Cassazione Civile, Sez. II, 6 agosto 2019, n. 21017 – Pres. Petitti, Rel. Giusti
Introduzione
I fenomeni giuridici che orbitano attorno alla disciplina del procedimento sanzionatorio sono molteplici e danno luogo a innumerevoli implicazioni e nodi concettuali. Essi riguardano sia tematiche di natura procedimentale sia aspetti di diritto sostanziale. Con riferimento ai primi, la sentenza in commento pare confermare l’oramai consolidato orientamento nazionale e internazionale, proponendo una soluzione che trova il suo – ancora insoddisfacente – equilibrio nella distinzione tra garanzie giurisdizionali e garanzie procedimentali. Volgendo l’attenzione ai secondi, invece, saltano subito all’occhio le nuove statuizioni della Corte di Cassazione riguardanti la disciplina e la regolamentazione dei conflitti di interesse.
In termini generali, la pronuncia dei giudici di legittimità, in quasi tutti i capi di cui la stessa si compone, articola in modo chiaro e sostanzialmente condivisibile i motivi del rigetto. Tuttavia, sono riscontrabili due specifiche questioni concernenti il secondo e il settimo motivo di impugnazione dove, nel rigettare i motivi di impugnazione, la sentenza appare non condivisibile (il secondo motivo) o quanto meno sbrigativa nello spiegare i motivi del rigetto (il settimo motivo di impugnazione).
L’attenzione degli scriventi si è poi concentrata sul quinto motivo di impugnazione, il quale tratta di una tematica – quella dei conflitti di interesse nella gestione collettiva del risparmio – che per la prima volta viene posta all’attenzione dei giudici ermellini.
Fatto
La vertenza principia dall’emanazione di un provvedimento sanzionatorio (delibera Consob del 23 settembre 2015) con cui l’Autorità applicava la sanzione di euro 25.000 nei confronti del dott. T.A. per violazione dell’art. 40, comma 1, lett. b) del TUF, con specifico riguardo alla disciplina e regolamentazione dei conflitti di interesse della SGR A, violazione accertata dagli ispettori della Banca d’Italia nell’ambito delle verifiche avvenute tra il 30 settembre 2013 e il 4 dicembre 2013.
Il dott. T.A. proponeva ricorso presso la Corte d’Appello di Milano, chiedendo l’annullamento del provvedimento sanzionatorio e lamentando l’iniquità del procedimento in virtù della violazione del diritto di difesa e della riconducibilità delle funzioni istruttoria e decisoria; (ii) violazione del termine per la conclusione del procedimento sanzionatorio; (iii) impossibilità per la Consob di applicare la sanzione sulla base degli accertamenti ispettivi della Banca d’Italia; (iv) mancanza di una sua responsabilità per la violazione in esame; (v) mancata individuazione delle condotte che avrebbero integrato le violazioni ravvisate; nonché (vi) erroneo computo del quantum della sanzione.
L’adita Corte d’Appello di Milano, con sentenza depositata in data 27 giugno 2016, ha rigettato l’opposizione.
Successivamente, in data 27 gennaio 2017, T.A. proponeva ricorso per la cassazione della sentenza della Corte d’Appello di Milano, sulla base, inter alia, dei seguenti motivi:
secondo motivo – violazione e falsa applicazione dell’art. 4 del regolamento adottato dalla Consob con Delibera 18750 del 2013 e successive modifiche ed integrazioni ai sensi della L. 262 del 2005, art. 24, nella parte in cui fissa la durata del procedimento sanzionatorio in 200 giorni decorrenti dal trentesimo giorno successivo alla data di perfezionamento della notificazione della lettera di contestazione degli addebiti, della L. n. 689 del 1981, della L. n. 241 del 1990, degli artt. 24 e 97 Cost.;
quinto motivo – violazione dell’art. 112 e 132, co. 2, n. 4) c.p.c. per mancata indicazione delle ragioni per le quali le iniziative assunte e le attività poste in essere dall’odierno ricorrente, analiticamente descritte nell’opposizione, non potessero escluderne la responsabilità, anche sotto il profilo soggettivo;
settimo motivo – violazione dell’art. 112 c.p.c. per omessa pronuncia sul quinto motivo dell’opposizione proposta con il quale il ricorrente ha lamentato la riconducibilità dei precetti asseritamente violati alle condotte addebitate nonché l’inammissibilità della configurabilità di plurime fattispecie sanzionatorie (o l’irrogazione di plurime sanzioni) per la medesima condotta.
La Consob resisteva con controricorso.
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso dichiarando infondati tutti i motivi proposti da T.A.
Nota
I. Procedendo con ordine, si rileva che, nel secondo motivo di impugnazione, il ricorrente aveva denunciato la violazione e la falsa applicazione dell’art. 4 del Regolamento adottato dalla CONSOB con delibera n. 18750 del 2013, ai sensi dell’art. 24 della Legge n. 262 del 2005.
In particolare, il richiamato art. 4, al comma 1, prevede il termine di avvio del procedimento (contestazione degli addebiti) in 180 giorni dalla data dell’accertamento della violazione e al comma 2 contempla il termine di conclusione del procedimento in 200 giorni, decorrenti dal 30° giorno successivo alla data di perfezionamento della notificazione della lettera di contestazione degli addebiti.
Il provvedimento sanzionatorio era stato notificato dopo alcuni mesi dalla scadenza del termine suddetto dei 200 giorni.
I.1. La Corte di Cassazione motiva il rigetto della doglianza, affermando che: “In tema di sanzioni amministrative, il procedimento preordinato alla loro irrogazione sfugge all’ambito di applicazione della legge 241/1990, in quanto, per la sua natura sanzionatoria, è compiutamente retto dai principi sanciti dalla legge n. 689 del 1981; ne consegue che non assume alcuna rilevanza il termine di duecento giorni per la conclusione del procedimento di cui all’art. 4 del regolamento Consob 18750 del 2013, attesa l’inidoneità di un regolamento interno emesso nell’erroneo convincimento di dover regolare i tempi del procedimento ai sensi della Legge 241 del 1990 a modificare le disposizioni della Legge 689 del 1981 (Cass. Sez. II, 4 marzo 2015, n. 4363; Cass. Sez. II, 8 ottobre 2018, n. 24692; Cass. Sez. II, 7 novembre 2018, n. 28410)”
Due i punti salienti della descritta motivazione, frutto tra l’altro di una posizione della Corte che risulta essersi ormai consolidata nel corso degli anni. Il primo è l’affermazione secondo la quale il procedimento sanzionatorio è “compiutamente retto dai principi sanciti dalla legge 689/81”, e il secondo, quale conseguenza del primo, “non assume alcuna rilevanza il termine di duecento giorni […]attesa l’inidoneità di un regolamento interno emesso nell’erroneo convincimento di dover regolare i tempi del procedimento ai sensi della Legge 241 del 1990”.
In realtà, la posizione della Cassazione è più articolata di quanto espresso in motivazione. Occorre pertanto procedere a un’operazione preliminare di ricostruzione – attraverso l’esame di altre pronunce della Corte – del complessivo percorso che porta i giudici di legittimità della II Sezione a formulare le due affermazioni conclusive e, al tempo stesso, a nostro giudizio, non solo eccessivamente sintetiche ma anche non condivisibili.
È opportuno tenere conto, innanzitutto, della sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 9591 del 27 aprile 2006, che, nel comporre un contrasto giurisprudenziale formatosi nel corso degli anni sul punto specifico, ha accolto la tesi maggioritaria, formulando in sostanza due ragioni che sorreggono la tesi dell’irrilevanza del termine fissato dall’autorità procedente.
Innanzitutto, il contrasto tra la legge 689/81 e la legge 241/90, e quindi l’applicabilità esclusiva della prima a scapito della seconda, andrebbe risolto sulla base del principio di specialità, benché la legge 241/90 sia successiva e connotata dal carattere della “universalità”.
Per il principio di specialità, che prescinde dalla successione cronologica delle norme, quelle posteriori non comportano la caducazione delle precedenti, che disciplinano diversamente la stessa materia in un campo particolare. In tale rapporto si porrebbero la Legge 241/90 e la Legge 689/81, riguardanti l’una i procedimenti amministrativi in genere, l’altra, in ispecie, quelli finalizzati all’irrogazione delle sanzioni amministrative, caratterizzati da questa loro funzione del tutto peculiare, che richiede una distinta disciplina.
Il secondo motivo su cui si basa la posizione delle Sezioni Unite è che le disposizioni della Legge 689/81 costituirebbero un “sistema organico e compiuto”, nel quale non occorrerebbero inserimenti dall’esterno. “Un tale innesto non è comunque praticabile, in particolare, relativamente all’art. 2 – III comma L. 7 agosto 1990, n. 241, che stabilisce il termine entro il quale il procedimento amministrativo deve essere concluso, ove non ne sia fissato uno diverso per legge o regolamento. Sia quello di novanta giorni, ora previsto dalla norma come modificata da ultimo dall’art. 36 bis D.L. 14 marzo 2005, n. 35, convertito con L. 14 maggio 2005, n. 80, sia quello di trenta giorni, indicato nel testo originario, applicabile nella specie ratione temporis, sono incompatibili con le disposizioni della L. 24 novembre 1981, n. 689, che delineano un procedimento di carattere sostanzialmente contenzioso, scandito in fasi i cui tempi sono regolati, nell’interessedell’incolpato, in modo da non consentire il rispetto di termini tanto brevi da parte dell’amministrazione: la contestazione, se non è stata effettuata immediatamente, può avvenire fino a novanta giorni dall’accertamento per i residenti in Italia e fino a trecentosessanta per i residenti all’estero (art. 14); se ne viene fatta richiesta entro ulteriori quindici giorni, deve poi provvedersi alla revisione delle analisi eventualmente compiute (art. 15); nei successivi sessanta giorni è ammesso il pagamento in misura ridotta (art. 16); se questo non avviene, viene trasmesso il rapporto all’autorità competente (art. 17); ad essa gli interessati possono far pervenire scritti difensivi e documenti, nonché prospettare argomenti, dei quali si deve tenere conto nel provvedere (art. 18)”.
Ne consegue, secondo le Sezioni Unite, che, in assenza di un termine finale, resta salva la necessità che la pretesa sanzionatoria venga fatta valere entro il termine di prescrizione di cinque anni dalla commissione della violazione, stabilito dall’art. 28 della Legge 689/81. Termine, quest’ultimo, che – secondo i giudici di legittimità – non avrebbe natura procedimentale, ma sostanziale, poiché il suo inutile decorso comporta l’estinzione del diritto alla riscossione della sanzione.
A ben vedere v’è un terzo pilastro, che si è formato nel corso del tempo, diretto a motivare l’irrilevanza del termine, che è stato espresso con maggiore chiarezza nella sentenza n. 24692 dell’8 ottobre 2018, richiamata in motivazione dalla II Sezione della Cassazione nella pronuncia in commento.In particolare, in essa ([1]) si afferma che: “l’inosservanza del termine di conclusione del procedimento di applicazione delle sanzioni amministrative non comporta l’illegittimità del provvedimento finale, trattandosi di vizio che – in relazione al contenuto vincolato del provvedimento medesimo – non influisce sul diritto di difesa. Proprio in materia di sanzioni amministrative bancarie si è peraltro puntualizzato che la eventuale inosservanza del termine previsto dalla disposizione legislativa e da quelle regolamentari non comporta la invalidità del provvedimento sanzionatorio, ai sensi della Legge 241 del 1990, art. 21 octies” ([2]).
In estrema sintesi, la posizione della Corte, a questo punto consolidatasi nel corso degli anni, è riassumibile nel seguente iter argomentativo:
- l’unica legge che disciplina i procedimenti per l’irrogazione delle sanzioni pecuniarie è la Legge 689/81, che non prevede un termine di conclusione del procedimento ma il solo termine prescrizionale dei 5 anni, entro il quale, comunque, dovrà essere emesso il provvedimento sanzionatorio, perché altrimenti il diritto all’esazione si estinguerebbe sul piano sostanziale;
- la legge 241/90, che prevede un termine conclusivo del procedimento amministrativo, non modifica il quadro normativo che regge la materia delle sanzioni pecuniarie, in quanto, in base al principio di specialità, si applica comunque la legge speciale precedente (L. 689/81), che non contempla siffatto termine, e non la legge generale successiva (L. 241/90);
- in ogni caso, e ciò sembra essere a prima vista dirimente, vertendo in materia di sanzioni pecuniarie e, quindi, nell’ambito di attività obbligata (vincolata) delle PP.AA. (ivi comprese le autorità di vigilanza), la violazione del termine procedimentale dei 200 giorni non potrebbe rilevare in virtù delle prescrizioni contenute nell’art. 21-octies della legge 241/90.
I.2. La posizione della Corte di Cassazione appare insoddisfacente e comunque non condivisibile. In realtà, il quadro normativo di riferimento della materia sanzionatoria risulta essere più articolato e complesso, almeno per quanto concerne le Autorità di vigilanza.
Che la Legge 689/81 sia la cornice legislativa di riferimento per tutti i procedimenti sanzionatori delle Pubbliche Amministrazioni, al termine dei quali si irroga una sanzione pecuniaria, è affermazione di cui non si può seriamente dubitare. Ma che essa sia l’unico riferimento normativo, tale da dover disciplinare compiutamente (esclusivamente) il potere/dovere delle Autorità di vigilanza di irrogare sanzioni pecuniarie e di farlo nell’ambito di un procedimento amministrativo di tipo sanzionatorio, questo non è condivisibile per i seguenti motivi.
In primo luogo, la legge 241/90 è la legge generale sul procedimento amministrativo e certamente i principi di cui all’art. 1, comma 1 – economicità, efficacia, imparzialità, pubblicità e trasparenza – rappresentano principi generali ai quali non possono non essere ispirati anche i procedimenti amministrativi sanzionatori delle Autorità di vigilanza. Così come queste ultime non possono non tenere conto anche del comma 2 dell’Art. 1: “La Pubblica Amministrazione non può aggravare il procedimento se non per straordinarie e motivate esigenze imposte dallo svolgimento dell’istruttoria”. Già da tale ultimo punto di vista la fissazione di un termine conclusivo del procedimento sanzionatorio sarebbe quanto meno opportuno per non mortificare – gravandola ingiustificatamente – l’aspettativa del destinatario della contestazione di conoscere entro un termine ragionevole([3]) l’esito della contestazione, senza attendere il realizzarsi della prescrizione del diritto all’esazione.
In secondo luogo, il principio di specialità, invocato dalla Cassazione, in base al quale sarebbe applicabile esclusivamente la Legge 689/81 e non anche la Legge 241/90, suscita qualche perplessità. Infatti, sebbene la legge 689/81 nella materia sanzionatoria si possa caratterizzare – in linea di principio – come speciale, rispetto alla legge 241/90, non lo è per tutta la materia in questione. Anzi, proprio con riferimento alla disciplina del procedimento amministrativo di irrogazione della sanzione, tra le due leggi non ricorre – a rigore – quel rapporto di genere a specie nel quale la disciplina speciale (689/81) contiene tutti gli elementi della disciplina generale (241/90), oltre ad alcuni elementi specifici che la dovrebbero caratterizzare come legge speciale, di modo che, laddove non esistesse la prima, si dovrebbe applicare la seconda.
In altri termini, sarebbe stato più coerente richiamare il principio di specialità, qualora la legge 689/81 avesse previsto una specifica disciplina del procedimento amministrativo sanzionatorio in quanto tale (ed eventualmente anche un termine finale del procedimento diverso rispetto a quello generale della Legge 241/90). Infatti, tra le due leggi, sia per origine storica, sia per previsioni normative – l’una disciplina l’applicazione delle sanzioni pecuniarie a illeciti depenalizzati ([4]) e il cui accertamento è celere o comunque non complesso, senza alcuna pretesa di completezza rispetto alle regole del procedimento amministrativo sanzionatorio in quanto tale, l’altra prevede le regole del procedimento amministrativo in generale, con pretesa invece di completezza – esiste piuttosto un rapporto diverso, di “reciproca integrazione” o se si preferisce di “specialità reciproca”.
Ciò ci induce a parlare di opportuna e necessaria armonizzazione tra le due leggi piuttosto che di una obbligata prevalenza dell’una (Legge 689/81) sull’altra (Legge 241/90).La Legge 689/81, come già osservato, rappresenta la cornice generale della materia sanzionatoria ma non di quella procedimentale, alla quale è invece preposta la legge 241/90. Ben può quest’ultima, proprio perché generale e successiva, introdurre un termine finale del procedimento amministrativo sanzionatorio (ovvero delegare alle autorità amministrative tale potere di previsione), completando, quindi, la disciplina delle sanzioni pecuniarie, sotto il profilo procedimentale.
In terzo luogo, la stessa affermazione delle Sezioni Unite del 2006 – secondo la quale la legge 689/81 non potrebbe essere integrata, avendo riguardo a un procedimento dal “carattere sostanzialmente contenzioso, scandito in fasi i cui tempi sono regolati, nell’interesse dell’incolpato”, quasi che per la Corte di Cassazione rilevi il solo diritto di difesa dell’incolpato e non anche il generale principio di ragionevolezza della durata dei procedimenti amministrativi- appare non condivisibile, poiché proprio la previsione di un termine finale del procedimento, una volta conclusa l’istruttoria, che sia rispettoso dei principi di efficacia, economicità, trasparenza e di non aggravamento del procedimento, in una parola ispirato al principio di ragionevolezza, non può che essere previsto anch’esso a favore dell’incolpato. Quest’ultimo non può essere lasciato nell’incertezza (entro il termine di prescrizione quinquennale) dell’esito del procedimento, che lo ha visto destinatario di una formale contestazione. È evidente che l’origine storica della Legge 689/81 condiziona negativamente il corretto inquadramento della fattispecie all’interno del concetto di procedimento amministrativo.
In quarto luogo, la sentenza delle Sezioni Unite del 2006, che ricordiamo non aveva ad oggetto i procedimenti sanzionatori delle autorità, per i quali è previsto un termine di chiusura del procedimento in via regolamentare, nell’escludere l’applicabilità del termine generale della legge 241/90, aveva sostenuto l’applicabilità della Legge 689/81 solo “ove non ne sia fissato uno diverso per legge o regolamento” (cfr. supra), sembrando con ciò ammettere, nell’ambito della regola juris dettata, l’applicabilità di un termine finale previsto in via regolamentare dalle Autorità ([5]).
In quinto luogo, l’art. 2, comma 5 della stessa legge 241/90 prevede che “fatto salvo quanto previsto da specifiche disposizioni normative ([6]), le autorità di garanzia e di vigilanza [c.d. Autorità Indipendenti]disciplinano, in conformità ai propri ordinamenti, i termini di conclusione dei procedimenti di rispettiva competenza”. La richiamata disposizione va letta in relazione alla circostanza, già evidenziata, che il predetto Regolamento della CONSOB è emanato ai sensi dell’art. 24 della Legge 262 del 28 dicembre 2005 e successive modifiche e integrazioni ([7])([8]). Quest’ultimo articolo delega le Autorità di Vigilanza di settore a emanare regolamenti anche in materia di procedimenti sanzionatori. Ne consegue che la predetta Legge 262/2005 presuppone (riconosce) l’esistenza di un potere normativo delle Autorità di vigilanza in materia di procedimenti sanzionatori ([9]). Se ciò è vero, allora, una volta rispettati i principi della legge delega, non si vede perché le Autorità di vigilanza non possano emanare regolamenti aventi efficacia nell’ordinamento settoriale al quale esse stesse attendono (aventi quindi efficacia esterna e non meramente interna). Inoltre, esse, nell’emanare i regolamenti della specie disciplinano la propria discrezionalità procedimentale e non possono che farlo anche ricorrendo ai principi della legge 241/90 (unica legge generale in materia), che prevede la fissazione di un termine finale di tutti i procedimenti amministrativi, ivi compresi quelli di natura sanzionatoria.
Ne consegue, altresì, che nel quadro complessivo che regola i procedimenti sanzionatori sono presenti non solo fonti normative primarie (Legge 689/81, Legge 262/2005, Legge 241/90) ma anche secondarie (Regolamenti delle Autorità).
Peraltro, il termine – conclusivo del procedimento – previsto da un regolamento delle autorità di vigilanza comunque non risulterebbe in contrasto con la menzionata “cornice” legislativa generale e primaria della Legge 689/81 ([10]).
In sesto luogo, conferma indiretta della valenza esterna (e non meramente interna) del Regolamento CONSOB, così come per l’omologo Regolamento della Banca d’Italia, è data dal d.lgs. n. 72/2015 che, addirittura, affida all’emanazione di tali Regolamenti, l’efficacia delle novità legislative introdotte nel TUB e nel TUF in applicazione della CRD IV.
In particolare, il regime transitorio dettato dagli articoli 2 e 6 del d.lgs. 72/2015 ha previsto, per il TUB e per il TUF, che: “Le modifiche apportate […] si applicano alle violazioni commesse dopo l’entrata in vigore delle disposizioni adottate dalla Banca d’Italia ai sensi dell’art. 145 – quater del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 (dalla Consob e dalla Banca d’Italia secondo le rispettive competenze ai sensi dell’art. 196 – bis del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58). Alle violazioni commesse prima della data di entrata in vigore delle disposizioni adottate […]continuano ad applicarsi le norme del Titolo VIII del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 (le norme della Parte V del decreto legislativo 24 febbraio 1998 n. 58) vigenti prima della data di entrata in vigore del presente decreto legislativo”.
Come potrebbe un regolamento di tal fatta avere un rilievo solo interno se addirittura l’efficacia della legge è legata all’emanazione e applicazione del medesimo regolamento? ([11]).
A tali argomentazioni, invero, si potrebbe forse opporre che i regolamenti delle autorità vengono in rilievo, al fine della concreta entrata in vigore delle novità legislative del 2015, solo quali circostanze di fatto e che gli stessi non abbiano comunque un effetto innovativo dell’ordinamento giuridico, essendo la legge 689/81 l’unica fonte legislativa che disciplina compiutamente il procedimento sanzionatorio. Tuttavia, alla luce di quanto evidenziato fino ad ora, tale argomento contrario non avrebbe il carattere della robustezza.
I.3. Alla luce di tutto quanto precede, non solo non si condivide l’assunto che la Legge 689/81 sia l’unica fonte legislativa in materia di procedimenti sanzionatori ma neanche che i regolamenti delle autorità su tale specifica questione abbiano efficacia solo interna alle medesime.
Ne consegue che la CONSOB non è incorsa in alcun erroneo convincimento. Anche la Banca d’Italia, sia nella precedente che nella nuova versione della disciplina che regola il procedimento sanzionatorio, richiama i principi dell’art. 1 della Legge 241/90. Peraltro, che questi ultimi siano applicabili anche al procedimento amministrativo sanzionatorio, come già osservato, è circostanza sulla quale nessuno può legittimamente dubitare, traendo origine questi dal combinato disposto costituzionale articoli 3 e 97.
Anzi è proprio il principio della trasparenza, coniugato a quello dell’economicità ed efficacia dell’azione amministrativa (quali espressioni del più generale principio di ragionevolezza dell’azione amministrativa) a richiedere che sia previsto un termine finale (perentorio) per chiudere un procedimento sanzionatorio, senza lasciare il destinatario nell’incertezza, oltre un ragionevole termine dopo che sia stata conclusa l’istruttoria. Un procedimento di tale tipo senza la previsione di un termine finale (perentorio), entro il quale notiziare il destinatario dell’esito finale di archiviazione e/o irrogazione della sanzione, sarebbe quanto meno inefficiente (perché non economico) oltre che poco trasparente.
Invero, la sentenza in esame avrebbe potuto rappresentare l’occasione per approfondire un tema che tocca diversi aspetti, dalla base giuridica del riconoscimento del potere normativo delle cd. Autorità Indipendenti (che è un dato di fatto oltre che di diritto) e le conseguenti problematiche nei rapporti tra fonti del diritto, al diritto di difesa dei destinatari della sanzione, alla consumazione della potestà amministrativa di irrogare sanzioni, etc.
Infatti, uno dei profili più significativi del fenomeno delle Autorità Indipendenti (e fra queste delle Autorità di Vigilanza) è il riconoscimento, da parte dell’ordinamento dello Stato, del potere regolamentare, vale a dire del potere di determinare direttamente le modalità di regolazione del settore al quale le stesse autorità attendono e ciò, sia in relazione alla propria autoorganizzazione, sia con riferimento all’ambito di operatività verso l’esterno (comportamenti che i soggetti vigilati devono osservare), sia pure nel quadro dell’ordinamento settoriale del quale sono Garanti e/o Supervisor, con poteri di regolazione e controllo.
Quanto affermato fino ad ora, tuttavia, non significa che l’applicazione della sanzione pecuniaria sia frutto di esercizio di potere discrezionale. Al riguardo, anzi, si ritiene che l’applicazione della sanzione pecuniaria sia frutto di un preciso obbligo giuridico ([12]), come ritenuto dalla Sentenza in commento. Tuttavia, l’autoregolamentazione della discrezionalità dell’azione amministrativa procedimentale ben può essere rappresentata da scelte discrezionali che entrano in un tessuto normativo che non può non avere rilievo esterno, verso cioè quei soggetti che fanno parte dell’ordinamento settoriale, che forma oggetto di supervisione e controllo da parte dell’autorità che disciplina il procedimento sanzionatorio.
In altri termini, le Autorità ([13]), nel fissare il termine di conclusione del procedimento sanzionatorio con la notifica del relativo provvedimento finale entro un termine certo, non hanno fatto altro che “auto-limitare” la propria discrezionalità amministrativa procedimentale ([14]), attuando, peraltro, un principio di civiltà giuridica, secondo il quale il destinatario di un addebito, una volta conclusa l’istruttoria, non può vedersi esposto, sine die (o meglio per tutto il termine prescrizionale dei 5 anni), alla possibilità di ricevere una sanzione pecuniaria ([15]).
I.4. Una volta rappresentati i motivi in base ai quali si ritiene che al disegno del complessivo quadro normativo della materia sanzionatoria concorre non solo la legge 689/81 ma anche la Legge 241/90 e i regolamenti delle Autorità di vigilanza che disciplinano i procedimenti sanzionatori perché a ciò appositamente delegati dal Legislatore (Legge 262/2005), siamo, finalmente, pervenuti all’ultimo e forse più significativo nodo giuridico che occorre sciogliere.
Secondo la pronuncia dell’ottobre 2018, sopra menzionata, che ha contribuito a chiarire la posizione in commento della Corte, il provvedimento sanzionatorio, emanato oltre il termine di conclusione del procedimento, non sarebbe comunque illegittimo in quanto l’amministrazione è tenuta in via obbligatoria ad emettere la sanzione e, in relazione all’art. 21-octies della legge 241/90, l’eventuale mancata osservanza del termine non determina l’invalidità (la legge parla, più esattamente, di annullabilità) del provvedimento sanzionatorio. Ciò tra l’altro non avrebbe riflessi neanche sull’esercizio del diritto di difesa del destinatario della contestazione.
Su tali aspetti, premesso che si può convenire con la Corte di Cassazione sulla circostanza che il mancato rispetto di un termine conclusivo del procedimento sanzionatorio non incida necessariamente sulle prerogative del diritto di difesa del destinatario della sanzione (ha tuttavia riflessi sul rispetto di altri principi), ciò che non si comprende è perché la Cassazione sostiene, da un lato, che i procedimenti sanzionatori siano disciplinati compiutamente (esclusivamente) dalla legge 689/81 e non dalla legge 241/90, e, dall’altro, precisa in modo (apparentemente) dirimente, sia pure richiamando un’altra sentenza, che, alla luce delle disposizioni di un articolo, il 21-octies previsto dalla citata legge 241/90, il provvedimento emesso, oltre il termine previsto nel Regolamento che disciplina il procedimento sanzionatorio della CONSOB, non può essere considerato invalido.
Ciò posto, delle due l’una, o la legge 241/90 non può essere richiamata perché la materia è regolata compiutamente dalla legge 689/81, o può essere richiamata perché concorre al complessivo quadro giuridico di riferimento, tertium non datur. Non si può cioè invocare o non invocare la legge 241/90 a proprio piacimento. La realtà, quindi, come già osservato, è più complessa. L’intero quadro normativo di riferimento è più ampio e comprende più fonti, sia legislative, sia regolamentari.
In relazione a quanto precede, proprio in quanto riteniamo che la legge 241/90, ivi compreso l’art. 21-octies, contribuisca a disciplinare la materia in questione, ciò che effettivamente rileva è l’interpretazione e la portata applicativa da dare alle disposizioni di cui al 1° e al 2° comma dell’art. 21-octies sopra trascritto in nota n. 2.
Al riguardo, vale la pena ribadire – preliminarmente – che l’applicazione delle sanzioni da parte delle Autorità è certamente attività vincolata. Una volta che, in esito ad accertamenti tecnici (ispettivi o cartolari), l’autorità riscontri i presupposti per l’avvio del procedimento sanzionatorio, questo, seppure connotato da margini di discrezionalità su modalità e tempi di conduzione, disciplinati da un apposito regolamento, deve essere avviato, rappresentando un preciso obbligo giuridico (obbligo giuridico di avviare e portare a compimento il procedimento amministrativo sanzionatorio).
Così, analogamente, una volta che sia accertata, in contraddittorio con la parte, vale a dire dopo la conclusione dell’istruttoria, condotta nel rispetto del diritto di difesa, l’esistenza della irregolarità, si può ritenere concluso l’accertamento procedimentale all’esazione ([16]). L’autorità è obbligata ad applicare la sanzione e la sua mancata irrogazione determinerebbe una responsabilità dell’autorità medesima per essere venuta meno a un proprio obbligo giuridico.
Ciò posto, qualora si consideri il termine di conclusione del procedimento sanzionatorio quale norma semplicemente procedimentale, la conseguenza, indotta dalla lettura del comma 2 dell’art. 21-octies citato, sarebbe obbligata: il relativo provvedimento sanzionatorio, qualora emesso oltre il predetto termine, non è annullabile quando sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso e, in questo caso, sarebbe comunque palese, trattandosi di un provvedimento vincolato, quanto meno nell’an anche se non proprio nel quantum (c.d. “discrezionalità giudiziale”).
Tuttavia, a parere di chi scrive, tale conclusione, anche alla luce delle stesse argomentazioni della Corte di Cassazione, si giustificherebbe, non solo in base a quanto previsto dall’art. 21-octies della legge 241/90, ma anche (e forse soprattutto) in base a quanto non previsto dalla Legge 689/81 (unica legge ritenuta dalla Cassazione applicabile), che non contempla un termine finale (perentorio) per la notificazione dell’ordinanza ingiunzione di pagamento.
Qualora, infatti, detta legge avesse previsto un termine finale del procedimento sanzionatorio, ricadremmo nell’ambito di applicazione del comma 1 dell’art. 21-octies, vale a dire il provvedimento emanato oltre il termine sarebbe annullabile per violazione di legge, poiché la previsione del termine non rappresenterebbe una norma semplicemente procedimentale, bensì indicherebbe la necessaria (doverosa) definizione del procedimento sanzionatorio entro una certa data (perentoria), il cui mancato rispetto cioè determinerebbe la decadenza dall’esercizio del potere/dovere di esazione della sanzione pecuniaria ([17]).
Infatti, qualora il provvedimento venga emanato oltre tale ultimo termine, il potere/dovere di irrogare la sanzione si dovrebbe intendere come consumato e, pertanto, il relativo provvedimento potrebbe essere considerato addirittura tamquam non esset, versando l’Autorità in una situazione di “carenza di potere”. Generalmente, tuttavia, si tende a distinguere la carenza di potere “in astratto” (difetto assoluto di attribuzione, richiamato anche nel precedente art. 21-septies della Legge 241/90) dalla carenza di potere “in concreto”, riconoscendo, solo nel primo caso, la qualifica di inesistenza/nullità al provvedimento emanato in carenza di potere, e riconducendo la seconda ipotesi nell’alveo dell’annullabilità. Invero, il caso in questione deve essere ricondotto alla carenza di potere “in concreto”, quindi alla categoria dell’annullabilità, in quanto la norma attributiva del potere sanzionatorio in astratto esiste, pur venendo meno in concreto a causa del decorso del termine di decadenza ([18]).
Quindi, per quanto ci riguarda più da vicino, se si accetta l’idea che la Legge 241/90 concorra a disciplinare la materia dei procedimenti sanzionatori, come considerato nei paragrafi precedenti, non può non assumere rilievo l’art. 2 della legge 241/90, che prevede al comma 2 il termine generale di conclusione di tutti i procedimenti amministrativi, senza eccezione alcuna: “Nei casi in cui disposizioni di legge ovvero i provvedimenti di cui ai commi 3, 4 e 5 non prevedono un termine diverso i procedimenti amministrativi di competenza delle amministrazioni statali e degli enti pubblici nazionali devono concludersi entro il termine di trenta giorni”. Il medesimo articolo detta poi alcune regole (ai commi 3 e 4) in base alle quali il termine conclusivo può essere superiore ai 30 giorni ma non superiore a 90 giorni (comma 3) ovvero non superiore ai 180 giorni (comma 4). Stabilisce poi al comma 5 (cfr. supra) che: “Fatto salvo quanto previsto da specifiche disposizioni normative, le autorità di garanzia e di vigilanza (tra le quali rientrano certamente la CONSOB e la Banca d’Italia) disciplinano, in conformità ai propri ordinamenti, i termini di conclusione dei procedimenti di rispettiva competenza”.
In relazione a ciò, quindi, la CONSOB e la Banca d’Italia hanno, evidentemente, previsto precisi termini di conclusione dei procedimenti sanzionatori, proprio perché, in assenza di questi, la Giurisprudenza avrebbe potuto ritenere applicabile il più ristretto termine finale previsto dalla Legge 241/90, non avendo la Legge 689/81 disposto alcunché.
Né detti termini (quello generale o quelli previsti dalle Autorità con regolamento), come già osservato, potrebbero essere considerati come norme esclusivamente procedimentali a causa della loro natura di termini di decadenza dal diritto all’esazione (di decadenza dalla potestà sanzionatoria). Il fatto poi che le disposizioni regolamentari concernenti i termini di chiusura dei procedimenti in questione possano non chiarire la natura di decadenza del termine stesso, non rappresenta un argomento risolutivo. E’ infatti sostanzialmente incontroverso in diritto il principio secondo il quale per affermare la natura decadenziale di un termine previsto dalla legge non è necessario che sia esplicitamente prevista la decadenza, essendo sufficiente che, in modo chiaro e univoco, con riferimento allo scopo perseguito (nel nostro caso la definizione del procedimento sanzionatorio), risulti anche implicitamente che, dalla mancata osservanza del termine, derivi la perdita del diritto, in questo caso del diritto all’esazione, o meglio, della potestà di irrogare la sanzione.
Si potrebbe, al riguardo, discutere se i termini in questione, quelli cioè previsti dalle Autorità, in base ai propri regolamenti, abbiano forza innovativa sostanzialmente pari a quella legislativa (fonti c.d. sub-primarie), in quanto hanno ricevuto apposita delega di rango legislativo in tal senso (Legge 262/2005 e Legge 241/90) e perché, in via di fatto e di diritto, sostituiscono il più ristretto termine, che, altrimenti, sarebbe applicabile, perché previsto in via generale dal comma 2 dell’art. 2 della legge 241/90, ovvero abbiano una forza innovativa di rango più propriamente regolamentare, di fonte secondaria del diritto. In ogni caso, ciò che appare certa è la loro forza normativa e quindi innovativa dell’ordinamento settoriale.
V’è di più. Anche qualora si riconoscesse ai termini conclusivi del procedimento, previsti con regolamento dalle Autorità, una natura squisitamente regolamentare (di fonte secondaria del diritto), in ogni caso, sarebbe comunque applicabile il 1° comma dell’art. 21-octies, in quanto è principio consolidato e del tutto incontroverso nella giurisprudenza amministrativa l’assunto secondo il quale la nozione di vizio di “violazione di legge” ricomprende ogni tipo di violazione normativa. Il termine legge in tale contesto indica cioè, per la giurisprudenza (e generalmente anche per la dottrina), tutte le norme giuridiche – senza distinzione alcuna – che disciplinano l’esercizio del potere amministrativo, sia di rango superiore alla legge stessa, vale a dire le norme costituzionali e quelle di diritto comunitario, sia di livello inferiore nella gerarchia delle fonti, quali ad es. i Regolamenti e la Consuetudine.
Ne consegue, in definitiva, che il provvedimento emesso in violazione del termine previsto possa essere considerato annullabile, ricadendo nell’ambito del 1° comma dell’art. 21-octies della legge 241/90.
Tale conclusione, inoltre, risulta avvalorata anche in relazione a quanto già precisato circa gli “autolimiti” che le PP.AA. impongono a sé stesse attraverso lo strumento del regolamento (cfr. i contenuti delle note n. 14 e 15).
La conclusione alla quale si è pervenuti consente anche di restituire al termine di prescrizione quinquennale la sua unica (ed effettiva) funzione “sostanziale” di estinzione del diritto all’esazione per mancato avvio del procedimento, secondo quanto stabilito dall’art. 28 della legge 689/81, in quanto non assolverebbe anche all’improprio fine di rappresentare il termine ultimo di un procedimento sanzionatorio avviato. Benché, infatti, le Sezioni Unite della Cassazione abbiano nella sentenza del 2006 precisato che il termine prescrizionale non possa essere considerato come termine procedimentale, in realtà, di fatto, nell’impostazione seguita, in assenza del termine di chiusura del procedimento avente natura decadenziale, perché non previsto dall’unica fonte normativa ritenuta applicabile, il termine prescrizionale finisce anche per assolvere alla funzione di termine ultimo entro il quale l’ordinanza – ingiunzione deve essere notificata, termine come già detto irragionevole perché dilata ingiustificatamente i tempi di conclusione del procedimento amministrativo sanzionatorio.
Conclusivamente, si ritiene che, benché l’orientamento della Corte di Cassazione sia ormai consolidato, esso poggia su alcuni assunti discutibili e cioè che la Legge 241/90 e i regolamenti delle Autorità di vigilanza non possano concorrere a disegnare il complessivo quadro normativo di riferimento dei procedimenti sanzionatori, specie in quei casi in cui la cornice legislativa generale (Legge 689/81) si presenti lacunosa e allorché sia la stessa fonte legislativa (Legge 262/2005 e Legge 241/90) a delegare le autorità: i) all’emanazione di regolamenti che disciplinano i procedimenti sanzionatori (art. 24 della Legge 262/2005) e ii) alla previsione dei relativi termini conclusivi dei procedimenti amministrativi anche di tipo sanzionatorio (art. 2, comma 5 della Legge 241/90).
La soluzione prospettata nel presente commento è anche maggiormente compatibile con i principi di trasparenza e imparzialità nonché di economicità ed efficacia, e, quindi, di buon andamento dell’azione amministrativa delle Autorità di vigilanza (art. 3 e 97 della Costituzione).
Occorre, infine, considerare anche che le Autorità in questione, attraverso la regolamentazione dei procedimenti sanzionatori, limitano la propria discrezionalità in ordine alle modalità e ai termini ivi previsti senza, per questo, contravvenire al principio secondo cui l’applicazione di sanzioni pecuniarie si configura quale attività vincolata.
A dimostrazione del fatto che la disciplina con regolamento del procedimento sanzionatorio sia frutto di attività discrezionale (anche tecnica) e l’applicazione della sanzione sia conseguenza di un obbligo (potere/dovere) della P.A. e che le due situazioni possano convivere, si richiama il recente intervento della VI Sezione del Consiglio di Stato con sentenza dell’8 febbraio 2019 n. 969 sui poteri della CONSOB e sul riparto di giurisdizione tra GO e GA.
Nell’occasione, è stato ribadito a chiare lettere che il Giudice Amministrativo è competente in via esclusiva nel caso dell’impugnazione del Regolamento CONSOB, trattandosi di posizioni giuridiche soggettive di interesse legittimo (posizioni giuridiche soggettive esistenti a fronte di attività discrezionale) mentre l’impugnativa della sanzione e degli atti procedimentali che hanno portato la CONSOB all’irrogazione della sanzione stessa è di competenza del Giudice Ordinario, trattandosi di questioni attinenti a diritti soggettivi (in presenza cioè di attività vincolata).
II. Con il quinto motivo di impugnazione, il ricorrente censura che la sentenza impugnata contenga soltanto un’astratta affermazione circa l’obbligo sussistente in capo allo stesso di vigilare affinché l’organizzazione della SGR fosse tale da ridurre al minimo i rischi di conflitti di interesse anche tra i patrimoni gestiti dalla società così da salvaguardare l’equità di trattamento degli OICR. Secondo il ricorrente, infatti, i giudici di merito non avrebbero esaminato e non avrebbero tenuto conto delle specifiche condotte dallo stesso richiamate nelle deduzioni difensive e nell’opposizione per dimostrare la correttezza del proprio operato con riferimento allo specifico ruolo ricoperto.
La Corte di Cassazione rigetta tale doglianza motivando che la Corte d’Appello di Milano ha ritenuto dimostrata, in virtù della posizione rivestita dal ricorrente per un apprezzabile arco temporale, “la responsabilità dell’opponente per la violazione dell’art. 40, co. 2, lett. b) del TUF (poi divenuto art. 35-decies, lett. b), dal momento che rientrava nelle sue incombenze vigilare affinché l’organizzazione della SGR fosse tale da ridurre al minimo i rischi di conflitti di interessi anche tra i patrimoni gestiti dalla società, così da salvaguardare l’equità di trattamento degli OICR”.
La sentenza in commento ha suscitato l’attenzione degli scriventi in quanto riguarda uno dei primi casi in cui la disciplina dettata in materia di conflitti di interesse relativamente alla gestione collettiva del risparmio viene sottoposta al vaglio della Suprema Corte di Cassazione. La disposizione principale in materia è certamente l’art. 35-decies del TUF, disciplinante le regole di comportamento, il quale prevede che “le SGR, le SICAV e le SICAF che gestiscono i propri patrimoni: […] b) si organizzano in modo tale da ridurre al minimo il rischio di conflitti di interesse anche tra i patrimoni gestiti e, in situazioni di conflitto, agiscono in modo da assicurare comunque un equo trattamento degli OICR gestiti”.
La materia dei conflitti di interesse ha avuto da sempre una posizione di rilievo nell’ambito delle regole di condotta degli intermediari, ivi comprese le SGR. Nella gestione collettiva del risparmio, infatti, i conflitti d’interesse sono frequenti e si configurano spesso in modo variegato e complesso da gestire, soprattutto in ragione della polifunzionalità del soggetto che presta il servizio, della varietà tipologica dei fondi gestiti e della posizione di particolare debolezza contrattuale del partecipante ai fondi. Risulta pertanto essenziale che le SGR pongano specifica attenzione in fase di prevenzione dei conflitti, e ciò allo scopo di evitare che le stesse possano soddisfare interessi ulteriori, e potenzialmente confliggenti, rispetto a quello dell’OICR ([19]).
Per capire la ratio attuale della disciplina in materia di conflitti di interesse, si rende quindi necessario analizzare, in via preliminare, i passaggi della sua evoluzione, evidenziando, in particolare, il nuovo approccio adottato dal legislatore del 98’ con specifico riferimento alla gestione collettiva del risparmio. La disposizione è stata infatti dettata dal legislatore alla luce della circostanza che, non essendo inibita ad agire in conflitto di interessi, la SGR, in qualità di agent del rapporto gestorio, può operare pregiudicando l’interesse del principal, il che postula la necessità dell’ordinamento di reagire per la tutela degli investitori e l’integrità del mercato ([20]) ([21]).
L’attuale disciplina sui conflitti di interesse deriva dalla lunga e significativa evoluzione di un approccio originariamente basato su divieti e limitazioni all’operatività degli intermediari, poi trasformatosi in un modello di gestione organizzativa dei conflitti d’interesse che possono recare pregiudizio agli investitori, e ciò sulla base delle scelte operate a livello di regolamentazione secondaria ed orientamenti di vigilanza per effetto delle istanze normative di derivazione comunitaria. Sebbene vi fossero già stati alcuni interventi che, pur aventi un ambito applicativo differente, alludevano al tema dei conflitti di interesse ([22]), soltanto il legislatore del 98’ ha dedicato spazio alla materia dei conflitti d’interesse con una disposizione ad hoc dettata con specifico riferimento alla gestione collettiva.
In realtà, l’approdo alla normativa attualmente vigente in materia di conflitti di interesse nel settore della gestione collettiva è il frutto di progressivi aggiustamenti apportati a tale disciplina principalmente dalla normativa europea. Nella sua formulazione originaria, l’art. 35-decies, co. 2, lett. b) del TUF – precedentemente art. 40 – ricalcava in parte la previsione, dettata per i servizi d’investimento, dall’art. 17, D.lgs. n. 415 del 23 luglio 1996 (c.d. Decreto Eurosim), il quale introduceva il dovere dell’intermediario di organizzarsi in modo tale da minimizzare il rischio di conflitto di interesse, pur omettendo di precisare che, in caso di conflitto, la Sgr dovesse agire assicurando comunque ai partecipanti ai fondi trasparenza ed equo trattamento. Tale lacuna derivava principalmente da una mancata previsione in tal senso da parte della disciplina comunitaria in quanto la Direttiva 85/611/CEE – in materia di OICVM – non prevedeva che gli Stati membri dovevano contemplare specifiche regole di comportamento per gestori di fondi armonizzati, con ciò discostandosi significativamente dalle norme comunitarie all’epoca valevoli per i servizi d’investimento.
La questione è stata risolta con la Direttiva 2001/107/CE (c.d. Direttiva gestore) con la quale si è provveduto, nell’ambito della revisione della normativa sugli OICR armonizzati, a richiedere agli Stati membri di fissare gli obblighi comportamentali per le società di gestione armonizzate (ivi comprese le Sgr italiane). In particolare, l’art. 5-septies, par. 1, lett. b) della direttiva ha previsto che le società di gestione debbano strutturarsi ed organizzarsi “in modo tale da ridurre il rischio che gli interessi degli OICVM o dei clienti siano lesi dai conflitti d’interesse tra la società e i suoi clienti, tra uno dei suoi clienti e un OICVM o tra due OICVM”.
La medesima Direttiva gestore, inoltre, seguendo un approccio basato sul principio dell’osservanza delle regole di condotta volti alla prevenzione dei conflitti d’interesse e sul principio dell’equo trattamento degli OICVM ([23]), ha improntato anche la disciplina italiana di recepimento, rappresentata dal D.lgs. n. 274 del 1° agosto 2003 il quale, all’art. 13, ha riformulato l’art. 40 del TUF, aggiungendo il (mancante) riferimento all’”equo trattamento” nella gestione dei conflitti di interesse. Tale modifica discende dalla consapevolezza del legislatore dell’inevitabilità dei conflitti d’interesse, il che ha condotto alla vigente formulazione volta ad imporre alle Sgr di organizzarsi in modo tale da ridurre al minimo il rischio di conflitti d’interesse anche tra i patrimoni gestiti- e ciò mediante l’adozione di una serie di presidi organizzativi ([24]) e di controllo idonei alla prevenzione o, in ogni caso, all’individuazione di eventuali conflitti d’interesse; laddove invece la situazione di conflitto non possa essere evitata, di agire sempre in modo da assicurare comunque un equo trattamento dell’OICR.
Il predetto approccio origina, in realtà, dalla sede comunitaria, dove si è passati dal concetto di “prevenzione” dei conflitti d’interesse al concetto di “gestione” degli stessi, idea che ha incentrato la MiFID ed il legislatore nazionale il quale, con il D.lgs. n. 164 del 17 settembre 2007 e i provvedimenti attuativi della Banca d’Italia e della Consob, ha esteso tale approccio, con le differenze del caso, anche alla gestione collettiva del risparmio ([25]) ([26]).
Premessa tale illustrazione dell’evoluzione della disciplina sui conflitti di interesse, si rende necessario analizzare la disciplina vigente la quale, come anticipato, ricalca il contenuto della corrispondente disposizione comunitaria da cui trae origine ([27]). Sia a livello comunitario si a livello nazionale il legislatore mette in risalto l’esigenza della Sgr di dotarsi, sin dalla sua costituzione, di un apparato organizzativo e procedurale che le consenta di gestire il rischio (riconosciuto come ineliminabile) di conflitti che possano pregiudicare l’interesse degli investitori. Viene cioè posta l’attenzione sul “momento” organizzativo, che risulta essenzialmente prodromico a quello operativo, a sua volta connesso all’effettuazione delle scelte di investimento e disinvestimento per conto dei fondi gestiti ([28]).
Il presupposto di un assetto organizzativo e procedurale adeguato a gestire efficacemente i conflitti d’interesse inerenti all’attività gestoria diviene, dunque, la preventiva identificazione delle situazioni più rilevanti – secondo un approccio risk based – da cui possono originare i conflitti in relazione alla concreta operatività aziendale della Sgr. In effetti, nell’ambito della regolamentazione di rango secondario si è così precisato che “i conflitti di interesse che potrebbero sorgere tra le Sgr […] e gli OICR, tra i clienti di tali società e gli OICR o tra i diversi OICR gestiti” devono essere dapprima “identificati” e poi “gestiti tramite idonee misure organizzative in modo da evitare che tali conflitti possano ledere in modo significativo uno o più OICR gestiti” (cfr. art. 37, co. 1, lett. a) e b), Regolamento Congiunto Consob e Banca d’Italia del 29 ottobre 2007). Risulta essenziale all’uopo che la Sgr adotti un’efficacie “politica di gestione delle situazioni di conflitto d’interesse” (c.d. conflict policy), che ciascuna Sgr è tenuta ad approvare per iscritto, applicare e mantenere in linea con il principio di proporzionalità (art. 39, co. 1 del Regolamento Congiunto) nonché a renderela nota agli investitori quanto meno nei suoi elementi essenziali (art. 39, co. 6 del Regolamento Congiunto) ([29]) ([30]).
La conflict policy deve contenere le misure e le procedure che la Sgr intende in concreto seguire per gestire i conflitti d’interesse identificati che possono ledere in modo significativo gli interessi di uno o più OICR ([31]). Tali presidi organizzativi contemplati nella policy devono soddisfare il rispetto del principio di adeguatezza avuto riguardo alle “dimensioni e alle attività della società e del gruppo cui essa appartiene e all’entità dei rischio che gli interessi dell’OICR siano danneggiati” ([32]). Residua, infine, la previsione di chiusura secondo la quale, qualora le procedure non consentano di assicurare l’indipendenza dei soggetti rilevanti, al SGR dovrà adottare “tutte le misure e le procedure aggiuntive necessarie e appropriate a tal fine” ([33]).
Rileva altresì, nell’ambito delle disposizioni regolamentari la norma secondo cui, qualora le misure organizzative individuate dalla Sgr nella policy “non risultino sufficienti ad escludere il rischio che il conflitto di interessi rechi pregiudizio agli OICR gestiti e ai partecipanti agli stessi, tale circostanza deve essere sottoposta agli organi aziendali competenti ai fini dell’adozione delle deliberazioni necessarie per assicurare comunque l’equo trattamento degli OICR e dei partecipanti” ([34]) ([35]).
Tanto premesso in termini generali, occorre a questo punto volgere l’attenzione al caso di specie, ove, pur essendo pacifico, come affermato dalla stessa Corte di Cassazione, che il ricorrente, nella sua qualità di amministratore, avesse certamente il compito di costruire e monitorare un assetto organizzativo e procedurale adeguato a gestire efficacemente i conflitti di interesse inerenti all’attività gestoria, non viene dettagliatamente specificato in punto di fatto a quale condotta del ricorrente corrisponderebbe la violazione dell’art. 35-decies, co. 2, lett. b) del TUF, precedentemente art. 40.
La stessa Corte di Cassazione, infatti, confermando il contenuto della sentenza impugnata, ritiene dimostrata, solo ed esclusivamente in virtù della posizione ricoperta dal dott. T.A. tra il 19 novembre 2012 e il 4 dicembre 2013, la sola responsabilità omissiva del ricorrente il quale, a differenza degli altri esponenti della Sgr non avrebbe fornito prova di aver svolto un ruolo proattivo nel tentativo di eliminare talune lacune amministrative che hanno poi contribuito all’esito infausto dell’investimento.
Orbene, stando al dato letterale dell’art. 35-decies, co. 2, lett b) del TUF, a dover essere provata, non doveva essere esclusivamente la colpa omissiva del ricorrente, ma anche e nel concreto l’insussistenza degli elementi tipologici di tale disposizione, ossia di (i) un’organizzazione idonea a ridurre al minimo il rischio di conflitti di interesse; (ii) di un equo trattamento degli OICR; nonché (iii) della parità di trattamento nei confronti di tutti i partecipanti a uno stesso OICR gestito.
III. Con il settimo motivo di impugnazione, il ricorrente aveva lamentato, tra l’altro, che le contestazioni mosse dalla CONSOB riguardassero le medesime condotte già oggetto di procedimento sanzionatorio avviato dalla Banca d’Italia (irrogazione di plurime sanzioni per la medesima condotta e, quindi, violazione del ne bis in idem).
Non si ripercorre l’intero iter motivazionale della Corte di rigetto del capo di impugnazione della sentenza, con correzione della motivazione di quest’ultima, in quanto ciò che interessa in questa sede è l’affermazione finale che, nella sua estrema sinteticità, presenta alcuni aspetti problematici.
In particolare. La Corte conclude “Tanto premesso, il Collegio rileva che il principio del ne bis in idem non opera qualora vengano in rilievo più condotte illecite ricomprese in diverse norme sanzionatorie applicate dalla Banca d’Italia e dalla Consob secondo le rispettive competenze.
Ed è quanto avvenuto nella specie, giacché il provvedimento sanzionatorio emesso dalla Banca d’Italia ha avuto ad oggetto comportamenti posti in essere dal dottor [T.A.]contrari ai criteri della sana e prudente gestione, laddove la delibera sanzionatoria della Consob riguarda l’inadempimento dell’obbligo di organizzarsi in modo da ridurre al minimo il rischio di conflitti di interesse anche tra patrimoni gestiti”.
Da quello che è dato comprendere dalla lettura della sentenza, non avendo a disposizione gli atti del processo in Corte di Cassazione, né tanto meno quelli della competente Corte d’Appello, il difensore del dottor T.A. aveva lamentato, evidentemente, fin dal grado di merito, la violazione del principio del ne bis in idem, in quanto il destinatario avrebbe ricevuto per i medesimi comportamenti due sanzioni, una dalla Banca d’Italia e l’altra dalla CONSOB.
Al riguardo, la prima conclusione alla quale perviene la Cassazione risulta coerente e quindi condivisibile. Infatti, qualora rilevino più condotte illecite, ricomprese in diverse norme che le due autorità applicano secondo le proprie competenze, non può ricorrere la violazione del ne bis in idem. Si tratterebbe infatti non di un medesimo comportamento, adottato in violazione di una stessa norma e sanzionato due volte, anche se da due autorità distinte, ma di diversi comportamenti irregolari, corrispondenti a norme eterogenee applicate dalle due autorità secondo le distinte attribuzioni ricevute dalla legge.
Ciò che non convince, fino in fondo, però, è l’argomentazione successiva, volta a dimostrare la giustezza dell’assunto iniziale. Sembra, infatti, che la Corte tenga distinto il principio della sana e prudente gestione dalle regole di prevenzione e gestione dei conflitti di interesse, quasi che si trattasse di materie necessariamente diverse, l’una attribuita alla Banca d’Italia, l’altra alla CONSOB.
Premesso che sul principio di sana e prudente gestione esistono svariati approfondimenti, soprattutto dottrinali, che non si intendono tuttavia in questa sede richiamare, è bene precisare preliminarmente che la formula “sana e prudente gestione”, tratta dal dritto comunitario, non può che ricomprendere anche le specifiche regole volte a minimizzare i conflitti di interesse, oltre a numerose altre disposizioni, di vigilanza prudenziale “quantitativa” e “qualitativa”, previste proprio per assicurare il rispetto della sana e prudente gestione.
Sul punto, in definitiva, per come è stata motivata, la sentenza suscita qualche perplessità. È evidente infatti che il principio generale della sana e prudente gestione, se non è declinato ad es. in regole concrete di tipo organizzativo, di rispetto dei ratios patrimoniali, etc.:
rischia di diventare una formula priva di significato, perché estremamente generica (un ampio contenitore), per contestare irregolarità senza che il destinatario sappia, in realtà, quale specifica norma abbia violato, con conseguente lesione tra l’altro anche del diritto di difesa;
potrebbe agevolare – in qualche modo – la possibile violazione del principio del ne bis in idem da parte delle due Autorità.
Naturalmente ciò non significa che nel caso di specie si sia necessariamente realizzata la violazione del principio del ne bis in idem, si vuole solo sottolineare che, sul punto, i giudici di legittimità avrebbero forse dovuto spiegare meglio – in modo più esaustivo e approfondito – con indicazione cioè delle specifiche irregolarità contestate dalla Banca d’Italia, il motivo per cui la violazione del ne bis in idem non possa ricorrere nel caso in questione.
Invero, in generale, per come sono ripartite le competenze tra CONSOB e Banca d’Italia, il rischio della violazione del principio del ne bis in idem dovrebbe essere ridotto al minimo, se non per alcuni specifici ambiti di confluenza delle prerogative delle due Autorità, tra i quali rientra tuttavia anche la materia dei conflitti di interesse.
In relazione a quest’ultima, nell’ambito dell’intermediazione finanziaria e del risparmio gestito, sia l’una che l’altra Autorità talvolta sanzionano gli intermediari, sulla base, tra l’altro, di regole previste da un Regolamento c.d. “congiunto”, perché emanato congiuntamente dalla Banca d’Italia e dalla CONSOB (cfr. il Regolamento del 29 ottobre 2007 e successive modifiche e integrazioni, che disciplina la materia dell’organizzazione e delle procedure degli intermediari che prestano servizi di investimento o di gestione collettiva del risparmio) ([36]).
La disposizione che la CONSOB, nel caso di specie, ha ritenuto violata e per la quale il sig. T.A. è stato sanzionato è quella di cui all’art. 40, comma 2, lett. b) del Testo Unico della Finanza (ora nella nuova versione del TUF art. 35-decies lett. b): “Le SGR, le SICAV e le SICAF, che gestiscono i propri patrimoni […]si organizzano in modo da ridurre al minimo il rischio di conflitti di interesse anche tra patrimoni gestiti e, in situazioni di conflitto, agiscono in modo da assicurare comunque un equo trattamento degli OICR gestiti”.
Orbene, la violazione di tale disposizione, per un verso, certamente integra l’inosservanza del principio di sana e prudente gestione e, per altro verso, potrebbe essersi concretizzata anche in una delle violazioni degli articoli del Titolo V del citato Regolamento c.d. “congiunto”, che disciplinano la materia del conflitto di interessi nelle SGR, per la violazione dei quali potrebbe essere intervenuta anche la sanzione della Banca d’Italia. Le disposizioni del c.d. Regolamento congiunto in materia di conflitti di interesse, infatti, attuano sul piano regolamentare, tra l’altro, la norma del TUF che la CONSOB ha ritenuto violata.
In definitiva, la motivazione dedotta in sentenza, per come è stata articolata, non scioglie il dubbio (anzi lo rafforza) sulla possibile violazione del principio del ne bis in idem.
Conclusioni
Come già anticipato in Premessa, la sentenza risulta affrontare e disattendere in modo sostanzialmente condivisibile le doglianze del ricorrente, fatta eccezione per le tre questioni approfondite nel presente commento.
A prescindere dai dubbi che suscita il rigetto del quinto e settimo motivo di impugnazione della sentenza della Corte di merito territoriale per una non esaustiva motivazione dei giudici di legittimità, appare cruciale, ai fini della controversia, la questione legata al 2° motivo di impugnazione, vale a dire il mancato rispetto del termine dei 200 giorni previsto nel regolamento dell’Autorità procedente (CONSOB), per la conclusione del procedimento sanzionatorio.
Secondo la sentenza in commento il termine in questione non avrebbe alcun rilievo, in quanto lo stesso regolamento della CONSOB non avrebbe efficacia esterna ma solo interna all’amministrazione. L’obbligo di prevedere un termine di chiusura del procedimento sanzionatorio non esisterebbe nell’ambito dell’unica legge che disciplina compiutamente la potestà sanzionatoria delle PP.AA. ma in una legge, quella generale sul procedimento amministrativo (Legge 241/90), che non avrebbe attinenza alla materia in questione.
Come però considerato nell’ambito del presente commento, si ritiene che la Legge 241/90 concorra a pieno titolo, insieme ai regolamenti delle autorità, emanati in forza della legge 262/2005, a disciplinare l’intero quadro normativo di riferimento, insieme alla legge 689/81, nell’applicazione di sanzioni pecuniarie e che, quindi, il termine di conclusione del procedimento sanzionatorio abbia un’efficacia esterna nell’ordinamento settoriale governato e controllato dalle Autorità di vigilanza.
La conclusione alla quale si perviene appare anche maggiormente in linea con i principi di buon andamento e ragionevolezza delle PP.AA., che ha forza costituzionale.
In conclusione, si ha la sensazione, leggendo la sentenza in commento e le altre richiamate da quest’ultima, su tale specifica questione, che si è persa l’ennesima occasione per un possibile revirement, da parte della giurisprudenza di legittimità, e che, quindi, i giudici della II Sezione non abbiano avuto il coraggio di un cambio di rotta rispetto all’atteggiamento di tramandare (per la verità anche in modo tralatizio) una posizione assunta, nel corso del tempo, che però appare ormai disallineata rispetto alla realtà della forza innovatrice dei Regolamenti delle Autorità in materia sanzionatoria nonché disarmonica rispetto al principio di ragionevolezza e, in particolare, di trasparenza e di buon andamento delle PP.AA..
Considerato però il consolidarsi dell’impostazione dei giudici di legittimità su tale questione, l’auspicio, a questo punto, non può che essere quello di una modifica legislativa:
della legge 689/81, che individui un termine perentorio (a pena di decadenza) di chiusura del procedimento sanzionatorio, ispirato a un criterio di ragionevolezza. Qualora la Legge 689/81 fosse modificata in tal senso, potrebbe essere accettata più agevolmente l’idea che le Autorità, sulla base dell’art. 2, comma 5 della Legge 241/90, possano, a loro volta, prevedere un termine – avente efficacia esterna, oltre che diverso e più ampio per adeguarlo alle necessità dell’ordinamento settoriale – che sostituisca, nei procedimenti sanzionatori, quello eventualmente previsto in via generale nella Legge 689/81;
o, in alternativa, delle disposizioni dei Testi Unici delle Autorità di vigilanza che dettano le principali regole dei procedimenti sanzionatori (cfr. ad es. l’art. 145 del TUB, per i poteri sanzionatori della Banca d’Italia), prevedendo la necessità di individuare un termine finale del procedimento sanzionatorio, entro il quale deve, a pena di decadenza, essere emanato il provvedimento di irrogazione della sanzione. È chiaro che una tale disposizione si configurerebbe come speciale, anche rispetto alla Legge 689/81, e rafforzerebbe, ulteriormente, il connotato dell’efficacia normativa esterna della previsione regolamentare dei termini di chiusura del procedimento sanzionatorio.
[1] Le altre due sentenze richiamate (n. 4363 del 4 marzo 2015 e n. 28410 del 7 novembre 2018) non sembrano aggiungere ulteriori chiarimenti alla posizione della Corte di Cassazione in merito alla non rilevanza della violazione del termine fissato dall’autorità per la conclusione del procedimento. Infatti, la prima (n. 4363/2015) si limita – sostanzialmente – ad argomenti analoghi (anche nella loro sinteticità) a quelli utilizzati dalla sentenza in commento e la seconda (n. 28410/2018) dichiara – del resto come la Corte d’appello territoriale – inammissibile il motivo di impugnazione perché proposto tardivamente in corso d’udienza e non nell’ambito dell’opposizione.
[2] I primi due commi del citato articolo 21 octies della Legge 241/90, sui quali si tornerà in seguito, prevedono che: “1. È annullabile il provvedimento amministrativo adottato in violazione di legge o viziato da eccesso di potere o da incompetenza” – 2. Non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo nonavrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato[…]”.
[3] Il principio di ragionevolezza è ormai da anni posto dalla letteratura giuridica (e dalla giurisprudenza più avveduta) a fondamento dell’azione amministrativa delle PP.AA. e dell’esercizio delle loro potestà normativa e provvedimentale.
[4] Tant’è che il legislatore ha avuto premura negli articoli iniziali della legge 689/81 (articoli 1-12) di precisare i principi, soprattutto di origine penalistica, da applicare all’attività sanzionatoria delle Amministrazioni.
[5] Invero, sul punto, la successiva sentenza n. 24692 dell’8 ottobre 2018 sembra negare tale possibilità affermando che: “la eventuale inosservanza del termine previsto dalla disposizione legislativa e da quelle regolamentari non comporta la invalidità del provvedimento sanzionatorio, ai sensi della Legge 241 del 1990, art. 21 octies”. Quest’ultima, anzi, nella logica della Corte di Cassazione sembra essere maggiormente coerente e, del resto, l’oggetto della pronuncia riguarda direttamente il termine regolamentare previsto dalle Autorità.
[6] Nel nostro caso, la Legge 689/81 non prevede il termine finale (conclusivo) del procedimento sanzionatorio. Questo è invece previsto in via generale proprio dalla Legge 241/90 La stessa Corte di Cassazione esclude che il termine prescrizionale possa essere considerato come termine finale del procedimento, benché entro il predetto termine (5 anni) debba comunque essere irrogata la sanzione. Né la Legge 241/90 esclude la propria applicabilità ai procedimenti sanzionatori.
[7] L’art. 24 citato, rubricato “Procedimenti per l’adozione di provvedimenti individuali”, detta i principi generali attorno ai quali sono condensate le regole che CONSOB, Banca d’Italia, ISVAP e COVIP devono dettare per i procedimenti diretti all’emanazione di provvedimenti individuali, di procedimenti di controllo a carattere contenzioso e di procedimenti sanzionatori. Per questi ultimi, la Legge prescrive che i relativi procedimenti siano svolti nel rispetto della piena conoscenza degli atti istruttori, del contraddittorio, della verbalizzazione nonché della distinzione tra funzioni istruttorie e decisorie.
[8] L’art. 2, comma 5 della Legge 241/90 va letto in combinato disposto con l’art. 24 della Legge 262/2005, che delega le autorità di vigilanza a disciplinare con regolamento, tra l’altro, i propri procedimenti sanzionatori. Da quali fonti normative generali le autorità potrebbero trarre utili indicazioni in merito alla formulazione dei propri regolamenti se non dalla legge generale sul procedimento amministrativo, oltre che, naturalmente, dalla legge 689/81? La risposta non può che essere positiva. È altresì chiaro che, qualora non vi fosse stata un’esplicita delega legislativa in materia di procedimenti sanzionatori, il ragionamento della Corte di legittimità avrebbe forse convinto maggiormente il lettore. Infatti, qualora l’art. 24 della legge 262/2005 non avesse delegato le Autorità a emanare regolamenti in materia sanzionatoria, all’impostazione seguita nel presente commento, si sarebbe potuto opporre, forse con maggiore coerenza, che l’unica fonte disciplinatrice della materia è la legge 689/81.
[9] Una delle questioni più complesse e forse più dibattute nella dottrina che si è occupata ex professo dei poteri delle Autorità Indipendenti è riferibile a quale sia il fondamento giuridico del riconoscimento del potere normativo delle predette Autorità e quali siano i rapporti tra i regolamenti di queste e le altre fonti del diritto, posto che il potere normativo delle stesse ha indubbiamente una funzione innovativa, quanto meno nell’ordinamento settoriale al quale le stesse attendono. Prima facie, si possono distinguere due categorie di regolamenti: i) i regolamenti di autorganizzazione (relativi alla materia dell’organizzazione interna e, quindi ad es. del personale, della contabilità, dell’istituzione di dipartimenti etc.; ii) i regolamenti che disciplinano la materia della vigilanza e che incidono sulla qualificazione dei comportamenti degli intermediari e che hanno altresì effetti innovativi dell’ordinamento settoriale e, in una certa misura, anche dell’ordinamento generale. In tale ambito, la problematicità della questione è connessa alla circostanza che, mentre i regolamenti della prima categoria (quelli di organizzazione) possono essere agevolmente ricondotti alle categorie dei regolamenti di esecuzione e di organizzazione, emanati quindi in virtù della stessa legge istitutiva dell’autorità, quelli rientranti nella seconda categoria (ad es. vigilanza) sono molto spesso emanati in ambiti che non sono disciplinati compiutamente dalla legge ovvero in settori dove la legge ha dettato alcune regole generali e/o sintetiche (c.d. normazione per principi), che hanno bisogno di essere declinate in regole più specifiche ad elevato tecnicismo, spesso e volentieri contenute in altre fonti normative di derivazione europea di vario genere (Direttive, regole e standard tecnici di autorità europee, etc.). Al riguardo, si è pertanto parlato di “regolamenti di autonomia”, volendo con ciò indicare poteri normativi che avrebbero la possibilità di modificare/integrare norme dispositive ovvero di disciplinare ambiti non normati dalla legge, quasi che avessero la natura di regolamenti indipendenti, in quanto la legge – attraverso scelte di indirizzo – attribuirebbe loro ambiti nei quali detti regolamenti CONSOB (e di autorità similari) avrebbero una sorta di competenza esclusiva. Secondo altre e diverse impostazioni, i regolamenti della specie potrebbero essere ricondotti alle fonti secondarie. Invero, nella materia che in questa sede ci occupa, tali problematiche assumono un tono minore proprio in quanto le Autorità, nel disciplinare con regolamento i propri procedimenti amministrativi sanzionatori, possono (devono) attingere alla disciplina generale delle sanzioni (Legge 689/81) e alla disciplina generale del procedimento amministrativo (Legge 241/90) oltre che ai parametri fissati dalla Legge 262/2005.
[10] La legge 689/81 non prevede un termine finale entro il quale l’autorità procedente è tenuta a notificare l’ordinanza ingiunzione di pagamento ma, al tempo stesso, non si ritiene che la sua eventuale previsione, contemplata da un regolamento, soprattutto sulla base di norme di legge (241/90 e 262/2005) che concorrono al quadro normativo di riferimento, sia di per sé in contrasto con la stessa legge 689/81 o con la natura di procedimento sostanzialmente contenzioso.
[11] In realtà, tali modifiche non potevano riguardare la vicenda che si è sviluppata sotto il precedente regime, tuttavia, la norma non può essere sconosciuta all’estensore della sentenza in commento, che, anzi, la presuppone in alcuni passaggi (cfr. pag. 9 della sentenza).
[12] Cfr. Ex multis, Sezioni Unite della Cassazione 15 luglio 2010, n. 16577: “l’irrogazione delle sanzioni è espressione di un’attività vincolata che […]non può essere assimilata, pur essendo ad essa strettamente collegata, a quella di vigilanza, le cui modalità non sono invece rigidamente predeterminate ma […]sono lasciate all’apprezzamento delle autorità […]”. Sulla natura vincolata o discrezionale del potere sanzionatorio delle autorità si è a lungo discusso in passato e lo si farà in futuro. Non si ritiene questa la sede più appropriata per dare conto del dibattito. Al riguardo, si ritiene, sulla base dell’esame delle disposizioni normative esistenti, unico vero parametro che deve essere valutato, che non vi siano margini di discrezionalità amministrativa nell’an. Una volta che le Autorità di vigilanza hanno effettuato l’accertamento dell’irregolarità, queste hanno un preciso obbligo di avviare il procedimento sanzionatorio per l’accertamento dell’irregolarità in contraddittorio con la parte. Margini di incertezza vi possono essere sulla determinazione del “quantum” della sanzione. Anche a tale ultimo proposito, tuttavia, si ritiene che la realtà complessiva che emerge dalla lettura delle norme legislative e regolamentari esistenti, è quella non di una discrezionalità amministrativa ma di una sorta di discrezionalità “giudiziale”, vicina cioè a quella del giudice penale nella determinazione della multa e/o dell’ammenda. Per una ricostruzione puntuale della questione anche in relazione alle particolarità dei procedimenti dell’Autorità Antitrust, cfr. Stefano Lorenzo Vitale: “Le Sanzioni amministrative tra Diritto Nazionale e Diritto Europeo” – Costituzione e Amministrazione, Studi raccolti da Vincenzo Cerulli Irelli, G. Giappichelli Editore – Torino, 2018, pag. 277 e segg.
[13] Analoga scelta, ad es., ha fatto la Banca d’Italia, fissando in 240 giorni il termine per l’irrogazione, a far data dalla scadenza del termine, comprensivo di eventuali proroghe, per la presentazione delle controdeduzioni, da parte del soggetto che ha ricevuto per ultimo la notifica della contestazione.
[14] Gli “autolimiti” rappresentano altrettanti vincoli che le PP.AA. impongono a sé stesse, finalizzati a circoscrivere e disciplinare il proprio potere discrezionale. Essi possono essere previsti dalla stessa legge, che impone all’Autorità amministrativa di predeterminare ad es. criteri di valutazione e/o di disciplinare, come nel caso di specie, i propri procedimenti sanzionatori, ovvero, possono essere previsti e regolati per volontà della stessa P.A., che avverte la necessità di regolamentare i poteri discrezionali (eccessivamente ampi) che la legge le attribuisce.
[15] Sugli “autolimiti” prefissati dalle stesse PP.AA., negli ultimi anni, si è formato un indirizzo della giurisprudenza amministrativa volto a riconoscere che la mancata previsione degli stessi implichi il vizio di violazione di legge, qualora la loro previsione sia imposta dalla legge, e di eccesso di potere, qualora detti autolimiti, pur in assenza di un preciso obbligo di legge, avrebbero potuto e dovuto essere previsti direttamente dalla P.A. In ogni caso, qualora vi sia la violazione da parte dell’autorità amministrativa di un autolimite previsto dalla stessa (o per obbligo di legge o per libera scelta) la giurisprudenza amministrativa ritiene comunque l’atto amministrativo viziato, facendo riferimento, in prevalenza, alla violazione di legge. Per una ricostruzione completa dell’argomento, nell’ambito della materia sanzionatoria, cfr. Roberto Giovagnoli e Marco Fratini in “Le sanzioni amministrative” Giuffrè Editore, pag. 489, laddove si chiarisce, tra l’altro, che la previsione degli autolimiti e il loro rispetto sono diretti anche all’osservanza del generale obbligo di trasparenza.
[16] Spesso si confonde, da un punto di vista concettuale, l’accertamento dei fatti svolto in via amministrativa (ad es. attraverso un’ispezione), che dà luogo all’avvio del procedimento sanzionatorio, e l’accertamento conclusivo in corso di procedimento che si ha in esito all’istruttoria dopo la valutazione degli atti difensivi del destinatario della contestazione. Si tratta di due momenti distinti. In esito al primo accertamento, l’autorità di vigilanza ha un obbligo giuridico di avviare il procedimento sanzionatorio e di concluderlo nei tempi e con le modalità previste dalla propria autoregolamentazione; in esito al secondo accertamento, la medesima autorità ha l’obbligo giuridico di irrogare la sanzione. Tra il primo e il secondo accertamento, infatti, il destinatario della contestazione potrebbe dimostrare. attraverso la propria attività difensiva – che, come talvolta accade, i presupposti della sanzione non sussistono.
[17] Non sono infrequenti nel nostro ordinamento giuridico termini (perentori) entro i quali devono essere eseguiti poteri/doveri di azione da parte delle PP.AA. (cfr. la materia fiscale). Né si comprenderebbe il motivo giuridico in base al quale dovrebbe avere efficacia normativa e connotato di decadenza solo il termine di avvio del procedimento sanzionatorio e non anche un possibile termine conclusivo del procedimento. Infatti, generalmente non si dubita che un atto di contestazione – che dà avvio al procedimento sanzionatorio, se notificato oltre il termine previsto dalle stesse Autorità, che decorre dall’accertamento dell’infrazione – implichi un motivo di annullamento del provvedimento sanzionatorio, per mancato rispetto di un termine decadenziale.
[18] La questione non è puramente qualificatoria e quindi teorica ma ha anche significativi risvolti pratici, sia di corretta individuazione delle norme di riferimento (art. 21-octies ovvero art. 21-septies della legge 241/90; quest’ultimo disciplina i casi di nullità), sia perché le due categorie hanno una diversa forza espansiva.
[19] L’importanza delle regole di condotta è stata evidenziata da Veerle Colaert, “Building blocks of investor protection: all-embracing regulation tightens its grip”, 2017, KU Leuven Law Faculty, secondo la quale dette regole di comportamento, da intendersi come requisito di qualità dei servizi finanziari, costituiscono – insieme ai requisiti di informazione e regolamentazione sui prodotti di investimento – uno dei tre pilastri su cui si fonda la regolamentazione europea posta a protezione degli investitori.
[20] Commentario al Testo Unico della Finanza, a cura di M. Fratini e G. Gasparri, Tomo Primo, UTET, 2012, p. 612.
[21] Per un’indagine sul rapporto tra la MiFID e gli altri pezzi di regolamentazione europea posta a tutela degli investitori, si veda V. Colaert, “MiFID II in relation to other investor protection regulation: picking up the crumbs of a piecemeal approach”, (è pubblicato) in D. Busch-G. Ferrarini, Regulation of the EU Financial MArkets: MiFID II and MiFIR (Oxford University Press, 2017), 2017, KU Leuven Law Faculty.
[22] Si tratta dell’art. 3, L. n. 77 del 23 marzo 1983 che, al co. 5, vietava alle società che gestivano fondi aperti armonizzati di investire in “quote di partecipazione ad altri fondi comuni e in azioni emesse dalla società od enti dei cui organi facciano parte gli amministratori della società di gestione” e, al co. 6, limitava al due per cento “l’investimento in azioni emesse da società controllanti” la società di gestione”. L’inesistenza di una disciplina ad hoc era peraltro temperata dalla previsione di regole che richiedevano alla società di gestione di comportarsi nell’interesse dei partecipanti ai fondi, assumendo nei loro confronti gli obblighi e la responsabilità del mandatario (cfr. art. 3, co. 1, L. n. 77/1983, abrogato e “rimpiazzato” dall’art. 36, co. 5 del TUF con riferimento al caso di separazione tra funzioni promozionale gestoria dei fondi, ovverosia nell’ipotesi di delega c.d. “generica”).
[23] Cfr. Art. 5-nonies, lett. d), Direttiva 107/2001/CE.
[24] Per un approfondimento, si vedano Comporti, Il conflitto di interessi nella disciplina comunitaria dei servizi finanziari, in Dir. Banca e mercato fin., 2995, 601; Lener, Conflitti di interesse nella prestazione dei servizi di investimento e di gestione collettiva, in L’attuazione della MiFID in Italia, a cura di D’Apice, Bologna 2010, 351 e ss.; ID., La gestione dei conflitti di interesse delle imprese di investimento fra il Tuf e la MiFID, in Banche, servizi di investimento e conflitti di interesse, a cura di Anolli, Banfi, Presti e Rescigno, Bologna 2007, 41 e ss.; Perrone, I conflitti di interessi fra tutela del risparmio e normativa comunitaria, in Banche, servizi di investimento e conflitti di interese, a cura di Anolli, Banfi, presti e Rescigno, Bologna, 2007, 57 e ss.; Scotti Camuzzi, I conflitti di interessi fra intermediari finanziari e clienti nella direttiva MiFID, in Banca borsa, 2007, 121 e ss.
[25] Nella stessa direzione si è mosso il regolatore comunitario adottando la Direttiva 2009/65/CE (cfr. artt. 12, par. 1, lett. b) e 14, par. 1, lett. d)), che detta principi e regole generali in materia di fondi comuni armonizzati, e la Direttiva 2010/43/UE (cfr. artt. 17 e ss.) che, in esecuzione della prima, stabilisce disposizioni più specifiche in merito alle modalità di gestione dei conflitti d’interesse.
[26] Bisogna ricordare che, accanto alla copiosa produzione normativa, non va dimenticato che in materia di conflitti d’interesse si sono fatte strada anche importanti iniziative di self-regulation, con lo scopo di contribuire ad indirizzare i comportamenti degli operatori verso best practice di settore. In tempi recenti si segnala il “Protocollo di autonomia per la gestione dei conflitti d’interessi” predisposto da Assogestioni nel febbraio 2011 e sottoposto all’adesione volontaria dei propri associati, ovverosia delle principali Sgr italiane.
[27] Cfr. Art. 5-septies, par. 1, lett. b), Direttiva 85/611/CEE il quale prevede che le società di gestione devono innanzitutto essere “strutturate ed organizzate” per minimizzare il rischio di conflitti di interesse. Nello stesso senso cfr. art. 12, par. 1, lett. b) e 14, par. lett. d), Direttiva 2009/65/CE.
[28] Cfr., ex plurimis, Corte d’Appello di Milano del 5 maggio 2010 e del 29 ottobre 2010.
[29] La disclosure generica circa la policy sui conflitti adottata dalle Sgr non dovrebbe più essere contemplata alla luce della sua mancata previsione da parte delle disposizioni comunitarie in materia (cfr. il Documento di consultazione Consob e banca d’Italia n. 17 dell’11 maggio 2011).
[30] Per un maggiore approfondimento sui “livelli” di regolamentazione dei conflitti di interesse, si veda L. Enriques, Conflicts of iinterest in investment services: the price and uncertain impact of Mifid’s regulatory framerowk, University of Oxford Faculty of Law; European Corporate Governance Institute (ECGI), 2005, p. 5 e ss.
[31] Cfr. Art. 39, co. 2, lett. d) del Regolamento Congiunto.
[32] Cfr. Art. 39, co. 3 del Regolamento Congiunto.
[33] Cfr. Art. 39, co. 5 del Regolamento Congiunto.
[34] Cfr. Art. 37, co. 2 del Regolamento Congiunto.
[35] A commento delle novità introdotte in materia di conflitti di interesse dalla MiFID II, rileva in particolare F. Annunziata, “Investment services and investment funds”, in Research handbook on european economic law, Eds. M. Ventoruzzo, F. Fabbrini, E. Edgar – Bocconi Legal Studies Paper n. 3345943, 2019, p. 21 -, che rimanda a S. Grundmann e P. Hacker, Conflicts of interest, in D. Bush-G. Ferrarini, (nt. 4), 165, e disponibile su SSRN: https://ssrn.com/abstract=3345943o https://dx.doi.org/10.2139/ssrn.3345943
[36] L’introduzione del pacchetto Mifid/Mifir ha indotto, sulla materia dei servizi di investimento e della gestione collettiva, la separazione dei poteri della Banca d’Italia e della Consob in materia di emanazione di norme attinenti ai rispettivi ambiti di competenza. Per un verso alla Consob è stata demandata la competenza in materia di conflitti di interesse, che ha declinato le relative norme, per i servizi di investimento, nel nuovo Regolamento Intermediari e, facendo riferimento al Regolamento europeo 231/2013, per la gestione collettiva del risparmio. Per altro verso, nei medesimi ambiti, la materia della governance e organizzativa è stata demandata alla Banca d’Italia (cfr. il Provvedimento della Banca d’Italia del 5 dicembre 2019 “Regolamento di attuazione degli articoli 4 – undecies e 6, comma 1 lett. b) e c-bis) del TUF”.