Con la sentenza n. 2608 del 4 febbraio 2021 la Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha risolto il conflitto interpretativo emerso in merito alla possibilità di cedere un credito fiscale anticipatamente rispetto alla chiusura del periodo d’imposta in cui tale credito si forma. La sentenza è stata pronunciata con riguardo alla cedibilità, da parte del curatore fallimentare o del commissario liquidatore, del credito d’imposta formatosi nel corso della procedura di fallimento o di liquidazione coatta amministrativa, in dipendenza delle ritenute fiscali subite dall’impresa sottoposta a procedura; il principio di diritto con essa affermato assume peraltro valenza generale.
I depositi bancari eseguiti dagli organi giudiziali in attesa della ripartizione dell’attivo fra creditori producono interessi, sui quali le banche depositarie, a norma dell’art. 26 del D.P.R. n. 600/1973, applicano una ritenuta a titolo di acconto dell’imposta sul reddito. Sulla base delle ordinarie disposizioni, cioè di norme dettate per la generalità delle imprese e non per quelle sottoposte a procedure concorsuali, l’impresa può utilizzare diversamente tali ritenute a seconda della situazione di debito o di credito tributario in cui si viene a trovare alla fine di ogni periodo d’imposta: (i) nel caso in cui il suo risultato reddituale sia positivo e il tributo personale che si rende dovuto ecceda l’importo delle ritenute, quest’ultimo può essere scomputato da quello del debito originato dal reddito imponibile, riducendo l’ammontare da versar all’Erario; (ii) nel caso in cui, invece, il suo risultato nel periodo d’imposta sia negativo ovvero, pur essendo positivo, il tributo sul reddito che ne discende sia inferiore all’importo delle ritenute subite, si forma un credito d’imposta pari allo stesso ammontare delle ritenute, nella prima ipotesi, e all’eccedenza delle ritenute rispetto al debito tributario, nella seconda: tale credito, sulla base della disciplina ordinaria recata dall’art. 80 del Tuir, a scelta del contribuente può essere computato in diminuzione dell’imposta relativa al periodo successivo, chiesto a rimborso in sede di dichiarazione dei redditi ovvero compensato con altri debiti fiscali.
Il conflitto che le Sezioni Unite sono state chiamate a comporre nasce proprio dall’incrocio tra tali norme ordinarie e quelle che regolamentano la tassazione delle imprese assoggettate a fallimento e a liquidazione coatta, le quali presentano una rilevante peculiarità. L’art. 183 del Tuir, infatti, oltre determinare il reddito tassabile secondo un criterio del tutto diverso da quello ordinario fondato sul risultato di bilancio, stabilisce, a differenza di quanto è previsto per le imprese in bonis e anche per quelle in liquidazione ordinaria, che l’intero periodo fallimentare costituisce un unico periodo d’imposta (il cosiddetto “maxi-periodo fallimentare”), il quale ha inizio con la data di apertura della procedura e si conclude con il provvedimento che ne dispone la chiusura, indipendentemente dalla durata della stessa e a nulla rilevando l’esercizio provvisorio dell’impresa eventualmente autorizzato dal Tribunale. Poiché le ritenute subite dalle imprese a titolo di acconto sull’imposta sul reddito danno vita a un credito con la conclusione di ogni singolo esercizio in cui vengono effettuate, ne discende che nel fallimento e nella liquidazione coatta esse originano un credito d’imposta, non anno per anno, ma con riguardo al maxi-periodo concorsuale.
Ciò posto, occorre conseguentemente accertare se il credito d’imposta si forma solo a seguito della conclusione della procedura e della presentazione della relativa dichiarazione dei redditi (che deve avvenire entro nove mesi dalla chiusura del fallimento o della liquidazione coatta), ovvero anche prima, nel corso della procedura, grazie alla anticipata presentazione di tale dichiarazione, una volta che tutte le operazioni siano state comunque compiute. Nel primo caso il credito non può essere ripartito fra i creditori, che subiscono quindi una penalizzazione complessivamente pari all’ammontare del credito, mentre nel secondo caso può esserlo, in genere attraverso la cessione di tale credito a terzi nel corso del fallimento (o della liquidazione coatta), accrescendo corrispondentemente il soddisfacimento dei creditori.
Sulla possibilità di presentare la dichiarazione dei redditi anteriormente alla fine della procedura la Corte di Cassazione ha ritenuto, con la sentenza 1° luglio 2003, n. 10349, che “la dichiarazione relativa al maxi-periodo concorsuale …….., in mancanza di una espressa previsione di legge che lo vieti e in considerazione del fatto che il legislatore prevede il termine ultimo ma non quello iniziale per ottemperarvi, è presentata in modo legittimo ed efficace anche prima della chiusura della procedura”. Tuttavia, la medesima Corte, con le sentenze 18 gennaio 2018, n. 1150 e 7 marzo 2019, n. 6630, ha affermato anche che è da ritenersi intempestiva la richiesta di rimborso del credito d’imposta formulata prima della chiusura del maxi-periodo e della presentazione della relativa dichiarazione dei redditi, potendo essa essere esercitata solo successivamente alla conclusione della procedura, dai soci della società estinta, su cui potrebbero poi rivalersi i creditori concorsuali rimasti insoddisfatti.
Entrambe le tesi presentano aspetti critici: la prima perché è difficile assumere che la dichiarazione dei redditi prodotti in un periodo d’imposta (ancorché si tratti di un maxi-periodo) possa essere presentata prima della chiusura del periodo stesso; la seconda perché di fatto finisce per impedire il rimborso delle imposte pagate in eccedenza, generando un’imposizione che non è conforme al principio costituzionale ella capacità contributiva.
Su tale contrasto interpretativo hanno preso posizione le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, stabilendo i seguenti principi:
- è pacifico, ai sensi dell’art. 106 l. fall., che il curatore può cedere un credito tributario, anche futuro;
- ai fini della cessione non rileva che il credito ceduto sia stato precedentemente esposto nella dichiarazione dei redditi, non avendo questa natura negoziale o dispositiva, ma costituendo un’esternazione di scienza o di giudizio: ciò che importa è che il credito nasca da un rapporto tributario e che in quanto tale sia qualificabile come credito futuro;
- il credito fiscale costituito da eccedenze d’imposta pagate -anche sotto forma di ritenute – in eccedenza rispetto al debito del maxi-periodo, che venga ceduto dal curatore (o dal commissario liquidatore) anteriormente alla chiusura della procedura, non può dirsi “certo” al momento della sua cessione, se non sono state completate tutte le operazioni che determinano l’importo da assoggettare a imposizione;
- alle cessioni aventi a oggetto crediti nei confronti del Fisco devono essere applicate le disposizioni recate dall’art. 69 del R.D. n. 2240/1923, secondo cui tali cessioni devono risultare da atto pubblico, nonché quelle dell’art. 43-bis del D.P.R. n. 602/1973, a norma del quale le disposizioni del citato art. 69 si applicano anche alle cessioni di crediti chiesti a rimborso nella dichiarazione dei redditi, e quelle dell’art. 1 del D. M. 30 settembre 1997 n. 384, secondo cui, per essere efficace, “l’atto di cessione è notificato all’ufficio delle entrate …. nonché al concessionario della riscossione”;
- i menzionati requisiti formali della cessione non incidono tuttavia sulla validità del contratto di cessione e sul rapporto fra cedente e cessionario, con la conseguenza che, a fronte di una cessione priva di detti requisiti, il successivo atto che invece li osservi “si traduce in una (mera) riproduzione contrattuale che consente al cessionario di far valere il credito acquistato nei confronti del Fisco”.
Alla luce di tali principi si può dunque concludere, contrariamente a quanto è stato al riguardo sostenuto dall’Agenzia delle Entrate, che:
- il credito d’imposta originato dalle ritenute subite a titolo di acconto durante la procedura, che eccedono l’eventuale debito tributario, nasce per effetto delle operazioni compiute e la dichiarazione del maxi-periodo concorsuale che lo espone comporta solo la rilevazione di un credito già sorto;
- la cessione di tale credito a terzi da parte del curatore (o del commissario liquidatore) nel corso della procedura è quindi valida ed efficace tra le parti, ancorché non risponda ai requisiti formali richiesti dalle norme sopra richiamate;
- detta cessione assume efficacia anche nei confronti del Fisco a seguito della stipula, dopo la chiusura della procedura, di un contratto – fra cedente e cessionario – che rispetti i menzionati requisiti formali, la cui osservanza è necessaria per poter far valere la cessione anche verso l’amministrazione finanziaria;
- tale contratto si traduce in una mera riproduzione contrattuale e la sua stipula costituisce un adempimento dovuto dal cedente, funzionale a consentire al cessionario l’esercizio dei diritti acquistati;
- conseguentemente la stipula dell’atto di cessione mediante atto pubblico da parte del curatore (o del commissario liquidatore), dopo la chiusura della procedura, non richiede un’ultrattività dei poteri di tale organo giudiziale, rappresentando essa solo un adempimento che sulla base della legge può essere attuato solo dopo la fine della procedura e la successiva presentazione dei redditi in cui il credito ceduto viene esposto e quindi di un adempimento dovuto;
- per perfezionare sotto ogni profilo la cessione del credito d’imposta, non sussiste pertanto alcuna necessità che la dichiarazione dei redditi relativa al maxi-periodo concorsuale venga presentata anteriormente alla chiusura del maxi-periodo stesso.
Ha quindi il pieno avvallo della Corte di Cassazione quella prassi secondo cui il curatore fallimentare (o il commissario liquidatore nella liquidazione coatta) cede il credito d’imposta a terzi prima della conclusione della procedura, al fine di trarne risorse da destinare ai creditori concorsuali, stipulando dopo la chiusura della stessa un atto pubblico di cessione del credito da notificare all’Agenzia delle Entrate e all’agente della riscossione.