Con la sentenza 9 agosto 2016 n. 16679 la Corte di Cassazione si è pronunciata nuovamente sulla delicata tematica della sorte ai fini IVA delle operazioni inesistenti soggette al meccanismo del reverse-charge.
La vicenda affrontata dai supremi giudici riguardava, infatti, il caso di plurime operazioni di cessione di rottami soggette agli effetti dell’IVA al regime di reverse-charge ai sensi dell’art. 74, commi 7 e 8, D.p.R. n. 633/72 e qualificate come soggettivamente inesistenti dal Fisco in quanto rese da una mera cartiera.
A tale riguardo, la Corte, conformandosi al proprio precedente orientamento, ha ribadito due importanti, quanto discutibili, principi.
Da un lato è stato confermato che il comma 7 dell’art. 21 del D.p.R. n. 633/72, ratione temporis vigente[1], sarebbe applicabile anche alle operazioni soggette a reverse-charge (ord. n. 22532/2012) e che, quindi, l’imposta a debito “registrata” per effetto di una simile operazione risulterebbe dovuta all’Erario così come l’imposta indicata in fattura in un’operazione inesistente soggetta ad IVA con rivalsa.
Dall’altro, il supremo consesso ha confermato (Cass. sent. n. 6229/2013) chenel caso di operazioni inesistenti, incluse quelle soggette a reverse-charge, il diritto alla detrazione non può essere in alcun modo riconosciuto; viene, infatti, ribadito che applicandosi l’art. 21 comma 7, l’imposta “registrata” (così come quella indicata in fattura) risulta esigibile sulla base di un presupposto d’imposta chiaramente derogatorio rispetto al sistema dell’IVA e, quindi, tale imposta risulta destinata ad operare al di fuori della simmetria tra “IVA a valle” (i.e. sugli acquisti) ed “IVA a monte” (i.e. sulle vendite) e, dunque, così come confermato dal tenore degli artt. 19 e 26, comma 3, del D.p.R. n. 633/72, il comma 7 dell’art. 21 darebbe luogo ad un’ “IVA a monte” per ciò stesso estranea alla detrazione come “IVA a valle”. Peraltro, la sentenza in rassegna precisa che un’operazione inesistente, dando luogo ad una violazione di natura sostanziale, non può neanche beneficiare del principio secondo cui il diritto alla detrazione è comunque fatto salvo laddove l’applicazione della procedura di inversione contabile non abbia comportato la violazione di requisiti sostanziali (Cass. n. 5072/2015, n. 7576/2015).
Non v’è dubbio che su queste basi la sentenza in rassegna non apporta particolari elementi di novità rispetto a quanto già noto; ciò nonostante le conclusioni raggiunte in tale pronuncia risultano di particolare rilievo essendo state rese successivamente alle novità varate dal D.Lgs n. 158/2015 in tema di operazioni inesistenti. Va, infatti, ricordato che l’art. 31, comma 1, del suddetto decreto ha modificato il comma 7 dell’art. 21 del D.p.R. n. 633/72 proprio allo scopo di chiarire che tale disposizione non deve essere applicata nei confronti delle operazioni inesistenti soggette a reverse-charge[2].
Tuttavia, secondo la sentenza in rassegna – e di qui la sua “rilevanza” – la disposizione de qua non avrebbe valenza di norma di interpretazione e, quindi, sarebbe suscettibile di operare soltanto in relazione alle fattispecie verificatesi successivamente alla sua entrata in vigore, ossia dopo il 1° gennaio 2016.
Si spiega, quindi, il motivo per cui i giudici della sentenza in rassegna, pur pronunciandosi successivamente all’entrata in vigore del D.Lgs n. 158/2015, abbiano ritenuto di dover affrontare il caso sub iudice – evidentemente relativo ad una fattispecie integrata prima del 1° gennaio 2016 – richiamandosi al quadro normativo ed interpretativo riguardante la vecchia formulazione del comma 7 dell’art. 21.
Viceversa, sul piano del regime sanzionatorio applicabile alle operazioni inesistenti, la Corte, come era peraltro ragionevole attendersi, ha fortunatamente assegnato maggior rilievo alla sopravvenuta riforma recata dall’art. 15 del D.Lgs n. 158/2015. Secondo la Corte, infatti, il giudice del rinvio dovrà individuare la sanzione irrogabile nel caso di specie alla luce del principio del favor rei e, quindi, tenendo conto della suddetta recente evoluzione normativa. Allo stesso tempo però la sentenza in rassegna – e di qui la sua rilevanza – esclude senza mezzi termini la possibilità di ricorrere al più favorevole regime sanzionatorio previsto dal secondo periodo del comma 9-bis3 dell’art. 6 del D.Lgs n. 471/97 così come modificato dal predetto D.Lgs n. 158/2015.
Non v’è dubbio che le conclusioni nel complesso raggiunte dalla sentenza in rassegna, sia sul piano del diritto sostanziale che delle sanzioni, siano destinate a sollevare più d’una perplessità, se non altro per lo spiccato – e non del tutto comprensibile – rigorismo che le contraddistingue.
A tale riguardo, può in primo luogo essere osservato che appare eccessivamente sbrigativa la tesi con cui la Corte ha escluso la rilevanza del “nuovo” comma 7 dell’art. 21 rispetto alle fattispecie realizzate in epoca anteriore al 1° gennaio 2016. La Corte, infatti, senza dover attribuire alla predetta novella una portata retroattiva, avrebbe comunque potuto utilizzarla – così come fatto ad es. nella coeva sentenza n. 16675 depositata il 9 agosto 2016 in tema di abuso del diritto – alla stregua di un “termine interpretativo di riferimento” utile, nel caso di specie, a confermare che (anche prima della sua riforma) la disposizione de qua non risultava applicabile alle operazioni inesistenti soggette al reverse-charge.
Così operando la Corte avrebbe potuto raccogliere le istanze di quella dottrina secondo cui il previgente comma 7 dell’art. 21, riferendosi testualmente alla sola IVA indicata in fattura, poneva più d’un dubbio circa la sua applicabilità anche ai casi di reverse-charge [3]; e ciò anche perché già allora si osservava che non sembravano sussistere particolari ragioni per dover applicare una simile disposizione anche nei confronti di operazioni che, proprio in quanto soggette al reverse-charge, risultano ontologicamente insuscettibili di essere impiegate per causare una lesione dell’interesse erariale ad una corretta percezione de tributo[4][5].
Peraltro, a conferma di quanto appena osservato, merita di essere rilevato che il precedente orientamento (Cass. ord. n. 22532/2012) a cui si richiama la Corte di Cassazione nella sentenza in rassegna si era formato con riferimento alla diversa fattispecie del “reverse-charge esterno”, mentre nel caso sub iudice è gioco l’applicazione del “reverse-charge interno” il cui utilizzo, in luogo dell’ordinaria rivalsa, si giustifica proprio in un’ottica antifrode – mentre, invece, l’applicazione del reverse-charge esterno dipende dalla mera carenza del requisito di territorialità dell’imposta. Ciò rende, quindi, ancor più opinabile la conclusione raggiunta nella sentenza in rassegna, visto che porterebbe all’estensione di un orientamento riguardante una fattispecie (reverse-charge esterno) non proprio omogenea a quella sub iudice (reverse-charge interno).
Ad ogni modo il rigorismo della sentenza in rassegna potrebbe trovare un contrappunto nel generale principio sancito dalla Corte di Giustizia Europea [6] – e peraltro riconosciuto dalla stessa Cassazione [7] – secondo cui l’indetraibilità dell’ “IVA a valle” nelle operazioni inesistenti trova comunque un limite nel principio della buona fede e, quindi, nella non consapevolezza del cessionario/committente di partecipare ad una frode[8].
Passando al piano delle sanzioni, non può tacersi che la conclusione raggiunta dalla sentenza in commento, benché possa dirsi meno rigorosa di quella appena esaminata, non per questo risulta maggiormente condivisibile.
In via preliminare va, infatti, ricordato che rispetto al più severo regime delle sanzioni per indebita detrazione e dichiarazione infedele, il nuovo comma 9-bis3 dell’art. 6, D.Lgs. n. 471/1997 prevede, con specifico riferimento alle operazioni inesistenti soggette a reverse-charge, l’irrogazione di una sanzione tra il 5% ed il 10% dell’imponibile con un minimo di 1.000 euro[9].
Tuttavia, ad avviso della Corte, tale nuova disposizione non sarebbe applicabile al caso sub iudice in base al principio del favor rei in quanto la norma si riferirebbe esclusivamente alle operazioni “esenti, imponibili o comunque non soggette” mentre l’operazione affrontata dai giudici risulterebbe astrattamente imponibile[10].
Sul punto si potrebbe però obiettare che il secondo periodo del comma 9-bis3 quantifica la sanzione de qua “tra il cinque e il dieci per cento dell’imponibile”; quindi, la disposizione sembrerebbe in effetti riferirsi proprio alle operazioni astrattamente imponibili[11]. Ad ogni modo, anche se così non fosse, andrebbe ricordato che in ambito sanzionatorio la cosiddetta analogia in bonam partem è generalmente ammessa[12] e, pertanto,la disposizione in commento, prevedendo un trattamento più favorevole rispetto alle sanzioni per dichiarazione infedele ed indebitata detrazione, potrebbe comunque ritenersi operante anche rispetto alle operazioni inesistenti assoggettate a reverse-charge in regime di imponibilità [13][14].
[1] Nella sua formulazione antecedente alla modifiche apportate dal comma 1 dell’art. 31 del D.Lgs n. 158/2016, il comma 7 dell’art. 21 del D.p.R. n. 633/72 disponeva che “se viene emessa fattura per operazioni inesistenti … l’imposta è dovuta per l’intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura”.
[2] La nuova norma recita, infatti, “se il cedente o prestatore emette fattura per operazioni inesistenti … l’imposta è dovuta per l’intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura”. Dunque, attraverso il riferimento alla fattura emessa dal cedente o prestatore, il Legislatore – come peraltro indicato nella relazione al D.Lgs n. 158/2016 – ha voluto rendere chiaro che intende riferirsi soltanto alle operazioni soggette ad IVA in rivalsa.
[3] In cui, per l’appunto, non v’è alcun’imposta riportata sul documento emesso dal cedente/prestatore. Sul punto si veda IORIO, A., SERENI, S., “Reverse Charge” e contestazione di indetraibilità dell’IVA, in Corriere Tributario, 28, 2012, p. 2189.
[4] ARTINA, R., Operazioni inesistenti e mancata emissione di autofatture nel regime dell’inversione contabile. L’Iva è comunque dovuta?, in Il Fisco, 2011, p. 2202
[5] Sul punto va però segnalato che proprio in un caso di reverse-charge interno relativo ad un’operazione di subappalto la CTP di Treviso, con la recente sentenza n. 237/2016, ha stabilito come “il principio affermato [cioè quello enunciato da Cass. ord. n. 2255/12 e sent. n. 12353/2005] valga anche nel caso di reverse charge: (… ) A questo punto l’imposta è dovuta per intero ma non è detraibile stante anche il principio sanzionatorio di cui si è detto”
[6] Cause C-354/03 del 2006 e C-80/11, C-142/11 del 2012.
[7] Cass. nn. 13803/2014, 16556/2012, 18009/2012, 1364/201.1
[8] Buona fede che, tuttavia, sarebbe da escludere laddove la frode era per il cessionario/committente una circostanza conoscibile. In tal senso Cass. civ., sez. trib., 18-06-2014, n. 13803.
[9] Più precisamente, la norma recita così: se il cessionario o committente applica l’inversione contabile per operazioni esenti, non imponibili o comunque non soggette a imposta, in sede di accertamento devono essere espunti sia il debito computato da tale soggetto nelle liquidazioni dell’imposta che la detrazione operata nelle liquidazioni anzidette, fermo restando il diritto del medesimo soggetto a recuperare l’imposta eventualmente non detratta ai sensi dell’articolo 26, terzo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, e dell’articolo 21, comma 2, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546. La disposizione si applica anche nei casi di operazioni inesistenti, ma trova in tal caso applicazione la sanzione amministrativa compresa tra il cinque e il dieci per cento dell’imponibile, con un minimo di 1.000 euro.
[10] In tale ottica pare che il richiamo al principio del favor rei possa operare solo rispetto alla revisione del quantum della sanzione irrogabile per dichiarazione infedele ed indebita detrazione – come noto ridotto al 90% (rispetto all’originario 100%) dell’imposta non dichiarata ovvero indebitamente detratta
[11] A scanso di equivoci merita di essere sottolineato che la norma in commento si occupa soltanto dei profili sanzionatori, lasciando quindi del tutto impregiudicata la sorte del diritto alla detrazione. Quest’ultimo, infatti, andrà sempre valutato sulla base dei principi del sistema e, segnatamente, dell’art. 19 del D.p.R. n. 633/72. Riprova di ciò può rivenirsi nella stessa formulazione del comma 9bis3 ove si afferma “fermo restando il diritto del medesimo soggetto a recuperare l’imposta eventualmente non detratta ai sensi dell’articolo 26, terzo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, e dell’articolo 21, comma 2, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546”. In sintesi, quindi, il comma 9bis3 non può certamente essere utilizzato per “creare” un diritto alla detrazione di per sé non già sussistente in base ai principi e regole del sistema dell’IVA. Tra l’altro, se così non fosse, ossia se la norma si occupasse anche di aspetti di diritto sostanziale (i.e. introduzione di una specifica ipotesi di detrazione dell’IVA), il principio del favor rei non potrebbe di certo operare (almeno con riferimento a tali aspetti).
[12] PALAZZO, F., Corso di Diritto Penale. Parte Generale, Torino, 2016,p. 147.
[13] Tale conclusione appare, peraltro, vieppiù giustificata nel caso di operazioni soggette a reverse-charge interno visto che per definizione tale meccanismo di applicazione dell’imposta viene adottato proprio per finalità antifrode.
[14] In tale ottica appare a fortiori condivisibile quanto di recente deciso dalla CTR di Milano, sent. n. 2465 del 22 aprile 2016, secondo cui, rispetto ad un caso di operazione soggettivamente inesistente, si “ritiene che si debba fare applicazione, stante il regime di inversione contabile che non ha di fatto comportato diretto danno per l’Erario, della sopravvenuta norma di cui all’art. 6, comma 9-bis 3 del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471 …dovrà quindi, in applicazione del favor rei, essere riconosciuta la neutralità dell’operazione ai fini IVA, non essendovi evasione d’imposta da parte del soggetto che ha emesso l’autofattura, ma dovrà essere sanzionata la non corrispondenza tra chi ha effettuato la prestazione e l’apparente fornitore della stessa – in assenza di prova dell’affidamento incolpevole – con la sanzione amministrativa prevista, che appare equo determinare nella misura del 10% dell’imponibile, mandando all’Ufficio per i conteggi”.