Il diniego parziale di autotutela rispetto a una pretesa tributaria divenuta definitiva non può essere impugnato, in quanto, in tale ipotesi, il provvedimento non può comportare alcuna lesione ulteriore degli interessi del contribuente rispetto al quadro a lui già noto.
A chiarirlo è la Corte di Cassazione nella sentenza n. 7511, depositata il 15 aprile 2016.
In ispecie, i giudici di legittimità hanno accolto il ricorso per cassazione proposto dall’Agenzia delle Entrate avverso una sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio che, in accoglimento dei ricorsi riuniti presentati dal contribuente, aveva rivisto in riduzione la determinazione sintetica del reddito operata con gli avvisi di accertamento impugnati.
La ricorrente eccepiva la non impugnabilità del provvedimento di rifiuto parziale di autotutela ricevuto dal contribuente, non rientrando, tale atto, nella previsione di cui all’art. 19, del D.Lgs. n. 546/1992, che elenca gli atti impugnabili.
La Suprema Corte ha accolto i motivi di ricorso formulati dall’istante asserendo, in primo luogo, di voler dare continuità al principio di diritto, già affermato dalle Sezioni Unite[1], secondo cui il predetto provvedimento non è impugnabile, poiché, diversamente opinando, si darebbe ingresso a una inammissibile controversia sulla legittimità di un atto impositivo ormai definitivo.
La Corte prende atto, poi, dell’esistenza di una giurisprudenza difforme e favorevole all’impugnabilità[2], da parte del contribuente, dell’annullamento parziale di un avviso impositivo già definitivo. Ciononostante, si legge nella sentenza, “tale precedente non offre argomenti convincenti a supporto dell’accolta soluzione”, apparendo di contro dirimente il rilievo che il provvedimento di autotutela di portata riduttiva rispetto alla pretesa impositiva contenuta negli atti divenuti definitivi non può comportare alcuna effettiva innovazione lesiva degli interessi del contribuente rispetto a quanto a lui già noto e consolidatosi in ragione della mancata tempestiva impugnazione del precedente accertamento.
Per converso, secondo la Corte di Cassazione, può e deve ammettersi un’autonoma impugnabilità del nuovo atto se di portata ampliativa rispetto all’originaria pretesa.
I giudici sconfessano, dunque, la diversa presa di posizione della sentenza n. 14243 del 2015, affermando un principio che, a ben vedere, presta il fianco ad alcune osservazioni critiche.
E invero, con la pronuncia appena citata gli ermellini avevano di fatto accolto gli argomenti addotti dalla costante giurisprudenza di legittimità a sostegno della tesi della impugnabilità del diniego di autotutela, ancorchè tale atto non fosse ricompreso tra quelli elencati dall’art. 19, del D.Lgs. n. 546/1992.
L’orientamento prevalente della Suprema Corte, facendo leva sulla necessità di integrare in via interpretativa il contenuto del predetto art. 19[3], in caso di negazione dell’impugnabilità di tale diniego, aveva finanche paventato il potenziale rischio di lacune di tutela giurisdizionale, e, conseguentemente, di incostituzionalità del sistema, ai sensi degli artt. 24 e 113 della Costituzione[4].
In particolare, secondo la Corte, il diniego era ritenuto impugnabile a condizione che il contribuente formulasse istanza di autotutela non per motivi inerenti l’atto divenuto definitivo, bensì solo per fatti modificativi di detto atto o per eventi sopravvenuti incidenti sull’originaria pretesa. Diversamente, non si sarebbe potuto sindacare l’esercizio del potere di autotutela siccome frutto di “attività discrezionale propria” e in quanto sostanzialmente incidente sull’originario provvedimento impositivo.
Orbene, muovendo da tali argomentazioni i giudici di legittimità, nella richiamata pronuncia n. 14243/2015 erano giunti ad affermare che “L’esercizio del potere di autotutela in materia tributaria attraverso l’annullamento parziale di un avviso impositivo, non preclude al contribuente, ancorchè l’originario provvedimento fosse già definitivo, la possibilità di impugnare, nei termini di legge, il provvedimento emesso in autotutela, privandosi altrimenti il contribuente della possibilità di difesa relativamente a tale atto, ancorché riduttivo della originaria pretesa”. Il contribuente è però tenuto a dimostrare un interesse pubblico all’annullamento d’ufficio dell’atto, pena la violazione del diritto di difesa di quest’ultimo laddove il provvedimento di cui viene richiesto l’annullamento sia idoneo a incidere sul rapporto tributario.
La Suprema Corte, dunque, sembrava aver segnato il punto in tema di sindacabilità del provvedimento di diniego di autotutela, superando il contrapposto indirizzo giurisprudenziale.
Ebbene, la sentenza che qui si annota, sconfessando apertamente le conclusioni appena esposte, propone una peculiare “rilettura” dell’opposto orientamento, contrario all’impugnabilità del diniego di autotutela[5].
I giudici di legittimità precisano infatti che l’impugnabilità del provvedimento di rigetto dell’autotutela deve essere esclusa ogni qualvolta la richiesta di annullamento sia parziale o abbia portata riduttiva rispetto alla pretesa impositiva contenuta negli atti divenuti definitivi, giacchè in tale ipotesi il contribuente non vedrebbe lesi i propri interessi.
Al contrario, la Corte afferma l’ammissibilità della autonoma impugnabilità del nuovo atto se di portata ampliativa rispetto all’originaria pretesa.
Tali argomentazioni non appaiono tuttavia condivisibili. In particolare, non si comprende la ragione per cui la questione dell’impugnabilità del diniego di autotutela debba essere risolta diversamente a seconda che la richiesta di ritirare l’atto abbia o meno “portata ampliativa” rispetto alla originaria pretesa.
Una volta riconosciuta la proponibilità, innanzi alle Commissioni tributarie, del ricorso avverso il rigetto di autotutela, non pare sostenibile la praticabilità di tale soluzione limitatamente ai dinieghi “totali”.
Peraltro, anche a voler ritenere che, nella pronuncia annotata, la Corte abbia inteso valorizzare l’esigenza di impedire che il ricorso contro il diniego di autotutela possa essere indebitamente utilizzato al fine di legittimare l’elusione del termine decadenziale per impugnare, non si vede la ragione per cui detta esigenza debba essere rinvenuta soltanto in caso di annullamento parziale o comunque di provvedimenti aventi portata riduttiva rispetto alla pretesa impositiva contenuta negli atti divenuti definitivi e non, invece, in caso di annullamento “totale” dell’atto in autotutela.
La motivazione della sentenza in commento, invero, appare laconica sul punto.
Sarebbe auspicabile, dunque, un intervento chiarificatore in termini rapidi, onde evitare il rischio di propagazione di un terzo orientamento giurisprudenziale, favorevole a riconoscere l’impugnabilità del diniego di autotutela esclusivamente in via “condizionata”, ossia soltanto a fronte di richiesta di integrale annullamento dell’atto contenente la pretesa impositiva.
[1] Cfr. Cass. SS.UU, n. 3698, del 16 febbraio 2009.
[2] Cfr. Cass. n. 14243, dell’8 luglio 2015.
[3] In tal senso Cass. n. 16776, del 10 agosto 2005.
[4] Così Cass. 7388, del 27 marzo 2007.
[5] V. già citata Cass. SS.UU n. 3698/2009.