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Attualità

La Corte Suprema degli Stati Uniti e il fallimento di Purdue Pharma

5 Luglio 2024

Gilda Sophie Prestipino, Academic Fellow, Rock Center for Corporate Governance, Stanford Law School

Di cosa si parla in questo articolo

Il presente contributo passa in rassegna la sentenza Harrington v. Purdue Pharma L.P. dello scorso 27 giugno 2024 con cui la Corte Suprema degli Stati Uniti ha affrontato la questione di diritto fallimentare inerente alla legittimità del nonconsensual third-party release inserito in un piano di riorganizzazione aziendale.


In data 27 giugno 2024, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha emesso una delle sentenze più attese dell’anno. La sentenza Harrington v. Purdue Pharma L.P. ha affrontato la divisiva questione di diritto fallimentare inerente alla legittimità del nonconsensual third-party release inserito in un piano di riorganizzazione.[1] L’opinione maggioritaria, sostenuta da cinque dei nove giudici costituzionali, ha optato per un’interpretazione restrittiva della Sezione 1123(b)(6) del codice fallimentare statunitense, negando la validità della suddetta clausola ampiamente sostenuta dai creditori.

Il diritto fallimentare statunitense è disciplinato a livello federale. Il Bankruptcy Code (11 U.S.C.) è il testo normativo che predispone la disciplina fallimentare e concede ampi spazi di manovra in virtù del principio di equità. Nel tempo, l’equità ha permesso alle corti fallimentari di riconoscere istituti contrattuali non specificatamente contemplati nel testo normativo del codice fallimentare allo scopo di promuovere diversi interessi pubblici coinvolti nell’ordinamento fallimentare. La disciplina del Capitolo 11 del codice fallimentare prevede una ristrutturazione (reorganization) del patrimonio del debitore. Conseguentemente, l’intero assetto della disciplina fallimentare poggia su un’ampia libertà delle parti—debitore e creditori—di stilare un c.d. piano di riorganizzazione da sottoporre all’approvazione delle molteplici classi di creditori. Tra i vantaggi riconosciuti al debitore che abbia completato la procedura di riorganizzazione fallimentare contemplata nel Capitolo 11 vi è il c.d. discharge di cui alla Sezione 141(d)(1)(A), ossia l’esdebitazione del debitore da debiti sorti pre-istanza.

Più recentemente, un tema che ha generato un Circuit split, ossia una divisione dottrinale delle corti d’appello federali, riguardava il nonconsensual third-party release. Tale istituto permetteva al debitore di inserire nel piano di riorganizzazione delle previsioni in favore di soggetti terzi non debitori, quali ad esempio gli amministratori della società o i soci di società a responsabilità in accomandita, che istituivano una forma di liberazione da responsabilità civile (release). Tale istituto sembrerebbe rispecchiare la disciplina dell’esdebitazione di cui sopra, il cui presupposto è che il debitore abbia collaborato e reso possibile la massimizzazione nella ricostruzione del patrimonio fallimentare. Diversamente, nel caso del third-party release, soggetti terzi potevano ottenere il beneficio immunitario in cambio di elargizioni in denaro.

Il caso giunto davanti la Corte Suprema nell’ottobre del 2023 riguarda uno dei capitoli più disturbanti degli ultimi anni. La società farmaceutica Purdue Pharma è ritenuta una delle principali responsabili della crisi da oppioidi scoppiata negli Stati Uniti durante i primi anni 2000. Tra il 1999 e il 2019, si stima che vi siano state 247.000 vittime di overdose da oppioidi da prescrizione. Durante quel periodo, Purdue Pharma, la società produttrice dell’antidolorifico oppioide da prescrizione OxyContin, avrebbe fatturato 34 miliardi di dollari. Gli individui che hanno avuto un peso determinante nella gestione della società e che hanno beneficiato degli ingenti guadagni sono i membri della famiglia Sackler, i soli soci della società. In qualità di dirigenti e di amministratori di Purdue Pharma, i Sackler ricoprivano anche ruoli manageriali e avevano pieno potere decisionale circa il marketing dei prodotti a base di ossicodone.

Nel 2007, una società del gruppo e alcuni dirigenti si erano dichiarati colpevoli del reato federale di marketing ingannevole poiché avevano falsamente descritto OxyContin come un farmaco dalle proprietà in grado di creare minore dipendenza rispetto ad altri antidolorifici. In tale occasione, il gruppo fu condannato al pagamento di 635 milioni di dollari. Secondo la Corte Suprema, tale condanna determinò un cambiamento nell’approccio di distribuzione degli utili e l’avvio di un c.d. “programma di mungitura” (milking program). Se la società si era infatti limitata a distribuire circa il 15% degli utili negli anni antecedenti alla condanna, successivamente gli utili distribuiti raggiunsero il 70%. Tale decisione ha di fatto avuto l’effetto di depauperare il patrimonio societario fino a lasciare la società in uno stato di significativa difficoltà finanziaria. La famiglia Sackler avrebbe prelevato circa 11 miliardi di dollari e trasferitone la maggior parte in trust con sede all’estero e società chiuse a partecipazione familiare.

Per comprendere appieno la portata delle condotte poste in essere dai membri della famiglia Sackler, uno dei contributi di maggiore interesse è senza dubbio la relazione stilata dal Professor John C. Coffee, Jr., consulente tecnico dello stato dello Utah e tra i massimi esperti di diritto societario statunitense.[2] Il Professor Coffee svolge una disamina molto dettagliata della corporate governance di Purdue Pharma e mette in luce il profilo criminale della condotta dei Sackler. La totale noncuranza nei confronti del crescente numero di morti da overdose da ossicodone, unita alle molteplici azioni volte ad allontanare sospetti circa il nesso causale tra il farmaco e l’epidemia da oppioidi, hanno spinto il professor Coffee a concludere nei seguenti termini: “C’è poco da distinguere il controllo esercitato dai Sackler su Purdue dal controllo che il padrino aveva sulla sua famiglia mafiosa”.

È dunque chiaro come che la procedura fallimentare della società Purdue Pharma abbia coinvolto un numero molto ampio di creditori, tra cui vi sono diversi enti pubblici territoriali americani e numerose famiglie delle vittime. Del resto, alla procedura fallimentare è affidato il compito di massimizzare il patrimonio fallimentare attraverso azioni revocatorie e negoziazioni e, più generalmente, mitigare i problemi connessi all’azione collettiva. Inoltre, ai sensi della Sezione 307 del codice fallimentare, il Trustee degli Stati Uniti—un rappresentante del Dipartimento di Giustizia al quale è affidato il ruolo di promuovere l’integrità del sistema fallimentare—ha la possibilità di intervenire nelle singole procedure fallimentari.

Poiché la procedura fallimentare riguarda esclusivamente la società Purdue Pharma, nessun altro soggetto sarebbe contemplato nel piano di riorganizzazione in qualità di beneficiario dei vantaggi riconosciuti al debitore a seguito della conclusione del procedimento fallimentare. Ciononostante, il piano proposto prevedeva che ai membri della famiglia Sackler fosse concesso un release contro la restituzione di una cifra tra 5,5 miliardi e 6 miliardi di dollari all’attivo fallimentare. Tale importo avrebbe dovuto distribuirsi ai congiunti delle vittime e agli enti pubblici territoriali allo scopo di creare programmi di prevenzione e disintossicazione nelle comunità maggiormente colpite dalla crisi degli oppioidi. Di conseguenza, ai congiunti delle singole vittime sarebbe spettato tra 3.500 e 48.000 dollari.

Secondo i legali del debitore e i sostenitori del piano, la disposizione giuridica sulla base della quale sarebbe stato possibile convenire a una simile costruzione sarebbe la c.d. catchall provision di cui alla Sezione 1123(b)(6) del codice fallimentare. Nel disciplinare i diritti e le responsabilità del debitore, la norma dispone che un piano di riorganizzazione possa contenere termini non espressamente contemplati dal testo di legge purché appropriati e non incoerenti con i principi del codice fallimentare. È chiaro come l’ampiezza e la vaghezza linguistica della disposizione si presti a interpretazioni divergenti. Se la possibilità che il debitore possa ottenere un’ esdebitazione è infatti contemplata dalla Sezione 1141(d)(1)(A), opinioni discordanti circa la legittimità del c.d. third-party release permanevano sia tra la dottrina che la giurisprudenza. Ad informare ulteriormente il dibattito vi è la disciplina prevista dalla Sezione 524(g), che il Congresso adottò nel 1994 per fronteggiare il crescente contenzioso tra i produttori e le vittime di danni biologici causati dall’amianto. La Sezione 524(g) dispone che soggetti terzi possano beneficiare di nonconsensual (third-party) releases ove devolvano corrispettivi in denaro a un fondo appositamente costituito per il risarcimento delle vittime.

Il Trustee degli Stati Uniti, intervenuto mediante l’Avvocato generale degli Stati Uniti, ha sostenuto l’illegittimità del nonconsensual third-party release, ritenendo che il codice fallimentare non contemplerebbe, neanche ove venisse applicata un’interpretazione estensiva della Sezione 1123(b)(6), questo tipo di accordi al di fuori del limitato caso espressamente previsto nella Sezione 524(g). L’Avvocato generale si è anche soffermato sulla circostanza secondo la quale i membri della famiglia Sackler avrebbero ottenuto i benefici previsti dal nonconsensual third-party release in virtù dei 5,5 miliardi o 6 miliardi di dollari restituiti al patrimonio fallimentare sebbene avessero sottratto la cifra di 11 miliardi. Quando, durante l’udienza dinnanzi alla Corte Suprema, gli avvocati di Purdue Pharma hanno addotto che, in mancanza del release, sarebbe impossibile giungere a qualunque altro accordo, la giudice Jackson ha sottolineato come tale circostanza sarebbe da ricondursi al disonesto comportamento della famiglia Sackler piuttosto che a fattori al di fuori della loro sfera decisionale.

Uno dei punto maggiormente conteso ha riguardato il tema del consenso dei creditori. Oltre il 97% dei creditori votanti avevano approvato il piano, ma circa 2.600 creditori (3%) si erano opposti. Ove il piano di riorganizzazione fosse stato approvato dalla corte fallimentare, ai creditori contrari sarebbe stata impedita qualunque azione risarcitoria nei confronti dei Sackler. Secondo l’opinione maggioritaria della Corte Suprema, proprio questo aspetto presenterebbe criticità e confliggerebbe con il principio cardine del diritto fallimentare statunitense, il principio di equità. Una simile soluzione potrebbe raggiungersi soltanto ove il Congresso prevedesse espressamente tale possibilità, come avvenuto nel 1994 con la Sezione 524(g).

Di converso, la dissenting opinion del giudice Kavanaugh (alla quale si sono uniti i giudici Roberts, Sotomayor e Kagan) ha sottolineato come l’interpretazione espressa nella sentenza si ponga in contrasto con molteplici principi precedentemente sanciti dalla Corte Suprema. Secondo il testo del dissenso, la sentenza avrebbe avuto un devastante impatto sulle vittime degli oppioidi e sulle loro famiglie private dell’atteso risarcimento monetario. Inoltre, la sentenza non terrebbe conto dell’ampio consenso ottenuto dal piano e del fatto che, attraverso istituti quali il third party release, è possibile fronteggiare il problema di azione collettiva insito nel fenomeno del contenzioso di massa.

Ciononostante, la maggioranza dei giudici ha ritenuto necessario intervenire per porre fine alla pratica del nonconsensual third-party release perché ritenuta illegittima proprio in ragione del carattere non consensuale. Come esposto, la pronuncia stilata dal giudice Gorsuch presenta diversi aspetti d’interesse. Innanzitutto, la sentenza rappresenta un raro esempio in cui i giudici non si sono divisi sulla base delle proprie posizioni ideologiche e politiche. Infatti, le due tesi sono state condivise sia da giudici di nomina repubblicana, sia da giudici di nomina democratica. Inoltre, il ruolo assunto dalla giudice Jackson in sede di udienza è stato particolarmente incisivo per aver messo in luce la disonestà della famiglia Sackler nell’aver reso impossibile ogni azione revocatoria degli ingenti profitti sottratti negli anni antecedenti all’istanza di fallimento.

La sentenza Harrington v. Purdue Pharma L.P. è una sentenza cruciale per il diritto fallimentare statunitense. Evitando che dei terzi non debitori beneficiassero di una forma di immunità da responsabilità civile, la pronuncia ha sancito il principio secondo il quale, in mancanza di un consenso unanime da parte delle classi di creditori, soltanto un intervento legislativo ad hoc può permettere una simile pratica.

 

[1] Harrington, United States Trustee, Region 2 v. Purdue Pharma L. P. et al., 603 US _ (2024).

[2] Expert Report of Professor John C. Coffee, Jr., In re Purdue Pharma L.P., No. 107102 (Utah Div. of Consumer Prot. July 12, 2019).

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