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Editoriali

La conversione del d.l. n. 91 del 2018. La mancata ricerca di un nuovo trade off tra localismo e stabilità.

24 Settembre 2018

Francesco Capriglione

1. Dopo la recente conversione in legge del d.l. n. 91 del 2018 potrebbe ritenersi ormai definitivamente concluso il dibattito che, negli ultimi anni, ha riguardato le sorti future di una categoria bancaria che, dopo 130 anni di storia, sembra ormai fatalmente destinata a concludere la sua esistenza. A nulla è valsa la promessa di un intervento riformatore da parte dei vertici politici del nuovo Governo, né tanto meno sono riuscite a promuovere il cambiamento le sollecitazioni promosse da studiosi che da sempre hanno creduto nei valori della cooperazione, ora compromessi da una riforma poco attenta, al di là delle petizioni di principio, ai valori della mutualità ed agli interessi di oltre un milione di soci delle banche di credito cooperativo.

Evidentemente, come ho avuto modo di sottolineare in un mio recente scritto, sull’esigenza di conservare la specificità operativa della BCC – e, dunque, sull’osservanza del ‘giusto diritto’ – hanno finito col prevalere le ragioni della realpolitik. La finalità di evitare la gestione delle «crisi di singole BCC con soluzioni di tipo liquidatorio» (per usare le parole del Governatore Visco) è stata ritenuta giustificazione sufficiente per l’adozione di un innovativo schema di aggregazione tra le BCC; modello ordinatorio, quest’ultimo, che interagisce negativamente sulla gestione di tali banche (ricondotta, sul piano delle concretezze, ad una holding cui fa capo ogni potere decisionale in ordine alle politiche creditizie e, in taluni casi, alla stessa composizione degli organi aziendali).

E’ stato, per tal via, realizzato un meccanismo proteso a contenere all’interno della categoria il ‘malessere’ di alcuni enti affiliati ai costituendi ‘gruppi cooperativi’; l’obbligatorietà della partecipazione e della permanenza nell’aggregato, unitamente ai vincoli di uno stringente ‘contratto di coesione’ (a fondamento della costruzione in parola) consentono la funzionalità del cd. cross guarantee scheme, cui è rimesso il perseguimento di un’azione solidaristica.

2. Sono, dunque, rimaste inascoltate le rivendicazioni di quanti ritengono possibile un equilibrio tra localismo e stabilità; non è stata tenuta in alcun conto la mozione presentata da un partito della maggioranza, nella quale si fa presente che i caratteri strutturali di tali gruppi annullano «del tutto la valenza territoriale del sistema mutualistico». Donde la corretta proposta, ivi avanzata, di concedere un’adeguata ‘moratoria’ di riflessione, necessaria sul piano tecnico giuridico per un riesame del complesso dispositivo in parola (preordinato – tra l’altro – a valutare l’opportunità di introdurre differenti strumenti di tutela come gli IPS [Institutional Protection Scheme], sperimentati con successo in alcuni Stati membri).

Ed invero, appaiono del tutto insoddisfacenti i ritocchi recati alla legge n. 49 del 2016 dal d.l. n. 91 del 2018 (c.d. milleproroghe), che ha concesso una limitata proroga (di soli novanta giorni) per la costituzione dei gruppi ed innalzato la soglia di partecipazione (delle banche aderenti) nel capitale della capogruppo (ora elevata alla misura del 60%). Tali modifiche rappresentano una fictio iuris, piuttosto che una concreta innovazione disciplinare; ciò, soprattutto ove se ne valuti la portata alla luce del parere riguardante il decreto-legge n. 91 del 25 luglio 2018, rilasciato dalla BCE lo scorso 11 settembre (competente in base alla direttiva n. 1024 del 2013 a vigilare sui gruppi bancari cooperativi, in quanto significant).

Detto parere richiama, al paragr. 3.6, con riguardo «all’aumento al 60 per cento della partecipazione minima nelle società capogruppo da parte delle banche cooperative, il potere conferito al Presidente del consiglio italiano di stabilire una soglia inferiore per esigenze di stabilità finanziaria … (da esercitare) … in caso di necessità». Da tale assunto si evince il chiaro intento di voler rafforzare ulteriormente il disposto normativo di cui all’art. 11, comma 2°, lett. f) del d.l. n. 91, in pratica, svuotando di contenuto la possibilità di un aumento rilevante della partecipazione azionaria nella capogruppo. Del pari la BCE, al successivo paragr. 3.7, circoscrive «l’obbligo per le capogruppo di consultare le singole banche di credito cooperativo in merito alla elaborazione dei piani strategici e operativi del gruppo» affinché il medesimo «non incida sull’esercizio dei poteri di direzione e coordinamento» delle capogruppo medesime. E’ implicito in siffatta indicazione interpretativa lo svuotamento del disposto normativo secondo cui le banche «che … si collocano nelle classi di rischio migliori: definiscono in autonomia i propri piani strategici e operativi» (art. 11, comma 2°, lett. e), confermando la perdita di autonomia decisionale anche delle BCC virtuose.

3. Da qui l’inevitabile interrogativo concernente l’effettiva necessità della riforma introdotta dalla legge n. 49; al quale un’unanime risposta negativa è venuta da parte di studiosi che, di recente, si sono confrontati con alcuni politici della maggioranza in un incontro, svoltosi a Firenze (il 13 settembre u.s.), nel quale oggetto di discussione è stata «la scomparsa delle banche di credito cooperativo».

Nell’occasione, alla generalizzata critica dei più rilevanti aspetti della legge n. 49, sono state aggiunte significative osservazioni in ordine alla legittimità costituzionale di taluni profili normativi. In particolare, è stato sottolineato dal prof. Valerio Onida, autorevole presidente emerito della Corte Costituzionale, che la prevista obbligatorietà dell’adesione ad un ‘gruppo cooperativo’ (avente come holding una società per azioni) di certo deve ritenersi contraria alla logica della cooperazione costituzionalmente tutelata prevista dal disposto dell’art. 45 cost. (il quale individua nella ‘mutualità’ e nella mancanza di ‘fini di speculazione privata’ il presupposto per lo svolgimento della ‘funzione sociale’ alla medesima ascrivibile). Inoltre, detta obbligatorietà della partecipazione si configura fortemente limitativa della libertà di «associazionismo», garantita dall’art. 18 cost., e di «iniziativa economica privata», regolata dal 1° comma dell’art. 41 cost., che come ebbe ad evidenziare un grande Maestro, Giorgio Oppo, affonda «le proprie radici (e motivazioni) … nel valore … direttamente qualificante dell’utilità sociale, come concreta soddisfazione di bisogni o interessi economici della collettività».

Ciò posto, l’unica via ancora percorribile – a fronte della inequivoca puntualizzazione «la partita del Milleproroghe è chiusa…se si vuole va iniziata un’altra battaglia», formulata dell’on. Alberto Bagnai, presidente della Commissione Affari e Finanze del Senato – è quella di far valere, al più presto possibile, i profili di incostituzionalità della legge n. 49. Infatti, la remissione alla Corte Costituzionale di questioni rientranti nelle sue competenze – come ha evidenziato il prof. Onida – potrebbe riguardare vuoi la rivendicazione, da parte dei soci, del proprio diritto di recesso (allorché si saranno determinate le condizioni di legge per esercitarlo), vuoi l’opposizione all’obbligatoria adesione al gruppo da parte di una o più BCC (che versino in una situazione di stabilità patrimoniale). In questo secondo caso la promozione di un giudizio dovrebbe essere attivata a seguito del rifiuto di convocare l’assemblea straordinaria, chiedendo al giudice di accertare, previa remissione della questione alla Corte costituzionale, il diritto a non aderire ad un gruppo senza perdere il proprio status.

D’altronde, non può trascurarsi di considerare che, sul piano tecnico giuridico, appare irreversibile il processo di modifiche che sarà innestato dall’applicazione della riforma. Pertanto, deve ritenersi illusoria l’ipotesi di un rinvio dell’azione politica al momento in cui quest’ultima possa fondarsi sulla certezza di un ampio movimento d’opinione contrario al mantenimento del nuovo regime disciplinare. «Iniziare un’altra battaglia» per scongiurare gli esiti negativi della legge in parola significa rimettere nel «grembo di Giove» la soluzione di un problema che necessariamente deve essere tempestiva. La politica deve prevenire le criticità, ben sapendo che un suo intervento ex postea, oltre che inefficace, rischia di incidere negativamente sulla acquisizione del consenso!

4. Ne consegue che permangono tuttora ragioni molteplici per ritenere, a tutt’oggi, non definitivamente conclusa la vicenda della revisione legislativa della ‘riforma’ delle BCC. Il giusto diritto, a volte, incontra difficoltà per affermare i propri canoni ordinatori, specie in epoche di transizione caratterizzate dalla complessità dei fenomeni che devono essere governati. Nel nostro caso, l’esigenza di ricercare adeguati percorsi per un recupero degli ‘anelli deboli’ della catena finanziaria non può essere soddisfatta a scapito di consolidate forme operative orientate al supporto delle economie zonali.

La politica ed i vertici dell’ordinamento del credito devono farsi carico di proporre soluzioni che siano rispettose del carattere identitario delle nostre banche e, al contempo, idonee a perseguire obiettivi di solidarietà tra gli appartenenti alla categoria. Nel settore in esame il conseguimento di un razionale punto di conciliazione tra i differenti interessi in campo individua un’ineludibile esigenza, alla quale è riconducibile la stessa sopravvivenza delle BCC; omettere di valutarne la rilevanza ovvero limitarsi (scientemente) alla adozione di rimedi legislativi inadeguati segna – sul piano della effettività dei comportamenti tenuti – una grave mancanza, della quale saranno chiamati a rispondere coloro cui è imputabile detta linea di condotta.

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