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Giurisprudenza

L’Agenzia delle Entrate non può introdurre con l’atto di appello un nuovo motivo a fondamento della pretesa fiscale

18 Marzo 2020

Angelo Campailla

Cassazione Civile, Sez. V, 26 febbraio 2020, n. 5160 – Pres. Napolitano, Rel. Federici

Di cosa si parla in questo articolo

Nel processo tributario di appello l’Amministrazione finanziaria non può mutare i termini della contestazione, deducendo motivi e circostanze diversi da quelli contenuti nell’atto di accertamento.

Il divieto di proposizione di domande nuove, previsto all’art. 57, comma 1, D.Lgs. n. 546 del 1992, trova applicazione anche nei confronti dell’Ufficio finanziario, al quale non è consentito, innanzi al giudice d’appello, avanzare pretese diverse, sotto il profilo del fondamento giustificativo e, dunque, sul piano della causa petendi, da quelle recepite nell’atto impositivo. Diversamente sarebbe lesa la concreta possibilità per il contribuente di esercitare il diritto di difesa mediante l’esternazione dei motivi di ricorso, i quali vanno necessariamente rapportati a ciò che nell’atto stesso risulta esposto. Così si esprime la Cassazione con l’ordinanza 26 febbraio 2020, n. 5160, confermando quanto già affermato in precedenti pronunce (i.e. sent. n. 25909/2008, 9810/2014 e 12467/2019).

Nel caso analizzato dal giudice di legittimità, una società contribuente impugnava l’atto impositivo con il quale l’Amministrazione finanziaria aveva disconosciuto l’inerenza di alcuni costi di pubblicità (nel dettaglio spese per la sponsorizzazione di autovetture da gara). L’adita commissione tributaria provinciale accoglieva le doglianze della società. L’Amministrazione finanziaria appellava la decisione di primo grado affermando, diversamente da quanto sostenuto nell’atto impositivo, che i predetti costi costituissero spese di rappresentanza (e non di pubblicità) e come tali fossero deducibili solo parzialmente. Nonostante la società avesse eccepito l’inammissibilità di tale ‘nuova’ contestazione, il giudice di secondo grado aveva ritenuto fondata la tesi dell’Amministrazione finanziaria.

Pertanto, avverso la sentenza di appello, la società proponeva ricorso per cassazione evidenziando nuovamente come l’Agenzia delle Entrate avesse introdotto, nel giudizio di secondo grado, un nuovo motivo a fondamento della pretesa fiscale; conseguentemente la sentenza della CTR, avendo accolto i motivi dell’Amministrazione Finanziaria, doveva considerarsi nulla per violazione dell’articolo 7, comma 1 e 2 del d.lgs. 546/1992, nonché dell’articolo 112 c.p.c.

Il giudice di legittimità accoglie le ragioni del contribuente e cassa la sentenza impugnata rilevando che la predetta violazione fosse evidente: i) sotto il profilo della causa petendi, poiché l’ Amministrazione finanziaria nell’atto impositivo fondava la ripresa a tassazione sull’ assenza di inerenza dei costi in questione, qualificati come spese di pubblicità, mentre con l’atto d’appello inquadrava i medesimi costi come spese di rappresentanza e disconosceva la sola parziale deducibilità degli stessi; ii) sotto il profilo del petitum, poiché nell’atto impositivo si negava del tutto la deducibilità dei predetti costi, mentre nell’atto di appello la deducibilità di tali spese veniva limitata ma non esclusa.

 

 

 

 

 

 

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