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Giurisprudenza

La Cassazione sul c.d. insider di sé stesso

10 Novembre 2021

Andrea Galleano

Cassazione Penale, Sez. V, 11 agosto 2021, n. 31507 – Pres. Palla, Rel. De Marzo

In tema di abuso di informazioni privilegiate, la Suprema Corte chiarisce che l’art. 184, comma 1°, lett. a), D. Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 «non punisce chi disponga di una mera posizione privilegiata derivante dalla possibilità di meglio leggere, valorizzare, interpretare informazioni, ivi incluse quelle di pubblico dominio, delle quali disponga, ma colui che, come nel caso di specie, essendo a conoscenza, in ragione delle qualità soggettive indicate dal legislatore, di eventi price sensitive […], sfrutti siffatta conoscenza per operare in condizioni di disparità con gli altri investitori, finendo per danneggiare un valore (la fiducia nella trasparenza dei mercati), che mira ad incentivare e a non scoraggiare l’afflusso e la circolazione dei capitali nell’interesse degli stessi imprenditori interessati al loro utilizzo per iniziative produttive».

Nel caso di specie, la Corte d’appello di Milano confermava la sentenza di condanna dei tre imputati per il reato di abuso di informazioni privilegiate di cui al citato art. 184, comma 1°, lett. a), per avere essi realizzato un illecito profitto mediante l’acquisto delle azioni di una società in relazione alla quale erano in possesso, in virtù degli incarichi ricoperti, di un’informazione privilegiata consistente nel progetto di OPA funzionale al delisting della società medesima.

Gli imputati propongono ricorso per Cassazione contestando, tra gli altri motivi, la rilevanza penale della condotta di compiere operazioni su titoli da parte di soggetti a conoscenza della propria decisione di realizzare, in relazione ai titoli stessi, una futura operazione price sensitive (cd. insider di sé stesso). Secondo la ricostruzione dei ricorrenti, questa soluzione interpretativa si porrebbe infatti in contrasto con la lettera dell’art. 184 T.U.F. Tale norma, attribuendo rilevanza alla “informazione”, non si riferirebbe soltanto al contenuto di questa, bensì, soprattutto, «all’elemento che obiettivizza la rappresentazione», nonché al possesso della stessa, il quale ne presupporrebbe necessariamente l’altruità. I ricorrenti sostengono inoltre che quando è l’agente ad avere generato la notizia non ricorrerebbe mai il rapporto causale – elemento costitutivo della fattispecie – tra la qualità dell’insider primario e il possesso dell’informazione, in quanto in tal caso «la causa del conoscere dipende dall’agire o dal pensare e non dall’appartenenza alle categorie soggettivamente enucleate dalla legge e dal collegato contatto comunicativo».

La Suprema Corte giudica infondato il motivo di ricorso evidenziando preliminarmente che l’informazione consiste in un «insieme di dati descrittivi della realtà» e che, se è vero che tale termine può anche indicare l’attività di raccolta e trasmissione delle informazioni, questa seconda componente “dinamica” non può escludere la “componente statica” della nozione. La Corte richiama al riguardo una serie di norme penali rispetto alle quali risulta infatti evidente che il legislatore utilizza il termine “informazione” sia per indicare la comunicazione sia per fare riferimento al dato di conoscenza, anche nell’ipotesi in cui quest’ultimo sia «rappresentativo di una realtà prodotta dal medesimo soggetto obbligato».

Quanto alla tesi della mancata integrazione del suddetto elemento costitutivo della fattispecie incriminatrice nel caso in cui sia il soggetto stesso a generare l’oggetto-notizia, in quanto la causa del conoscere non dipenderebbe il tal caso dall’appartenenza alle categorie soggettive indicate dal legislatore, la S.C. chiarisce innanzitutto che la previsione della rilevanza del «possesso di informazioni “in ragione” di determinati ruoli, partecipazioni o attività, ai sensi dell’art. 184, comma 1, t.u.f. non orienta in alcun modo l’interprete verso una alterità tra fonte produttiva del fatto conosciuto e soggetto titolare dell’informazione». I giudici di legittimità fanno dunque riferimento alla finalità perseguita dalla normativa Eurounitaria e dal legislatore interno, consistente nel «garantire l’integrità dei mercati finanziari dell’Unione e di accrescere la fiducia degli investitori in tali mercati, assicurando che questi ultimi siano posti su un piano di parità e tutelati contro l’utilizzazione illecita delle informazioni privilegiate e le manipolazioni dei prezzi di mercato». Al riguardo, la Cassazione afferma la necessità di distinguere il caso in cui la condotta rappresenta «la mera attuazione di una decisione economica dell’operatore», con riferimento al quale pare ragionevole escludere la configurabilità di un abuso di informazioni privilegiate, da quello in esame, rispetto al quale non emerge il mero sfruttamento di una decisione interna, bensì «una condotta che, rispetto ad un progetto ormai ragionevolmente prevedibile come destinato ad essere attuato, mira ad alterare la condizione di parità degli investitori, consentendo di conseguire prezzi di acquisto non altrimenti più ottenibili».


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