Nei casi di compensi reversibili la società non versa alcun compenso all’amministratore, legato da rapporto di lavoro dipendente o di collaborazione coordinata e continuativa con altra società, ma si limita a versare a quest’ultima un corrispettivo per l’utilità ricevuta, consistente nella fruizione dell’attività di gestione societaria espletata dalla risorsa umana messale a disposizione. La situazione fattuale non è, quindi, riconducibile alla fattispecie della deduzione del costo rappresentato dal compenso all’amministratore, mancando l’erogazione di somme di denaro a tale titolo a colui che ha svolto l’attività gestoria. L’inapplicabilità della disciplina della deduzione del costo per attività di amministrazione societaria e del relativo principio, eccezionale, di cassa, determina, in applicazione delle regole generali sui componenti del reddito di impresa, la rilevanza del costo quale spesa per prestazione di servizi e la sua deducibilità secondo il principio di competenza.
Così si è espressa la Suprema Corte nell’odierna sentenza, richiamando altro precedente della medesima sezione (Cfr. Cass. 10 ottobre 2020 n. 22479).
La controversia traeva origine dalla notificazione dell’avviso di accertamento alla società ricorrente, per effetto del quale l’Amministrazione finanziaria recuperava a tassazione per l’annualità 2008, ai fini dell’IRES, costi consistenti in “compensi reversibili” erogati dalla contribuente, nel 2009, a due società partecipanti al suo capitale sociale per l’attività d’amministrazione svolta a proprio favore da dipendenti delle partecipanti.
La società ricorrente risultava vittoriosa in entrambi i gradi di merito, in virtù del fatto che il giudice di seconde cure, rigettando il gravame prospettato dall’Agenzia delle Entrate e confermando la declaratoria della CTP, aveva ritenuto che, nel caso de quo, la società controllata, escludendo l’applicabilità del criterio di deduzione del costo per cassa nell’esercizio in cui il compenso è stato corrisposto in ossequio al comma 5 dell’art. 95 del T.U.I.R., avesse debitamente dedotto il costo per compensi reversibili nell’esercizio di competenza, a tenore dell’art. 109 del T.U.I.R, .poiché tali compensi avevano concorso alla formazione del reddito di impresa della società controllante, e, consequenzialmente, costituivano per la società ricorrente un costo deducibile per competenza.
L’Agenzia delle entrate, con unico motivo di ricorso, ricorreva per cassazione, dolendosi della violazione o falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986,art. 95, comma 5e art. 109, censurando la sentenza impugnata per avere affermato che i costi connessi ai compensi erogati non direttamente agli amministratori, ma alle società di cui essi erano dipendenti, c.d. “compensi reversibili”, fossero imputabili secondo il criterio di competenza, anziché “per cassa”, come stabilito dal comma 5 dell’art. 95 del T.U.I.R.
Il collegio di legittimità non ha accolto le doglianze dell’Agenzia delle Entrate, sulla scorta delle considerazioni che seguono.
A dire degli ermellini, nelle dinamiche interne ai gruppi societari, accade sovente che la società controllante/partecipante affidi l’incarico di amministratore nel board della società controllata/partecipata ad un dipendente (di solito un dirigente), proprio o di altra società del gruppo.
In tal caso, la controllata corrisponde il compenso dell’amministratore direttamente alla società della quale questi è dipendente e l’emolumento concorre alla formazione del reddito d’impresa della società controllante nel periodo di competenza.
Simmetricamente al detto criterio di tassazione del compenso come reddito d’impresa della controllante, i giudici di legittimità hanno chiarito che, per quanto attiene al costo sopportato dalla società controllata, trova applicazione la disciplina generale dell’art. 109 del T.U.I.R.., della deduzione dei costi “per competenza”, con esclusione, quindi, del comma 5 dell’art. 95 del T.U.I.R.., al quale, errando, fa riferimento l’ Agenzia delle Entrate, che prevede la diversa ipotesi della deducibilità dal reddito d’impresa, nell’esercizio in cui sono corrisposti (secondo il principio di cassa), dei compensi erogati direttamente agli amministratori.
Ebbene, per quanto detto, la Suprema Corte, evidenziando la coerenza della sentenza impugnata con il principio di diritto enunciato, ha rigettato il ricorso e condannato l’Agenzia delle entrate a corrispondere alla ricorrente le spese del giudizio di legittimità.