591). Negli stessi termini, Riccardo del Punta, Diritto del lavoro, Giuffrè, 2016, 473; C. Zoli e G. Bolego, Le mansioni del lavoratore, in AA.VV. Diritti e doveri nel rapporto di lavoro, in Lavoro diretto da P. Curzio, L. Di Paola e R. Romei; G. Ianniruberto, Ius variandi orizzontale e nuovo art. 2103 c.c., in Mass. giur. lav., 2016, 263; C. Pisani, La nuova disciplina del mutamento delle mansioni, Torino, 2015, 11; E. Gragnoli, L’oggetto del contratto di lavoro privato e l’equivalenza delle mansioni, in Variaz. temi dir. lav., 2016, 1, 13; Corti, Jus variandi e tutela della professionalità dopo il Jobs Act, in Variaz. temi dir. lav., 2016, i, 58; Zoli, La disciplina delle mansioni, in Fiorillo-Perulli (a cura di) Tipologie contrattuali e disciplina delle mansioni, Giappichelli, 2015, 341; R. Romei, La modifica unilaterale delle mansioni, in Riv. it. dir. lav., 2018, 233; A. Avondola, La riforma dell’art. 2103 c.c. dopo il Jobs Act, in Riv. it. dir. lav. 2016, 369. Si segnala, inoltre, come la giurisprudenza riconosca, in via di principio, all’autonomia collettiva il potere di stabilire gli inquadramenti del personale con riguardo alla consistenza professionale delle mansioni affidate, ma anche alle caratteristiche e all’articolazione del contesto produttivo nel quale esse si inseriscono. In sede di interpretazione delle clausole di un contratto collettivo relative alla classificazione del personale, assume rilievo preminente (soprattutto se il contratto ha carattere aziendale) la considerazione degli specifici profili professionali indicati come corrispondenti ai vari livelli, rispetto alle declaratorie contenenti la definizione astratta dei livelli di professionalità delle varie categorie, poiché le parti collettive classificano il personale non sulla base di astratti contenuti professionali, bensì in riferimento alle specifiche figure professionali dei singoli settori produttivi ed elaborano successivamente le declaratorie astratte, per consentire l’inquadramento di figure professionali atipiche o nuove (Cass. 18 febbraio 2016, n. 3216, in DeJure; Cass. 29 gennaio 2018, n. 2126, in DeJure).
[4] Cass. 29 marzo 2019, n. 8910, in DeJure e, nel merito, Tribunale di Arezzo 28 marzo 2023, n. 107, in DeJure.
[5] Da un rappresentante sindacale, da un avvocato o da un consulente del lavoro.
[6] Per la verità, anche prima della riforma dell’art. 2103 c.c. la dottrina e la giurisprudenza si erano interrogate sul c.d. patto di demansionamento, ossia sulla possibilità di un accordo per l’assegnazione del dipendente a mansioni inferiori (ferma l’irriducibilità della retribuzione). A fronte di un orientamento più rigido, per il quale la riduzione consensuale delle mansioni sarebbe stata possibile solo attraverso il c.d. recesso modificativo ovvero la cessazione concordata del rapporto di lavoro seguita dalla riassunzione con mansioni diverse (in tal senso, Cass. 5 aprile 1984, n. 2231, in Giur. civ., 1984, I, 1238 con nota di M. Papaeloni; Cass. 17 aprile 1996, n. 3640, in Riv. giur. lav., 1997, II, 29 con nota di S. Morrone, Novazione oggettiva del rapporto di lavoro e contestuale dequalificazione, e in Mass. giur. lav., 1996, 550, con nota di L. Masini per il quale, in caso di novazione del rapporto di lavoro, non vi sarebbe stata frode alla legge), si era formato un orientamento più elastico che riteneva legittimo il patto di demansionamento quando si trattasse di evitare il licenziamento o la cassa integrazione straordinaria in caso di crisi e ristrutturazione aziendale (Cass. 8 settembre 1988, n. 5092, in Orient. giur. lav., 1988; Cass. 18 ottobre 1999, n. 11727 in Not. giur. lav., 200, 447) ovvero in caso di richiesta in tale senso del lavoratore (Cass. 20 maggio 1993, n. 5693, in Riv. it. dir. lav. 1994, II, 161 con nota di G. Conte e in Riv. giur. lav. 1994, II, 1044, con nota di C Vivian; Cass. 24 ottobre 1991, n. 11297, in Giur. it., 1992, I, 1, 1493 con nota di I. Piccinini). Per una panoramica di tali orientamenti e per un commento critico sugli stessi, L. Nannipieri, L’accordo sulle mansioni inferiori, in Riv. it. dir. lav., 2001, 355.
[7] Sul divieto di modifica, seppur consensuale, della retribuzione la giurisprudenza ritiene che “il principio dell’irriducibilità della retribuzione, dettato dall’art. 2103 c.c., implica che la retribuzione concordata al momento dell’assunzione non è riducibile neppure a seguito di accordo tra il datore di lavoro e il prestatore di lavoro e ogni patto contrario è nullo in ogni caso in cui il compenso pattuito anche in sede di contratto individuale venga ridotto” (ex multis, Cass. 9 gennaio 2024, in DeJure n. 835; Cass. 17 luglio 2023, n. 20525, in DeJure). Tuttavia, un orientamento, seppur minoritario, ritiene che “le parti ferma restando l’esigenza di rispettare il principio della retribuzione minima ed adeguata, possono concordemente pattuire una diminuzione della retribuzione nel corso del rapporto” (Corte d’Appello di Roma 26 luglio 2023, n. 2873, in DeJure). Sul principio della irriducibilità della retribuzione si erano già espressi, antecedentemente alla novella del 2015, Romagnoli, Commentario, in G. Ghezzi, F. Mancini, F. Montuschi, 217 e ss.; Giugni, Mansioni e qualifica nel rapporto di lavoro, Napoli, 1963, 327; Brollo, La mobilità interna del lavoratore, art. 2013, Commentario Schlesinger, 28 e ss.; T. Treu, Statuto dei lavoratori e organizzazione del lavoro, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1972, 1029; M. Grandi, La mobilità interna, in AA.VV Strumenti e limiti della flessibilità, Milano, 1986, 262; F. Bianchi D’Urso, La mobilità orizzontale e l’equivalenza delle mansioni, in Quad. dir. lav., 1987, 1, 117.
[8] G. Amoroso, V. Di Cerbo, A. Maresca, Diritto del lavoro, Vol. I, Giuffrè, 892.
[9] Invero, già da tempo la giurisprudenza aveva sancito il diritto del lavoratore a conservare il livello retributivo, comprensivo di eventuali compensi speciali attribuiti con continuità, a integrazione della retribuzione base, in ragione della professionalità raggiunta e del livello qualitativo delle mansioni stesse; al contrario, non erano tutelate dal principio di irriducibilità della retribuzione le indennità inerenti a particolari modalità della prestazione di lavoro e a fattori di maggiore gravosità della medesima (cfr. tra le numerose pronunce, Cass. 13 novembre 1991, n. 12088, in DeJure; Cass. 8 settembre 1997, n. 8704, in DeJure; Cass. 10 novembre 1997, n. 11106, in DeJure; Cass. 10 giugno 1999, n. 5721, in DeJure; Cass. 27 ottobre 2003, n. 16106, in DeJure; Cass. 8 maggio 2006, n. 10449, in DeJure; Cass. 1° agosto 2017, n. 19092, in DeJure; Cass. 6 dicembre 2017, n. 29247, in DeJure).
[10] Cass. 31 luglio 2023, n. 23205, in DeJure; Cass. 9 agosto 2021, n. 22522, in DeJure.
[11] Si veda anche M. Brollo, Disciplina delle mansioni (art. 3), in Commento al d. lgs. 15 giugno 2015, n. 81: le tipologie contrattuali e lo ius variandi, (a cura di F. Carinci) ADAPT, University Press, 2015.
[12] Corte d’appello di Milano 15 gennaio 2020, n. 1974, in DeJure.
[13] Così anche Cass. 6 dicembre 2017, n. 29247, in DeJure.
[14] Corte d’Appello di Milano 27 aprile 2023, n. 463, in DeJure.
[15] Tribunale di Roma 17 dicembre 2008, in DeJure.
[16] Tribunale di Milano 6 maggio 2014, n. 1449, in DeJure.
[17] Cass. 30 dicembre 2022, n. 38169, in DeJure.
[18] Cass. 17 luglio 2023, n. 20525 e 20535, in DeJure; Cass. 30 settembre 2022, n. 28549 e 28550, in DeJure; Cass. 9 maggio 2022, n. 14578, in DeJure; Cass. 11 aprile 2022, n. 11666, in DeJure; Cass. 6 aprile 2022, n. 11182, in DeJure; Cass. 5 aprile 2022, n. 11072, in DeJure.
[19] La sussistenza di un uso è stata esclusa nei confronti di un datore che aveva erogato l’indennità di anzianità ai lavoratori applicando un metodo a loro più favorevole rispetto al contratto collettivo. Si rilevò, infatti, che tale erogazione era stata effettuata “non con intento di liberalità, ma allo scopo di adeguarsi all’orientamento giurisprudenziale allora consolidato” (Cass. 6 novembre 1996, n. 9690, in DeJure).
[20] Tribunale di Milano 14 marzo 2017, n. 777, in DeJure.
[21] A tal proposito, si è anche dibattuto sulla configurabilità di un uso aziendale o di un contratto collettivo orale. Si veda sul punto A. Lassandari, “Il contratto collettivo aziendale e decentrato”, Giuffrè, 2001, 157. Sulla necessità o meno della forma scritta del contratto collettivo aziendale, si veda Cass., S.U., 22 marzo 1995, n. 3318, in DeJure.
[22] Cass., SS. UU., 23 agosto 1990, n. 8573, in OneLegale; Cass. 22 aprile 1988, n. 3220, in OneLegale; Cass. 26 novembre 1985, n. 5870, in OneLegale; Cass. 24 febbraio 1978, 953; nonché Cass. 14 settembre 2000, n. 12156, in Top24Lavoro; Cass. 7 ottobre 1998, n. 9930 in Top24Lavoro; Cass. 7 ottobre 1998, n. 9929, in Top24Lavoro.
[23] Tribunale di Firenze 27 gennaio 2015, n. 96, in DeJure.
[24] Tribunale di Milano 19 febbraio 2016, in DeJure.
[25] In senso analogo si è espresso il Tribunale di Torino (sentenza del 2 maggio 2018, n. 542), in relazione alla impossibilità di definizione degli obiettivi cui collegare l’erogazione premiale, resa nota dalla società datrice di lavoro in ragione di ritardi connessi a un’operazione straordinaria di fusione.
[26] Corte d’Appello di Torino 30 settembre 2020, n. 341, in DeJure.