Premessa
La pronuncia della Cassazione Penale del 21 agosto 2019 n. 36309 in allegato, che interviene in una vicenda cautelare avente ad oggetto un caso di sequestro preventivo nei confronti di un soggetto indagato per il reato di omesso versamento di IVA, segna un passaggio – sul piano applicativo – di sicuro interesse sul tema (tanto rilevante quanto delicato) dei profili di interferenza tra il procedimento penale e quello tributario. Nello specifico, la sentenza rappresenta un’occasione per tornare a trattare delle ripercussioni che un provvedimento, anche non definitivo, emesso dal giudice tributario può determinare sulle decisioni assunte nel procedimento penale. Si tratta di una tematica che, come noto, ha posto numerosi interrogativi, e le cui soluzioni sono state lasciate perlopiù alla giurisprudenza.
La sentenza qui in commento è coerente con il quadro già delineato dalla Suprema Corte, dal quale emerge – sempre più frequentemente – come il procedimento penale e quello tributario, che accertino in due sedi differenti le medesime circostanze, ben possano approdare ad esiti difformi e persino confliggenti.
Sentenza
La pronuncia della Suprema Corte attiene alla fase cautelare di un procedimento penale nell’ambito del quale il legale rappresentante di una società è sottoposto ad indagini per il reato di omesso versamento di IVA ai sensi dell’art. 10-ter del D.lgs. n. 74/2000. In particolare, nella vicenda in commento, il Giudice del Riesame del Tribunale di Messina non accoglieva l’appello proposto dall’indagato avverso l’ordinanza del Giudice per le Indagini Preliminari, con la quale il magistrato aveva rigettato la richiesta di revoca – totale o parziale – del sequestro preventivo per equivalente in precedenza disposto fino a concorrenza dell’importo di euro 383.246,00.
Conseguentemente, l’indagato presentava ricorso per Cassazione lamentando il vizio di violazione di legge e di motivazione di cui all’art. 606, comma 1 lett. b) e lett. e) c.p.p. Nello specifico, con un unico motivo di impugnazione, il ricorrente censurava la valutazione effettuata da parte del Tribunale di Messina in merito al mantenimento del sequestro preventivo nei confronti del proprio patrimonio.
Segnatamente, ad avviso del Giudice del Riesame, a dispetto dell’annullamento della cartella esattoriale in ragione di un vizio formale accertato nell’ambito del giudizio tributario, la pretesa creditoria vantata dall’Amministrazione Finanziaria non era venuta meno.
Il ricorrente osservava invece come, a seguito del menzionato annullamento, fosse invero assente il presupposto giuridico del sequestro, ossia la possibilità di confisca del profitto del reato. Ad avviso dell’indagato,ai fini dell’applicazione della richiamata misura cautelare reale, è necessario che il delitto tributario per cui si procede abbia determinato un profitto o, in altre parole, la condotta incriminata dalla fattispecie penale contestata abbia portato il soggetto agente a conseguire un vantaggio economico.
Sotto tale profilo la Suprema Corte, attraverso il richiamo ad un condivisibile precedente in materia di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 11 del D.lgs. n. 74/2000), afferma come effettivamente il profitto del sequestro, individuato in quel caso sulla base del valore dei beni che potevano costituire una garanzia patrimoniale, non sia riscontrabile in un caso di annullamento della cartella di pagamento e correlato “sgravio” del debito tributario disposto dall’Amministrazione finanziaria procedente.
Nel richiamato precedente, la Suprema Corte aveva infatti dichiarato fondato il ricorso, rilevando come si rendesse «privo di qualsiasi giustificazione “allo stato” (secondo la peculiare natura del giudizio cautelare, necessariamente rebus sic stantibus) il mantenimento del sequestro in assenza di qualsivoglia “attuale” pretesa erariale, sembrando non esservi infatti nell’attualità nulla da salvaguardare a seguito non solo dell’annullamento degli avvisi di accertamento ma anche del conseguente provvedimento di “sgravio” del debito tributario, ciò che manifesterebbe l’assenza, appunto, attuale, di pretese erariali, rendendo quindi illegittimo il sequestro funzionale alla confisca per equivalente di un profitto, in atto, inesistente». Alla luce di tale ragionamento, la Suprema Corte aveva quindi annullato il provvedimento, con rinvio al Giudice del Riesame, affinché accertasse la possibilità o meno di mantenere il sequestro sui beni del ricorrente o, in altre parole, individuasse «se esistente, il profitto confiscabile, imprescindibile presupposto del mantenimento del vincolo» (Cass. Pen., sez. III, n. 39187/2015).
Tornando alla pronuncia de qua, la Corte correttamente si serve del citato precedente al fine di statuire la differenza che intercorre tra il mero annullamento della cartella esattoriale da parte della Commissione tributaria e il provvedimento di sgravio fiscale. Nello specifico, solo il secondo strumento prende le mosse dall’iniziativa dell’ente impositore stesso, il quale, in questo modo, afferma il venir meno della pretesa erariale.
In tal senso, la sentenza in commento, dopo aver brevemente ripercorso le differenze tra i due sopracitati istituti, richiama puntualmente un’ulteriore pronuncia della giurisprudenza di legittimità, con la quale si era affermato che il provvedimento di “sgravio” ha «natura di atto pubblico fidefacente, ed è costitutivo dell’effetto di estinzione del debito erariale» (Cass. Pen., sez. III, n. 34912/2016).
In conclusione, a fronte dell’assenza di tale provvedimento di formale cancellazione della pretesa fiscale e stante la natura non sostanziale del vizio che aveva portato la Commissione tributaria provinciale alla cancellazione della cartella di pagamento, la Corte ha ritenuto manifestamente infondata l’impugnazione.
Considerazioni
I vizi dai quali la cartella di pagamento notificata dall’Agenzia delle Entrate potrebbe essere affetta possono essere fra loro differenti. A tal proposito, si suole distinguere tra vizi di carattere formale e sostanziale.
In primo luogo, dalla sentenza in commento è possibile desumere che nei casi in cui la competente Commissione tributaria provveda all’annullamento della cartella relativa all’omesso versamento di IVA in ragione di vizi meramente formali, non viene meno la pretesa erariale e sotto tale profilo la decisione non sarebbe in grado di assumere rilevanza in sede penale.
Secondariamente, può darsi il caso in cui venga emesso dall’Agenzia delle Entrate un provvedimento di sgravio fiscale. In tale circostanza, la Corte ha chiarito, come nella sentenza in commento, che l’adozione dello “sgravio” costituisce un’ipotesi di mutamento delle esigenze cautelari e pertanto non sarebbe giustificabile – rebus sic stantibus – il mantenimento della misura cautelare. Come noto, il procedimento cautelare presenta per sua natura una portata sicuramente diversa dal giudizio di cognizione e impone un accertamento solo allo stato degli atti.
Fermi restando i principi dell’autonomia e del parallelismo, che regolano i rapporti tra procedimento penale e tributario, la Corte ha infatti osservato – in modo condivisibile – come il Tribunale del Riesame avesse errato poiché si era «limitato a statuire l’autonomia del giudizio penale rispetto a quello tributario, senza alcuna considerazione (sia pure critica) nei confronti del merito della decisione tributaria, anche ai fini del fumuse dell’elemento soggettivo» (Cass. Pen., sez. III, n. 26450/2016).
È poi, da ultimo, ipotizzabile un ulteriore scenario, nel quale la Commissione tributaria competente abbia optato per l’annullamento della cartella di pagamento in ragione di un vizio di natura sostanziale e non meramente formale, senza un contestuale provvedimento di sgravio da parte dell’Amministrazione finanziaria (diversamente quindi dal caso qui in commento, dove entrambi i provvedimenti a favore del contribuente erano stati emessi).
La Suprema Corte si è in passato espressa anche su questa ipotesi, attribuendo alla sentenza di merito emessa dal giudice tributario la stessa valenza del provvedimento di sgravio fiscale proveniente dall’Agenzia delle Entrate.
Nello specifico, la Corte ha statuito che «in tema di reati tributari, il profitto del reato oggetto del sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente è costituito dal risparmio economico derivante dalla sottrazione degli importi evasi alla loro destinazione fiscale e nell’ipotesi di sospensione della esecutività dell’atto impugnato da parte della Commissione Tributaria, D.Lgs. n. 546 del 1992, exart. 47, i presupposti per il sequestro preventivo funzionale alla confisca non vengono ridimensionati, in considerazione della cognizione sommaria e limitata nel tempo della sospensione; solo lo sgravio da parte dell’Agenzia delle entrate o la sentenza di merito anche non definitiva – della Commissione Tributaria fanno venire meno il profitto del reato ai fini del sequestro» (Cass. Pen., sez. III, n. 1994/2016).
Per concludere, il motivo di impugnazione proposto dal ricorrente nel caso in commento parte dall’affermazione corretta per cui il venir meno del debito fiscale non può che determinare l’assenza del profitto del reato tributario, donde l’impossibilità di mantenere il sequestro. Nondimeno, il ragionamento non appare condivisibile agli occhi della Corte nella parte in cui si afferma sic et simpliciter che l’annullamento della cartella esattoriale per un vizio formale avrebbe determinato un’automatica esclusione della pretesa fiscale dell’Agenzia delle Entrate.
Sotto tale profilo, dalle citate pronunce discende un quadro dei rapporti tra i due procedimenti conforme alla scelta di separazione voluta dal legislatore. Tuttavia, affermare un’autonomia dei procedimenti non può condurre ad escludere che le risultanze della procedura amministrativa e del contenzioso tributario possano assumere una qualche valenza nel processo penale, pur dovendo comunque queste essere apprezzate dal giudice secondo i principi di valutazione della prova previsti dal codice di procedura.
Certamente tali provvedimenti non potranno assumere carattere vincolante per il giudice penale, il quale perverrà ad una decisione sulla base del proprio libero convincimento, pur permanendo – tuttavia – un obbligodi specifica e congrua motivazione in capo al magistrato laddove adotti un provvedimento di segno contrario a quanto statuito in sede fiscale.