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L’intermediazione finanziaria e l’operatività in derivati con enti territoriali alla luce del nuovo quadro normativo e della recente giurisprudenza

9 Luglio 2019

Avv. Domenico Gaudiello, Partner, Avv. Mauro Iovino, Counsel, studio legale CMS

Di cosa si parla in questo articolo

Il quadro normativo regolante la prestazione dei servizi di investimento nei confronti degli enti pubblici italiani risulta sicuramente più chiaro dopo l’entrata in vigore del decreto legislativo n. 129 del 2017, con cui è stata recepita la Direttiva Europea 2014/65/EU (la c.d. Mifid II).

Risultano, infatti, meglio definite le nozioni di cliente pubblico nonché le relative procedure di classificazione.

Parimenti, tanto la verifica di adeguatezza quanto quella di appropriatezza dei servizi e prodotti finanziari collocati agli enti territoriali hanno assunto contorni e contenuti più chiari. Non sussistono più dubbi sugli organi competenti e sui poteri di rappresentanza all’interno dell’organizzazione di un ente (cliente) pubblico che decida di avvalersi di servizi di investimento. Resta purtuttavia sullo sfondo ancora il dubbio circa i servizi di investimento cui possa fare effettivamente ricorso (rectius, di cui abbia effettivamente bisogno) un cliente pubblico.

Muoviamo da questo ultimo profilo prima di soffermarci sui restanti tre. Concentreremo la nostra attenzione essenzialmente sugli enti territoriali, estendendo e puntualizzando, ove necessario, talune considerazioni agli altri enti pubblici diversi da quelli territoriali.

1. L’ente pubblico investitore

Esiste una apposita normativa che consente l’utilizzo di strumenti finanziari derivati da parte di regioni, province e comuni a copertura di sottostanti prestiti obbligazionari o altre passività finanziarie. Trattasi peraltro di un quadro normativo attualmente assai restrittivo, che limita la stipula di nuovi contratti derivati solo in relazione a sottostanti mutui (non più anche prestiti obbligazionari) e solo nella forma di una opzione cap (per gestire l’oscillazione del tasso variabile del mutuo sottostante).

Questo è quanto emerge dal susseguirsi frenetico delle disposizioni in materia, ovvero dall’articolo 62 (l’Articolo 62) del D.L. 25 giugno 2008 n. 112 (il D.L. 112/2008), convertito dalla Legge 6 agosto 2008 n. 133 (la Legge 133), per come da ultimo modificato dall’art. 1, comma 572, della legge 27 dicembre 2013, n. 147 (la Legge 147).

È tuttora ammessa la risoluzione anticipata dei contratti finanziari derivati nonché la rinegoziazione di detti contratti in presenza di una modifica delle passività sottostanti, nonché la cessione di detti contratti. Eccettuato il caso degli enti territoriali, non esiste un corpus normativo altrettanto dettagliato per gli altri enti pubblici non territoriali.

Al di fuori di riferimenti specifici all’utilizzo di contratti finanziari derivati, non è dato rintracciare né per gli enti territoriali né per il resto degli enti pubblici un corpus di regole che riguardi l’uso di altri prodotti finanziari o il ricorso ad altri servizi di investimento.

Cosa implica tutto ciò?

A stretto rigore, lo spazio di movimento riservato ad un ente territoriale e locale è pertanto ristretto all’uso dei contratti finanziari derivati, non esistendo ulteriori norme che facciano riferimento ad altri servizi di investimento, diversi dai contratti derivati, cui possa accedere un ente territoriale.

L’ente territoriale può acquistare il servizio di consulenza in materia di investimenti? La risposta è affermativa, purché la consulenza richiesta all’impresa di investimento si riferisca comunque alla sfera dei contratti finanziari derivati, nei limiti di quanto disposto dall’Articolo 62.

Al di fuori di questi casi è da escludersi che un ente territoriale possa fare ricorso a servizi di investimento diversi dai prodotti finanziari derivati (nelle forme e nei limiti chiariti dall’Articolo 62) e di consulenza in materia di investimenti (purché relativa all’uso dei contratti finanziari derivati).

2. La definizione di cliente pubblico e la relativa procedura di classificazione

Il Decreto Ministeriale n. 236 del 2011 (il D.M. 236/2011) ha definitivamente consacrato la peculiarità della figura dell’ente pubblico che fa ricorso ai servizi di investimento, giacché ha fissato una procedura ad hoc per la classificazione degli enti pubblici come clienti di imprese che prestano servizi di investimento.

La disciplina in questione stabilisce che sono clienti pubblici dei servizi di investimento il Governo, la Banca d’Italia, le regioni, le province ed i comuni.

Governo e Banca d’Italia sono clienti professionali, mentre regioni, province e comuni sono definiti come clienti al dettaglio salvo che facciano apposita richiesta di venire trattati come professionali (purché sussistano determinati presupposti di fatto, economici e finanziari).

Ciò che più occorre mettere in luce è la procedura, per certi versi fin troppo minuziosa, cui deve soggiacere l’impresa di investimento che si trovi a classificare il cliente pubblico dei servizi di investimento.

Ebbene, il D.M. 236/2011 prevede che, l’impresa di investimento debba ottenere (i) una comunicazione scritta da parte del cliente in cui quest’ultimo affermi di avere i presupposti di fatto, economici e finanziari prima richiamati (e tassativamente indicati dallo stesso D.M. 236/2011) e di voler essere trattato come cliente professionale generalmente o relativamente ad una determinata operazione o prodotto; nonché (ii) una dichiarazione del responsabile della gestione finanziaria dell’ente che attesti di avere un’adeguata qualificazione professionale in materia finanziaria, con indicazione dell’esperienza maturata nel settore finanziario.

Superati tali adempimenti, l’intermediario deve inviare una comunicazione scritta, formulata con concetti e termini chiari e puntuali, ai predetti clienti, con la quale vengano loro precisati le protezioni ed i diritti di indennizzo che potrebbero perdere in seguito alla diversa classificazione richiesta.

Fatto ciò, l’intermediario può accettare la richiesta del cliente, non prima però di aver ottenuto una dichiarazione scritta (in un documento separato dal contratto), con cui quest’ultimo dichiara di essere a conoscenza delle conseguenze derivanti dalla perdita delle protezioni e dei rischi assunti, e non prima dell’accertamento della sussistenza dei requisiti di fatto, economici e finanziari, previsti dal D.M. 236/2011, in capo al cliente che richiede di essere considerato cliente professionale.

È implicito che qualsiasi dichiarazione del dirigente debba essere adeguatamente supportata e rispondente alla relativa delibera consiliare degli organi di appartenenza.

Il rispetto della procedura di classificazione delineata dal legislatore non esime l’intermediario dall’obbligo di continuare a valutare costantemente la sussistenza delle condizioni necessarie per trattare il cliente come professionale, nel caso modificando la classificazione richiesta, questo a prescindere dalle informazioni successivamente inviate dallo stesso cliente.

Tutto questo si concretizza nella necessità, da parte dell’intermediario, di acquisire costantemente dall’ente informazioni aggiornate sullo stato di salute dell’ente stesso.

3. La verifica di adeguatezza ed appropriatezza

Gli intermediari in base al vigente regime, così come ridisegnato dalla MiFID II, devono assicurare agli enti locali (proprio perché di diritto clienti retail) il più alto grado di protezione (quello disciplinato dalla sezione II dell’articolo 19 e seguenti di MiFID II e dalla parte II, sezione III, del Regolamento Intermediari 20307/2018).

Volendo fare un esempio pratico, in caso di risoluzione anticipata di un derivato, che è una delle operazioni che la legge prevede che un ente territoriale possa effettuare, l’intermediario (ancor più in base a MiFID II) dovrà compiere sempre un’analisi di adeguatezza dell’operazione al fine di sincerarsi che l’operazione stessa sia comunque in linea con il profilo del cliente e con lo specifico quadro normativo e regolamentare previsto per i derivati sottoscritti dalla pubblica amministrazione.

Tale considerazione vale anche se a richiedere o sollecitare l’operazione di estinzione anticipata del derivato sia stato lo stesso ente pubblico. Infatti, in virtù proprio del fatto che deve essere trattato e classificato come cliente retail, andrà svolta una verifica di adeguatezza secondo le regole dettate da MiFID II, dal Decreto Legislativo 58 del 1998 (TUF) e dall’art. 40 del Regolamento intermediari 20307 del 15 febbraio 2018, nonché dal Decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze 236/2011, assodato che la nostra analisi è incentrata su operazioni derivate poste in essere da controparti pubbliche.

Per valutare se un’operazione sia adeguata al profilo di un determinato cliente, l’intermediario dovrà richiedere all’ente pubblico informazioni sulla conoscenza ed esperienza in operazioni aventi ad oggetto strumenti finanziari derivati, nonché la situazione finanziaria dell’ente e gli obiettivi di quest’ultimo (che nel caso degli enti locali non possono che essere, per quanto più avanti si chiarirà, obiettivi di risparmio finanziario e convenienza economica).

Va da sé che, nel caso di contratti in essere, l’intermediario è tenuto ad aggiornare tutte le informazioni che aveva acquisito all’epoca della sottoscrizione dell’operazione.

Questo tipo di aggiornamento andrà effettuato quantomeno su base annuale, consegnando una relazione al cliente in maniera tale che questo possa verificare l’effettiva correttezza delle informazioni aggiornate.

La verifica di adeguatezza non deve solo riguardare operazioni nuove, ma deve essere condotta anche nel caso di rinegoziazione di contratti già in essere, di cessione degli stessi e della loro risoluzione anticipata.

Con specifico riferimento alla risoluzione anticipata di contratti derivati, la verifica dell’intermediario dovrà riguardare la concreta conoscenza da parte dell’ente della modalità di calcolo del costo di risoluzione anticipata, eventualmente dovuto.

Diversamente, invece, in caso di cessione di un contratto derivato, la nuova impresa d’investimento cessionaria del contratto dovrà verificare che i presupposti e l’utilità che l’operazione oggetto di cessione aveva all’epoca della stipula del relativo contratto, e che rendeva l’operazione adeguata al profilo ed alle finalità finanziarie dell’ente, siano ancora persistenti. In altri termini, in caso di cessione del contratto così come in caso di risoluzione anticipata dello stesso, occorre che l’intermediario conduca una specifica valutazione di adeguatezza.

Al riguardo vale la pena richiamare la recentissima sentenza (n. 9680 del 5 aprile 2019) emessa dalla Suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite che, chiamata a pronunciarsi su una sentenza emessa in grado d’appello dalla Sezione Giurisdizionale Centrale della Corte dei Conti, ha sancito che è legittimo e corretto e non comporta una sindacabilità nel merito delle scelte discrezionali della pubblica amministrazione (vietata dall’art. 1 della Legge n. 20 del 1994) la sentenza con la quale i giudici contabili accertino come gravemente imprudente la scelta di dare corso ad un’operazione di finanza derivata attraverso la stipulazione di un contratto a determinate condizioni, andando in sostanza a censurare il modo di attuazione della scelta da parte dell’amministratore pubblico.

Nello specifico, i giudici contabili (nel riformare parzialmente la sentenza di primo grado emessa dalla Sezione Giurisdizionale per la Regione Umbria) hanno riconosciuto la responsabilità di alcuni amministratori e di un funzionario condannandoli al risarcimento per danno erariale, in relazione ad un’operazione, rivelatasi dannosa, di finanza strutturata del tipo Interest Rate Swap, con clausola floor e cap conclusa per le finalità di cui all’art. 41 della Legge 448 del 2001.

Con il predetto ricorso per Cassazione, che è sfociato nella sentenza n. 9680/2019, il sindaco ed il funzionario comunale avevano censurato l’eccesso di potere giurisdizionale, da parte dei giudici contabili, per pretesa invasione della sfera di discrezionalità dell’amministrazione comunale.

Per le ragioni appena richiamate, gli ermellini hanno dichiarato l’inammissibilità del motivo di ricorso prospettato dai pubblici ricorrenti.

Quello che più interessa in questa breve disamina è che, con la sentenza d’appello, confermata dalle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, è stata riconosciuta la responsabilità erariale del pubblico funzionario per aver concluso un’operazione finanziaria senza avere le conoscenze idonee a comprendere adeguatamente il funzionamento della stessa operazione e senza aver richiesto la consulenza preventiva di un soggetto specializzato.

Fermo restando quanto sopra, a chi deve rivolgersi la verifica di adeguatezza ed appropriatezza?

Per essere pratici, quali sono gli interlocutori cui l’intermediario deve rivolgere dette verifiche?

Solo all’apparenza trattasi di una domanda ingenua. Rientra inevitabilmente nella dovuta verifica di adeguatezza (art. 40 del Regolamento Intermediari 20307 del 15 febbraio 2018) e appropriatezza (art. 42 del Regolamento Intermediari 20307 del 15 febbraio 2018) la disamina degli atti deliberativi del processo decisionale assunto dall’ente. L’impresa di investimento non può prescindere pertanto dalla analisi delle decisioni dell’ente. A ben vedere potrebbe risultare dagli atti che l’ente sia ignaro della inidoneità dello strumento finanziario richiesto, oppure che l’ente non abbia valutato le diverse soluzioni disponibili per il raggiungimento dello scopo indicato in delibera, oppure che l’ente non disponga delle risorse per la copertura per gli impegni che intende assumere. In presenza di simili circostanze grava sull’impresa di investimento l’obbligo di astersi dalla stipula di quanto deciso dall’ente, oppure, a seconda dei casi, l’obbligo di dissuadere l’ente dalla prosecuzione di quanto precedentemente deciso e stipulato.

Considerando questo ultimo profilo dalla prospettiva dell’ente locale, risulta inevitabilmente estesa agli organi politici la responsabilità per scelte decisionali assunte senza il dovuto approfondimento delle implicazioni finanziarie e funzionali dei contratti sottoscritti.

4. Gli organi competenti e i titolari del potere di rappresentanza del cliente pubblico

La scelta di stipulare un contratto finanziario derivato spetta agli organi titolari del potere di impegnare le risorse dell’ente su base pluriennale. Questa è l’indicazione che si ricava dall’art. 42 del Testo Unico degli Enti Locali. Analoga indicazione è dato ricavare dal quadro normativo adottato da ciascuna regione.

Questo implica che in nessun caso potrà mancare l’autorizzazione da parte dell’organo consiliare qualora l’ente territoriale dovesse decidere di stipulare un contratto derivato, di rinegoziarlo e/o di risolverlo anticipatamente.

Chiaramente la procedura decisionale che un ente territoriale dovrà seguire non si esaurisce nella sola decisione consiliare, dovendo a questa seguire l’attuazione da parte degli organi esecutivi, cui fa ulteriore seguito la stipula ad opera dei titolari del potere dirigenziale del settore di competenza.

Specifiche regole andranno ricercate nei relativi regolamenti di contabilità adottati, a seconda dei casi, da regione, comune e provincia per disciplinare le rispettive procedure di spesa.

Di nuovo, la verifica di adeguatezza e appropriatezza dovrà tenere conto degli obiettivi delineati in ciascuno degli atti contabili relativi all’operazione sottoscritta.

5. Conclusioni

È possibile sintetizzare i ragionamenti sin qui svolti fissando le seguenti conclusioni.

Allo stato attuale, il novero dei servizi di investimento cui possono fare ricorso gli enti territoriali e locali è parecchio ristretto, riducendosi alla stipula di contratti finanziari derivati (nei limiti della opzione cap sul tasso variabile del mutuo sottostante) ed alla consulenza in materia di investimenti limitatamente ai contratti finanziari derivati (si tratta di risoluzione anticipata, rinegoziazione o stipula dell’opzione cap).

Gli enti territoriali che si avvalgono degli anzidetti servizi di investimento devono essere classificati secondo una procedura rigorosa, che non lasci margini di manovra alle imprese di investimento che ne sono controparte.

La valutazione di adeguatezza (in caso di stipulazione, cessione, rinegoziazione e risoluzione dei contratti derivati) e di appropriatezza (in caso di consulenza in materia di investimenti) non può ridursi ad una verifica, da parte dell’intermediario, delle competenze ed esperienze del dirigente responsabile del settore finanziario del cliente pubblico. Essa deve riguardare la finalità dell’operazione e la sua idoneità a raggiungere lo scopo fissato negli atti deliberativi assunti dall’organo consiliare e dall’organo esecutivo. Questo è l’insegnamento che si trae dalla pronuncia contabile sopra citata, con la quale, a ben vedere, il giudice contabile ha sanzionato la negligenza di chi, maneggiando il denaro pubblico, non abbia acquisito le informazioni necessarie a deliberare consapevolmente.

È, però, del tutto separato il tema che riguarda la responsabilità dell’intermediario che, agendo come controparte di chi maneggia denaro pubblico, non si sia astenuto dal dare esecuzione a decisioni assunte superficialmente da detto cliente.

 

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