La regola dell’onere della prova disciplinata dall’art. 2697 cod. civ. viene applicata dalla Corte di Cassazione, nell’ordinanza in commento, a una fattispecie di transfer pricing. La quinta sezione ribadisce che in materia di transfer pricing non sussiste in capo all’Amministrazione finanziaria l’onere di provare il mancato rispetto del valore normale (condizioni di libera concorrenza) delle transazioni infragruppo involgenti il contribuente, non trattandosi di elusione fiscale o, se si preferisce, di abuso del diritto.
Infatti, la Corte ribadisce che“la normativa …[di cui all’art. 110 comma 7 TUIR] non integra una disciplina antielusiva in senso proprio, ma è finalizzata alla repressione del fenomeno economico del «transfer pricing» (spostamento d’imponibile fiscale a seguito di operazioni tra società appartenenti al medesimo gruppo e soggette a normative nazionali differenti) in sé considerato, sicché la prova gravante sull’Amministrazione finanziaria riguarda non il concreto vantaggio fiscale conseguito dal contribuente, ma solo l’esistenza di transazioni, tra imprese collegate, ad un prezzo apparentemente inferiore a quello normale, mentre incombe sul contribuente, giusta le regole ordinarie di vicinanza della prova ex art. 2697, cod. civ, ed in materia di deduzioni fiscali, l’onere di dimostrare che tali transazioni siano intervenute per valori di mercato da considerarsi normali alla stregua di quanto specificamente previsto dall’art. 9, comma 3, t.u.i.r. (Cass. n. 7493 del 15/4/2016; n. 13387 del 30/6/2016; Cass. 27018 del 15/11/2017; Cass. n. 18392 del 18/9/2015; Cass. n. 9673 del 19/4/2018).”
Utilizzando tale principio di diritto, gli Ermellini cassano con rinvio la sentenza di secondo grado che aveva accolto il ricorso in appello di un contribuente al quale l’Agenzia delle Entrate aveva contestato maggiori ricavi non contabilizzati in violazione dell’art. 110 comma 7 TUIR.
Più precisamente, la controversia riguardava l’impugnazione di quattro avvisi di accertamento ai fini delle imposte dirette e dell’IRAP per gli anni dal 2003 al 2006 da parte di una società residente in Italia che gestisce, con altre due consociate estere facenti parte del medesimo gruppo, un oleodotto attraversante più Stati Membri.
Nel ripartire i ricavi fra le tre società, il gruppo aveva adottato il Profit Split Method.
L’Ufficio, pur riconoscendo la validità del metodo adottato, aveva contestato i criteri di allocazione utilizzati: secondo i verificatori bisognava tenere conto anche dei costi di manutenzione sostenuti annualmente, e non solo dei chilometri di oleodotto di competenza di ciascuna società e delle immobilizzazioni materiali iscritte nei loro bilanci. Di diverso avviso erano sia la CTP di Trieste che la CTR che invece avevano ritenuto che “trattandosi di un’ipotesi di elusione fiscale, l’onere della prova è a carico dell’Amministrazione finanziaria sull’Agenzia, quale attrice sostanziale, non soltanto in forza del principio di cui all’art. 2697, cod. civ., ma anche per l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità, che echeggia la direttiva OCSE del 1995, ed afferma che il contribuente non è tenuto a dimostrare la correttezza dei prezzi di trasferimento applicati, se innanzitutto l’A.F. non ha provato prima facie il mancato rispetto del «valore normale»“.
La Corte di Cassazione ha inoltre colto l’occasione per ripercorrere l’evoluzione applicativa del Profit Split Method e per affermare che l’allocazione dei costi infragruppo non è irrilevante ai fini dell’affidabilità in concreto del metodo. La CTR, invece, non solo aveva invece considerato la fattispecie come un’ipotesi di elusione fiscale, ma non aveva nemmeno tenuto conto della forte asimmetria dei costi infragruppo, contestata negli atti, mentre la disomogenea allocazione dei costi tra le società correlate costituisce un classico campanello d’allarme della possibile inaffidabilità, in concreto, del PSM.