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Editoriali

L’ACF e gli «inadempimenti» degli intermediari

11 Gennaio 2021

Aldo Angelo Dolmetta

già Consigliere della Corte di Cassazione

Di cosa si parla in questo articolo

Secondo i dati riportati sul sito ufficiale dell’ACF, nel corso del 2019 gli intermediari non hanno «adempiuto» a 251 delle 473 decisioni emesse dall’Arbitro in accoglimento delle richieste dei clienti (nel 2020, gli inadempimenti sono ancora saliti, attestandosi sopra quota 400). Il dato è impressionante. E più ancora lo diventa, non appena si constata che – nelle statistiche rese pubbliche dall’Autorità sul proprio sito – la voce «accoglimenti» comprende anche quelli meramente marginali, e cioè relativi a una frazione solo minima della domanda che è stata presentata (opaca, la formula adoperata pareggia infatti agli accoglimenti integrali pure quelli genericamente «parziali»).

Una simile proporzione sul reale «rispetto» delle decisioni emesse dall’Arbitro sembra minare, per la verità, la stessa credibilità della figura e, di conseguenza, la sua efficienza in termini di strumento di risoluzione delle controversie alternativo rispetto a quello di natura giudiziale.

Per legge lo strumento è disposto in funzione esclusiva di tutela dei diritti dei clienti (non potendo gli intermediari presentare, a loro volta, richieste nemmeno in via riconvenzionale). Peraltro, lo stesso è istituzionalmente sprovvisto di ogni lato di coattività: nei fatti, lo stesso ricorso al termine «inadempimento», per indicare il comportamento dell’intermediario che non dà corso alle indicazioni fissate dall’Autorità, è improprio; a ben vedere, anzi, deviante, se lo si considera nella prospettiva di quanto viene «promesso» al cliente.

Ora è difficile, a me pare, che i clienti possano conservare fiducia in uno strumento di questo tipo, ove rimanga oggettivamente incerto che le decisioni dell’Autorità – che pure vengono ad accogliere le loro ragioni – siano poi effettivamente attuate. Ché il ricorso all’ACF comunque comporta, per il cliente, spendere tempo e disperdere energie.

Si obietta spesso che il mancato rispetto delle indicazioni dell’Arbitro dipende in gran parte da casi di «risparmio tradito»; che risponde cioè a motivi contingenti, non già a rifiuti programmatici degli intermediari (cfr., in proposito, gli articoli comparsi su Il Sole 24 ore Plus, del 19 dicembre 2020 e del 9 gennaio 2021). A me, per la verità, non pare che il rilievo sia pertinente.

Agli occhi del cliente (del risparmiatore, dell’investitore) a contare è il fatto oggettivo del mancato rispetto di una decisione, che è pure stata presa – e formalizzata – dall’Autorità; non certo le riserve mentali dell’intermediario. Lo strumento si valuta, prima di ogni altra cosa, per la sua dose di effettività. D’altra parte, nei fatti dell’operatività le contingenze possono anche venire a ripetersi; e pure possono farlo di frequente. Come del resto è avvenuto, ancora nei tempi recenti proliferandosi i casi di «risparmio tradito». Per di più, l’evidenza dei tradimenti massivi – con il «rimpallo» di responsabilità che usualmente viene a seguirne – non viene a rendere più leggero il peso dei tradimenti consumati singolarmente, per negligenza e/o impreparazione del management dell’intermediario.

Escluso il ricorso a misure di tipo coattive (posto che non si tratta di autorità giudiziaria), l’efficienza dello strumento dell’ACF – prima ancora, la sua tenuta sul piano del reale – si affidano propriamente a misure di ordine persuasivo, in specie di taglio reputazionale. Come intervenire, allora?

In effetti, il rischio è oggettivo, quanto pure evidente. La mera, indifferenziata diffusione nel pubblico di notizie relative alla percentuale di decisioni rimaste «inascoltate» tende, per sé, più all’abbandono dello strumento da parte dei clienti, che a fare «ragionare» l’intermediario indifferente o proprio recalcitrante. La comunicazione di dati disaggregati, del resto, fa facilmente disperdere (in via tendenziale) la notizia. Non dire nulla, per altro verso, significa tradire – ancora una volta – la fiducia di risparmiatori e investitori (come pure la norma dell’art. 47 Cost., è naturale). Forse andrebbero allora studiate e ipotizzate, e poi attuate in modo incisivo, delle misure che si manifestino idonee a comportare, nei confronti degli intermediari «devianti», un effettivo disagio reputazionale.

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