1. La conversione in legge del decreto-legge 14 febbraio 2016, n.18, concernente la riforma delle banche di credito cooperativo, dopo l’approvazione ottenuta ieri dalla Camera, sembra avviata a definitiva conclusione. Le modifiche recate in sede parlamentare lasciano sostanzialmente immutato l’impianto sistemico del d.l., orientato alla promozione di un ‘gruppo unico cooperativo’, al di là della formale rappresentazione di un intento normativo favorevole alla costituzione di più gruppi.
Ho già evidenziato in altre occasioni (da ultimo in un’Audizione presso la Camera tenuta il 1° marzo u.s.) le ragioni che inducono a guardare con perplessità il raggruppamento della quasi totalità delle BCC in un unico mega gruppo; ragioni riconducibili, per un verso, agli inevitabili riflessi negativi sulla specificità cooperativa di una governance troppo lontana dai centri di destinazione dei suoi input strategici, per altro al significativo divario (tecnico operativo) esistente tra tale ‘gruppo’ (per dimensione tra i più grandi d’Italia) e quelli caratterizzati da ben diversa tradizione di professionalità (come Intesa e Unicredit) con i quali dovrà competere nel mercato. Per converso, non ho mancato di sottolineare che la predisposizione di criteri disciplinari (quali un congruo ridimensionamento dell’ammontare del patrimonio della capogruppo ed un abbassamento dei limiti quantitativi posti all’attivazione del way out) avrebbe potuto facilitare la costituzione di più gruppi, con ovvio benefico esito sul mantenimento del ruolo tipicamente proprio delle BCC, quali «agenti integratori» dei distretti industriali, destinati a supportare finanziariamente le PMI.
2. Riservandomi di tornare sull’argomento e volendo limitarmi ora a qualche breve considerazione ‘a caldo’, rileva – nel testo approvato dalla Camera – la previsione secondo cui le BCC «aventi sede legale nelle province autonome di Trento e di Bolzano possono rispettivamente costituire autonomi gruppi bancari cooperativi composti solo da banche aventi sede e operanti esclusivamente nella medesima provincia autonoma». Tale disposto normativo – che potrebbe segnare un’apertura alla costituzione di uno o due gruppi autonomi – viene subito controbilanciato da un’altra statuizione nella quale si fa riferimento alla possibile costituzione di «sottogruppi territoriali facenti capo a una banca costituita in forma di società per azioni sottoposta a direzione e coordinamento della capogruppo»; donde il probabile intento disciplinare di ricondurre anche i citati due gruppi a quello ‘unico’, mediante il loro posizionamento in un contesto di sub holding.
Va segnalata, inoltre, la modifica delle modalità d’intervento in subiecta materia consentite al Ministro dell’economia e delle finanze. Con riguardo alla possibilità di determinare il «numero minimo di banche di credito cooperativo di un gruppo bancario cooperativo», si passa, infatti, da una previsione di carattere generico ad una opportuna correlazione di tale intervento «al fine di assicurare l’adeguatezza dimensionale e organizzativa del gruppo bancario cooperativo». Si è in presenza di una precisazione che, pur attenuando l’eventualità di obiezioni di irragionevolezza – cui potrebbe essere ricondotta la dubbia costituzionalità di tale norma – non elimina, tuttavia, l’esigenza di controllare l’esercizio del potere discrezionale che nella fattispecie ricorre; sicchè, il Ministro dovrà di volta in volta fornire le motivazioni del suo agere, lasciando comunque aperta la via a possibili contestazioni in sede giurisdizionale.
Da ultimo, meritevoli di annotazione devono ritenersi i mutamenti recati alla disciplina della way out. E’ stato, infatti, previsto che le BCC non intenzionate ad aderire al ‘gruppo unico’ possono «entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione …. (presentare)… istanza, anche congiunta, alla Banca d’Italia… di conferimento delle rispettive aziende bancarie ad una medesima società per azioni autorizzata all’esercizio dell’attività bancaria, anche di nuova costituzione, purché la banca istante o, in caso di istanza congiunta, almeno una delle banche istanti, possieda, alla data del 31 dicembre 2015, un patrimonio netto superiore a duecento milioni di euro».
E’ di certo questa la più significativa modifica del d.l. nella direzione del rispetto della specificità cooperativa: si individua, forse, l’unico spiraglio consentito (per la fuga dal gruppo unico) alle banche che vogliono conservare la loro originaria funzione, realizzando ‘gruppi’ ulteriori rispetto a quello patrocinato da Federcasse e validato dalla Banca d’Italia. Il nesso che la normativa configura tra lo scorporo della azienda bancaria e la costituzione a valle della S.p.A. creditizia così derivata (ovvero dell’aggregato che si determina in presenza di più istanze in tal senso) – recependo talune indicazioni che ebbi ad evidenziare nella menzionata Audizione (sulle quali concorda ampia parte della dottrina) – consente, infatti, la conservazione del metodo cooperativo (nella società conferente) e, per quanto concerne l’operatività del gruppo (ovviamente di dimensioni più contenute rispetto a quello unico), metodologie d’ intervento consone al localismo bancario. Da sottolineare, peraltro, come nonostante il rilievo ascrivibile alla innovazione in esame, l’introduzione ex novo di un ristretto arco temporale (60 giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione, di ampiezza significativamente inferiore a quella prevista nella riforma delle banche popolari) entro cui far valere la facoltà dianzi precisata di certo introduce un elemento ulteriore di difficoltà per l’attuazione della way out (in aggiunta ai preesistenti oneri fiscali), confermando l’ipotesi di essere in presenza di una chiara opzione legislativa per il ‘gruppo unico’.
Se ne deduce che la riforma, quale che siano i suoi concreti esiti, genera tensione all’interno della categoria ed incentra la positività dei suoi effetti su una sorta di sfida a ravvisare nelle indicate modifiche morfologiche delle banche di credito cooperativo il presupposto per un miglioramento complessivo del sistema creditizio italiano. Ciò, prescindendo da una malintesa riferibilità a modelli esteri (in particolare, a quelli d’oltralpe), introduce nelle logiche della regolazione pericolose forme d’ intervento che affidano il loro successo alle modalità reattive del mercato.
3. Nella valutazione del nuovo testo della riforma delle banche di credito cooperativo non va trascurato di sottolineare l’importante ruolo svolto dalla Banca d’Italia nell’iter di formazione della disciplina in esame.
Esso è desumile dagli interventi di un autorevole esponente della nostra autorità di vigilanza succedutisi nell’ultimo semestre. Mi riferisco alle riflessioni del Capo del Dipartimento di Vigilanza Bancaria, Carmelo Barbagallo, il quale in una pluralità d’occasioni (la relazione svolta in un ‘Seminario istituzionale sulle tematiche relative alla riforma del settore delle banche di credito cooperativo’, presso il Senato della Repubblica, l’Audizione tenuta alla Camera dei deputati e, da ultimo, le considerazioni formulate in un recente incontro presso la Fondazione Italianieuropei) ha tracciano lo scenario che fa da sfondo alla riforma in esame. In esso l’identificazione delle difficoltà operative, in cui attualmente versano molte BCC, fa da presupposto all’individuazione dei limiti che al presente ne condizionano la stabilità; donde le ragioni che hanno fatto ravvisare all’Organo di vigilanza la necessità di sollecitare una riforma, poi sfociata nel richiamato d.l. n. 18 del febbraio 2016.
Si è in presenza di un quadro che si connota per l’accresciuta rischiosità in cui versano gli enti creditizi in parola, per l’elevato livello delle partite deteriorate e delle sofferenze, cui si accompagna un obbligo di rettifica che si riflette sugli equilibri reddituali; una situazione, dunque, di grande difficoltà complessiva (anche se, per stessa ammissione di Barbagallo, «in base ai primi dati riferiti a dicembre 2015, le BCC in tale condizione erano circa 50 e rappresentavano il 16 per cento dell’attivo della categoria»). Consegue la configurabilità di ‘giuste’ motivazioni che, ad avviso della Banca d’Italia, impongono di procedere a forme di integrazione, all’interno della categoria, finalizzate a rimediare all’attuale incapacità di patrimonializzazione degli enti creditizi in parola.A ciò si aggiungano i difetti di una governance, con riguardo alla quale la «prossimità al territorio» viene considerata presupposto di «conflitti di interesse e condizionamenti locali».
E’, questa, un’analisi pienamente condivisibile, condotta con il rigore tecnico che per solito contraddistingue l’azione della Banca d’Italia; in essa sorprende, peraltro, l’espressa denuncia dei «vincoli giuridici connaturati alla forma cooperativa, in primo luogo …la regola rigida del voto capitario». E’ ravvisabile, in tale giudizio, la condanna della peculiare essenza della cooperazione (i.e. la cd. gestione democratica) e, dunque, si individuano in nuce le ragioni dell’abbandono di un modello che, per decenni, ha caratterizzato il sistema creditizio italiano.
Da qui l’opzione della Banca d’Italia per la grande dimensione del ‘gruppo unico’- per certi versi destinato a disancorarsi dal tradizione schema della cooperazione (che si tenta di recuperare attraverso un forzato riconoscimento dellatutela della mutualità) – verso il quale essa tenta di traghettare le BCC, incurante del fatto che, per tal via, finisce col venir meno il principio del pluralismo bancario, che dai lontani anni trenta del novecento ha costituito uno dei capisaldi della nostra legislazione speciale. In tale contesto, si spiega, altresì, il pieno sostegno dato alla tesi di una way out «esercitabile entro un limitato arco temporale e solo nella fase di prima applicazione della riforma».
Quali siano le ragioni profonde di questo orientamento decisionale è tematica non analizzabile in questa sede. Ciò che, tuttavia, ritorna alla mente è il dubbio – che, nella mia Audizione parlamentare, avevo ritenuto potesse essere fugato in sede di conversione – riguardante l’assunzione di una linea comportamentale dettata dall’ intento di traslare sotto la supervisione della BCE (attesa la dimensione del gruppo unico) soggetti bancari gravati da complesse problematiche.