Con sentenza 7 maggio 2024, n. 12398, la Corte di Cassazione ha stabilito che la caparra penitenziale – quale negozio accessorio, funzionale a garantire un corrispettivo in caso di recesso unilaterale – è soggetta ad imposta di registro, per il relativo ammontare, nel solo caso in cui il recesso venga esercitato da una delle parti.
In particolare, trova applicazione l’art. 28 del d.p.r. 131/1986, a mente del quale, nel caso in cui venga pattuito un corrispettivo per la risoluzione di un contratto, al relativo ammontare si applica, nel momento in cui si verifichi lo scioglimento del rapporto, l’imposta proporzionale del 3% prevista dall’art. 9 della Tariffa Parte Prima (“TP1”), salvo che il corrispettivo sia oggetto di quietanza in atto pubblico o scrittura privata autenticata, nel cui caso si applica, nell’immediatezza della stipula, l’aliquota dello 0,5% prevista dall’art. 6 TP1.
Ne deriva che, anche con riguardo alla caparra penitenziale, in caso di recesso, il relativo ammontare sconterà l’imposta nella misura del 3%, salvo che il corrispettivo sia stato oggetto di quietanza, ipotesi in cui l’imposta si applicherà, con immediatezza, nella misura dello 0,5%.
Inoltre, ex art. 10 TP1, l’imposta di registro eventualmente già versata sulla caparra quietanzata, qualora non venga esercitato il diritto di recesso conferito in un contratto preliminare, va imputata all’imposta dovuta sul contratto definitivo, se la caparra abbia assunto funzione di acconto sul prezzo.
Sulla base di tali principi, la Corte ha rigettato il ricorso dell’Agenzia delle Entrate proposto avverso la sentenza d’appello che, confermando la sentenza di primo grado, aveva accolto il ricorso dei contribuenti per l’annullamento di un avviso di rettifica dell’imposta di registro dovuta su un contratto preliminare, applicando alla somma pattuita a titolo di caparra penitenziale l’aliquota del 3%, anziché quella dichiarata, pari allo 0,5%, a prescindere dall’avvenuto esercizio del recesso (che, nella specie, non era avvenuto).
Peraltro, desta interesse che la tesi dei contribuenti, volta a giustificare il ridotto livello di tassazione applicato, non era basata sull’eventuale rilascio di quietanze, bensì era fondata sull’equiparazione della caparra penitenziale alla caparra confirmatoria, la quale sconta la tassazione dello 0,5% prevista, in base al medesimo art. 6 TP1, per le “garanzie reali e personali”.
La Corte ha rigettato tale ricostruzione (limitandosi a correggere la motivazione della sentenza d’appello, vista l’identità del livello di tassazione applicato) attesa la diversità strutturale e funzionale della caparra penitenziale rispetto alla caparra confirmatoria, avente quest’ultima prevalente scopo risarcitorio (e non “corrispettivo”).