L’art. 13 del D.L. 26 ottobre 2019, n. 124 (in vigore dal 27 ottobre 2019[1]) introduce nel Testo Unico delle Imposte sui Redditi nuove disposizioni volte a completare la disciplina dei trust, prevedendo la tassazione dei “redditi corrisposti” a residenti italiani da taluni trust opachi esteri.
Nonostante le nuove disposizioni siano volte a “(…) risolvere problematiche di carattere interpretativo” (così la Relazione illustrativa al Decreto), la loro collocazione nel capo del D.L. n. 124/2019 dedicato alle “Misure di contrasto all’evasione fiscale e contributiva ed alle frodi fiscali” è – probabilmente – infelice e potrebbe risentire del fatto che negli ultimi tempi i trust, soprattutto se non fiscalmente residenti in Italia, sono stati oggetto di specifica attenzione da parte dell’Agenzia delle entrate che, in taluni casi, si è limitata ad evidenziarne l’utilizzo improprio e, dunque, la visione patologica[2].
In quest’ambito, il presente lavoro intende fornire un quadro di prima lettura delle recenti disposizioni normative.
1. Trust trasparenti e trust opachi
In via preliminare, non è forse inopportuno rammentare che con la Legge Finanziaria per il 2007 (legge 27 dicembre 2006, n. 296), è stato riconosciuto all’interno dell’ordinamento tributario italiano l’istituto del trust, riconducendo tra i soggetti passivi ai fini I.R.E.S. ex art. 73 del T.U.I.R., sia “i trust, residenti nel territorio dello Stato” sia “i trust, con o senza personalità giuridica, non residenti nel territorio dello Stato”[3]. Con il comma 2 del medesimo art. 73, sono state poi individuate sostanzialmente due principali tipologie di trust, cui corrispondono due differenti regimi impositivi; in particolare:
- trust con beneficiari di reddito individuati (c.d. trust trasparenti[4]), i cui redditi sono imputati per trasparenza ai beneficiari stessi (a prescindere dall’effettiva percezione ed in proporzione alle quote di interessenza) quali redditi di capitale di cui all’art. 44, comma 1, lett- g-sexies) del TUIR ed assoggettati a tassazione in capo agli stessi secondo il regime ordinario IRPEF. Le effettive distribuzioni del trust ai beneficiari rimangono una mera movimentazione finanziaria, non scontando quindi alcuna tassazione[5];
- trust senza beneficiari di reddito individuati, i cui redditi vengono direttamente attribuiti al trust medesimo (c.d. trust opachi).
2. Il regime previgente delle distribuzioni dei trust opachi esteri
Il trattamento fiscale delle distribuzioni da parte di trust opachi – soprattutto se non residenti – è sempre stato circondato da un clima di incertezza interpretativa.
L’Agenzia delle entrate, nella Circolare n. 61/E del 27 dicembre 2010, con riguardo alla previsione normativa di cui all’art. 44, comma 1, lett. g-sexies) del T.U.I.R. – secondo cui costituiscono redditi di capitale “i redditi imputati al beneficiario di trust ai sensi dell’articolo 73, comma 2, anche se non residenti” –, ha innanzitutto precisato che l’espressione “anche se non residenti” va riferita al trust e non ai beneficiari. Conseguentemente, ad avviso dell’Agenzia delle entrate, “il reddito imputato dal trust a beneficiari residenti è imponibile in Italia in capo a questi ultimi quale reddito di capitale, a prescindere dalla circostanza che il trust sia o meno residente in Italia e che il reddito sia stato prodotto o meno nel territorio dello Stato”[6].
Inoltre, la stessa disposizione sarebbe applicabile, secondo l’Agenzia delle entrate, anche ai trust esteri opachi – soprattutto se costituiti in giurisdizioni straniere a regime fiscale privilegiato – ove viene affermato che “alla tassazione ridotta in capo al trust corrisponderebbe, comunque, l’imposizione in capo al beneficiario residente secondo il regime del più volte citato articolo 44, comma 1, lettera g-sexies), del TUIR”.
L’interpretazione della Circolare n. 61/E (a quanto risulta, ribadita anche in talune più recenti risposte ad interpelli non pubblicate), non trovava alcun riscontro nel dettato normativo dell’art. 44, comma 1, lett. g-sexies) del TUIR, in quanto quest’ultima disposizione riguardava chiaramente solo i trust – sia residenti sia non residenti – “trasparenti”, ossia con beneficiari “individuati” residenti in Italia e non anche quelli “opachi”.
Questa presa di posizione dell’Amministrazione finanziaria pareva più che altro dettata da meri motivi di cautela fiscale nei confronti dei trust opachi costituiti in Paesi black list [7]. La stessa è stata infatti ampiamente analizzata e criticata dalla dottrina specialistica, la quale ha evidenziato che le attribuzioni (in denaro o in natura) erogate da un trust opaco (a prescindere dalla sua residenza o meno in Italia) non sono tassabili in capo ai beneficiari, posto che non rientrano in alcuna delle categorie di reddito di cui all’art. 6 del T.U.I.R.[8].
Quanto sopra rappresentato pare, tra l’altro, confermato dalla Relazione illustrativa al D.L. n. 124/2019, secondo cui, “Stante il riferimento letterale ai “redditi imputati”, le attuali disposizioni fiscali in materia di imposte dirette possono essere riferite sicuramente anche ai “beneficiari individuati” di trust esteri “trasparenti” mentre è più difficile ricomprendere nell’ambito di applicazione delle stesse i trust “opachi” esteri (vale a dire trust i cui eventuali beneficiari possono ricevere il reddito, o parte del reddito, del trust solo a seguito di una scelta discrezionale operata dal trustee)”.
3. La nuova tassazione dei beneficiari di trust esteri opachi
In questo quadro normativo interviene l’art. 13 del D.L. n. 124/2019, il quale, modificando l’art. 44, comma 1, lett. g-sexies) del TUIR, introduce nel novero dei redditi di capitale “i redditi corrisposti a residenti italiani da trust e istituti aventi analogo contenuto stabiliti in Stati e territori che con riferimento al trattamento dei redditi prodotti dal trust si considerano a fiscalità privilegiata ai sensi dell’articolo 47-bis, anche qualora i percipienti residenti non possono essere considerati beneficiari individuati ai sensi dell’articolo 73”.
La nuova disposizione prevede, in capo ai beneficiari residenti nel territorio dello Stato, la tassazione – quali redditi di capitale che concorrono alla formazione del reddito imponibile del contribuente secondo le aliquote progressive IRPEF – delle somme o dei valori attribuiti da trust e “istituti aventi analogo contenuto” (è il caso, ad esempio, delle Stiftung[9])opachi non residenti in Italia e stabiliti in Stati a regime fiscale privilegiato.
Innanzitutto, costituiscono redditi di capitale imponibili ex art. 44, comma 1, lett. g-sexies) del TUIR le attribuzioni (in denaro o in natura) che si qualificano quali utilità prodotte e realizzate sotto la gestione del trustee, non rilevando, a questi fini, la distinzione tra “income” e “capital” tipica della prassi contabile anglosassone in materia di trust [10]. A tale riguardo, il nuovo art. 45, comma 4-quater) introduce, inoltre, una presunzione secondo cui “l’intero ammontare percepito costituisce reddito” qualora “non sia possibile distinguere tra redditi e patrimonio”.
4. I trust esteri e i regimi a fiscalità privilegiata
Le fattispecie che possono rientrare nel perimetro applicativo delle nuove disposizioni sono quelle – e solo quelle – che interessano i trust opachi “stabiliti in Stati e territori che con riferimento al trattamento dei redditi prodotti dal trust si considerano a fiscalità privilegiata ai sensi dell’articolo 47-bis” del TUIR[11]. Ed è proprio l’individuazione di tali trust, a nostro avviso, a suscitare i maggiori dubbi interpretativi. Ma vediamo perché.
Occorre in primo luogo comprendere se, come pare, con la locuzione “stabiliti” il legislatore abbia voluto riferirsi al luogo in cui il trust abbia “formalmente” fissato la residenza, che, di regola coincide con il luogo di residenza del trustee (lasciando peraltro aperto il tema in caso di presenza di più co-trustees localizzati in giurisdizioni differenti [12]).
Inoltre, il campo di applicazione della nuova disciplina viene delimitato dal riferimento all’art. 47-bis del TUIR, che, come noto, ha introdotto un differente requisito per l’individuazione dei Paesi a fiscalità privilegiata diversi da quelli appartenenti all’Unione Europea ovvero da quelli aderenti allo Spazio economico europeo, facendo riferimento al livello di tassazione effettivo (comma 1, lett. a)) o a quello nominale (comma 1, lett. b)), a seconda che la partecipazione societaria sia o non sia di controllo, secondo la stessa nozione valevole ai fini della disciplina CFC di cui all’art. 167 del TUIR.
In quest’ambito, occorrerebbe approfondire come se ed in che misura la disciplina di cui al citato art. 47-bis sia compatibile con l’istituto del trust. Ed invero:
- il richiamo all’art. 47-bis – che individua esclusivamente i regimi fiscali privilegiati di “Stati o territori, diversi da quelli appartenenti all’Unione europea ovvero da quelli aderenti allo Spazio economico europeo” – , parrebbe – prima facie – escludere i trust stabiliti negli Stati UE/SEE; ed invero, anche una interpretazione volta a considerare che il riferimento all’art. 47-bis sia esclusivamente rivolto alle aliquote (nominale od effettiva) di tassazione e non anche ad escludere gli Stati UE/SEE, potrebbe porre comunque un tema di compatibilità con i princìpi fondamentali del diritto comunitario (laddove gli stessi siano applicabili anche ai trust [13]);
- sebbene il D.lgs. 29 novembre 2018, n. 142 abbia ampliato la nozione di controllo valevole ai fini della disciplina CFC e, quindi, dell’art. 47-bis – affiancando alla nozione di controllo civilistico una definizione alternativa, legata al possesso di una partecipazione agli utili del soggetto estero superiore al 50% -, è ragionevole ritenere che, nei fatti, il test per l’individuazione del regime fiscale privilegiato dovrebbe essere basato esclusivamente sul criterio residuale di cui alla lett. b) del comma 1 dell’art. 47-bis, rappresentato dal confronto tra la aliquota nominale estera e il 50% dell’aliquota nominale italiana;
- in ogni caso, il confronto nominale tra il tax rate estero con quello interno potrebbe presentarsi tutt’altro che agevole, anche in considerazione del fatto che i trust potrebbero essere fiscalmente trasparenti nella giurisdizione in cui sono istituiti e che, in ogni caso, il tax rate nominale deve essere determinato tenendo conto “anche di regimi speciali che non siano applicabili strutturalmente alla generalità dei soggetti svolgenti analoga attività dell’impresa o dell’ente partecipato, che risultino fruibili soltanto in funzione delle specifiche caratteristiche soggettive o temporali del beneficiario e che, pur non incidendo direttamente sull’aliquota, prevedano esenzioni o altre riduzioni della base imponibile idonee a ridurre il prelievo nominale al di sotto del predetto limite”[14].
Alla luce di quanto sopra rappresentato, una precisazione ci pare importante: ad avviso di chi scrive, la nuova fattispecie di reddito di capitale introdotta dall’art. 13 del D.L. n. 124/2019 conferma implicitamente che le distribuzioni effettuate da trust opachi non residenti, diversi da quelli stabiliti in Stati “a fiscalità privilegiata ai sensi dell’art. 47-bis” del T.U.I.R., non sono tassabili in capo ai beneficiari. Sicché, ove la scelta legislativa fosse volta ad escludere la tassazione dei trust stabiliti negli Stati UE/SEE (si pensi, ad esempio, ai trust e istituti analoghi stabiliti in Lussemburgo, Malta e Liechtenstein), occorrerà, viceversa, approfondire se ed in che misura potranno essere destinatari della nuova disciplina quei trust stabiliti in Paesi tipicamente non considerati black list: è il caso, ad esempio, dei trust istituiti in Nuova Zelanda, negli Stati Uniti d’America o nel Regno Unito (in ipotesi di uscita dalla UE).
5. L’entrata in vigore delle nuove disposizioni
Infine, il D.L. n. 124/2019 non regola espressamente l’entrata in vigore delle nuove disposizioni di cui all’art. 13.
Sul punto, è ragionevole ritenere – nonostante il passaggio della Relazione illustrativa al decreto secondo cui la disposizione “intende risolvere problematiche di carattere interpretativo e operativo” -, che le nuove disposizioni abbiano carattere innovativo e non natura interpretativa (e, quindi, retroattiva), trovando così applicazione con riferimento alle distribuzioni di reddito effettuate da trust opachi esteri a decorrere al periodo d’imposta 2020, secondo quanto disposto dallo Statuto dei diritti del contribuente (Legge 27 luglio 2000, n. 212[15]).
Ove così fosse, l’art. 13 del D.L. n. 124/2019 rappresenterebbe una conferma dell’intassabilità delle distribuzioni fino ad oggi avvenute in capo ai beneficiari residenti (con la possibilità, ove questi ultimi si fossero conformati all’interpretazione resa dall’Amministrazione finanziaria con la Circolare n. 61/E di valutare l’eventuale presentazione di istanze di rimborso delle imposte pagate).
[1] Il decreto è stato pubblicato nella G.U. del 26 ottobre 2019, n. 252 e al momento di pubblicazione del presente contributo non è ancora stato convertito in legge.
[2] Cfr. Circolare dell’Agenzia delle entrate n. 61/E del 27 dicembre 2010.
[3] Secondo l’Amministrazione finanziaria (cfr. la circolare dell’Agenzia delle Entrate del 6 agosto 2007, n. 48/E, par. 6) le modifiche alla soggettività passiva del trust avrebbero una valenza meramente ricognitiva, “posto che già prima delle disposizioni in esame i trust erano considerati soggetti IRPEG (e poi IRES) quali enti, commerciali o non commerciali, ai sensi dell’art. 73, comma 2, del TUIR”, riconducendoli tra le “altre organizzazioni non appartenenti ad altri soggetti passivi, nei confronti delle quali il presupposto dell’imposta si verifica in modo unitario ed autonomo”. In quest’ambito, si veda la recente Risposta ad interpello dell’Agenzia delle entrate n. 381 del 2019 ove è stato precisato che “Affinché un trust possa essere qualificato soggetto passivo ai fini delle imposte sui redditi costituisce elemento essenziale l’effettivo potere del trustee di amministrare e disporre dei beni a lui affidati dal disponente”. Per approfondimenti in merito al tema della soggettività passiva IRES del trust (nonché alla valenza ricognitiva ovvero innovativa delle disposizioni in parola), ci sia consentito rinviare a S. MASSAROTTO, M. ALTOMARE, Il monitoraggio fiscale degli investimenti all’estero e delle attività estere di natura finanziaria, AA. VV., Temi di fiscalità nazionale ed internazionale, Cedam, 2014, pagg. 833 e segg..
[4] Sul punto si vedano, più diffusamente, le Circolari dell’Agenzia delle Entrate del 6 agosto 2007, n. 48/E e del 1 agosto 2011, n. 38/E ove l’Amministrazione finanziaria, ai fini delle imposte sui redditi, ha definito il trust trasparente come l’istituto “(…) i cui redditi vengono imputati per trasparenza ai beneficiari stessi (ossia ai beneficiari individuati, n.d.a.)” specificando ulteriormente che “(…) per “beneficiario individuato” deve intendersi il beneficiario “di reddito individuato”, ovvero il soggetto che sia puntualmente individuato e che “risulti titolare del diritto di pretendere dal trustee l’assegnazione di quella parte di reddito che gli viene imputata per trasparenza” precisando, a tal proposito che il reddito di cui si discute “sia immediatamente e originariamente riferibile ai beneficiari”. Inoltre, specificando i casi in cui la titolarità del reddito sia configurabile ab origine in capo ad un beneficiario puntualmente individuato (o a beneficiari puntualmente individuati) del diritto all’assegnazione del reddito dei beni in trust, l’Amministrazione ha precisato: “è necessario:
a) che il beneficiario sia puntualmente individuato;
b) che al beneficiario venga riconosciuta la titolarità di una situazione giuridica soggettiva comportante il diritto a pretendere l’assegnazione del reddito prodotto dai beni facenti parte del trust;
c) che il diritto a pretendere l’assegnazione del reddito prodotto dai beni in trust sia conferito al beneficiario anteriormente alla produzione del reddito stesso in quanto solo in tal caso è possibile ravvisare, sin dall’origine, la riferibilità al beneficiario medesimo del reddito e, quindi, il possesso di detto reddito in capo al beneficiario;
d) che l’esistenza di beneficiari individuati risulti da una espressa, inequivoca e adeguatamente documentata manifestazione di volontà, intervenuta anteriormente alla produzione del reddito realizzato dal trust e diretta ad individuare uno o più beneficiari ed a riconoscere ai medesimi il diritto a pretendere l’attribuzione del predetto reddito”.
[5] Cfr. Circolare n. 48/E, cit., par. 4.
[6] Non è questa la sede per una analisi critica di tale interpretazione che – con l’imputazione ai beneficiari individuati non solo dei redditi di fonte italiana, ma altresì di quelli prodotti all’estero dal trust residente all’estero – parrebbe in contrasto con i criteri di territorialità previsti dall’ordinamento.
[7] Che questa fosse la ratio pare confermato dalla stessa Agenzia delle entrate che, nel medesimo documento di prassi ha precisato che “tale regime evita il conseguimento di indebiti risparmi di imposta che potrebbero essere conseguiti, ad esempio, nell’ipotesi di trust opachi costituiti in giurisdizioni straniere a regime fiscale agevolato”.
[8] Per un’analisi critica delle posizioni espresse dall’Amministrazione finanziaria si veda, tra gli altri, A. Contrino, Recenti indirizzi interpretativi sul regime fiscale di trust trasparenti, interposti e transnazionali: osservazioni critiche, Riv. Dir. Trib., n. 6/2011, pag. 317; D. Stevanato, “Stretta” dell’Agenzia delle entrate sulla fiscalità dei trust: a rischio un sereno sviluppo dell’istituto?, Corr. Trib., n. 7/2011, pag. 537.
[9] In merito a quest’ultima locuzione giova richiamare quanto evidenziato dall’Amministrazione Finanziaria nella Circolare n. 48/E, par. 3.1. secondo cui: “Si è voluto in questo modo tenere conto della possibilità che ordinamenti stranieri disciplinino istituti analoghi al trust ma assegnino loro un “nomen iuris” diverso. Per individuare quali siano gli istituti aventi analogo contenuto si deve far riferimento agli elementi essenziali e caratterizzanti dell’istituto del trust”.
[10] In merito alla nozione di reddito e quella di capitale secondo la prassi anglosassone in materia di trust, cfr. STEP, Accounting Guidelines, 3rd Edition (2018).
[11] Quanto ai trust trasparenti, l’Amministrazione finanziaria pare tutt’ora dell’avviso che debbano essere imputati ai beneficiari residenti anche i redditi prodotti all’estero dal trust residente all’estero, sebbene – come già detto – tale interpretazione risulti in contrasto con le regole di territorialità codificate dalle nostre disposizioni normative. Cfr. l’Audizione del Direttore dell’Agenzia delle entrate in data 6 novembre 2019 presso la Camera dei deputati, VI Commissione Finanze e Tesoro.
[12] Cfr. la Circolare n. 48/E, cit., par. 3.1., la quale, nell’ambito dei chiarimenti relativi alla presunzione di residenza di cui all’art. 73, comma 3 del TUIR, ha precisato che il termine “istituito” (che dovrebbe rappresentare un sinonimo di “stabilito”) si riferisce al luogo in cui il trust ha “formalmente fissato la residenza”.
[13] Cfr. Corte UE C- 646/15, trust Panayi.
[14] Ragioni di economia espositiva non ci consentono di approfondire il tema della eventuale applicabilità ai trust esteri dei princìpi espressi all’Amministrazione finanziaria – in tema di determinazione del tax rate estero e di spettanza del credito di imposta – con riferimento alle società di persone estere. Cfr. sul punto, S. Mayr, Partecipazioni in società di persone estere: il credito d’imposta secondo la circolare n. 9/E del 5 marzo 2015, Boll. Trib., n. 5/2015, pag. 325 e segg.
[15] Come emerge inoltre dai lavori parlamentari in sede di conversione del decreto legge in esame (AC 2220), gli effetti sui saldi di finanza pubblica sono determinati esclusivamente a partire dal 2020.