Il procedimento de quo ha avuto ad oggetto la domanda risarcitoria proposta da un imprenditore fallito nei confronti dell’istituto bancario che, avendo ricevuto mandato a vendere gli immobili in proprietà dello stesso imprenditore fino a concorrenza del credito derivante dallo scoperto di conto corrente, anziché dare corretta esecuzione al mandato ne aveva richiesto, e ottenuto, la dichiarazione di fallimento. Nel corso del giudizio, il giudice di primo grado, con sentenza confermata in appello, ha respinto tale domanda risarcitoria accogliendo l’eccezione sollevata dall’istituto bancario, fondata sull’esistenza di un giudicato esterno in relazione alla domanda di danno proposta dall’imprenditore con l’opposizione alla dichiarazione di fallimento.
Con il ricorso in cassazione, l’imprenditore fallito ha lamentato l’errore in cui sarebbero incorsi i giudici di merito laddove non hanno considerato la differenza sussistente tra le due domande proposte: (i) la prima, in sede di opposizione al fallimento, finalizzata alla negazione dello stato di insolvenza e alla condanna della banca per responsabilità aggravata ai sensi dell’art. 96 c.p.c., per aver la medesima proposto ricorso per il fallimento in assenza dei presupposti; (ii) la seconda, avanzata con il giudizio in esame, volta ad ottenere il risarcimento ex art. 2043 c.c. del danno complessivamente subito come conseguenza della condotta contraria a buona fede osservata dall’istituto bancario in relazione all’esecuzione del mandato a vendere conferito per il ripianamento del debito.
La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso dell’imprenditore fallito evidenziando, in via preliminare che “il giudicato va assimilato agli elementi normativi, cosicché la sua interpretazione deve essere effettuata alla stregua dell’esegesi delle norme e non già degli atti e dei negozi giuridici, e gli eventuali errori interpretativi sono sindacabili sotto il profilo della violazione di legge”, con la conseguenza che “il giudice di legittimità può direttamente accertare l’esistenza e la portata del giudicato esterno, con cognizione piena”.
Nel merito, la Suprema Corte ha chiarito come la dichiarazione di irrilevanza della condotta osservata dalla banca contenuta nella sentenza dichiarativa di fallimento non fosse, in quella sede, posta in relazione ad una fattispecie di responsabilità civile, ma unicamente allo scrutinio della impugnazione della dichiarazione di fallimento medesima, “nel senso che dirimenti per la sentenza sono stati i profili dell’esposizione debitoria e dell’assenza di liquidità di cassa, e non anche il profilo della pregressa condotta della banca creditrice concernente il mandato”.
In assenza di un nesso di pregiudizialità logica con la fattispecie relativa ai presupposti per la dichiarazione di fallimento, ha concluso la Corte, non sussistono ostacoli alla proposizione nei confronti dell’istituto bancario di una domanda ex art. 2043 c.c. volta ad ottenere il risarcimento del danno patito come conseguenza della condotta causativa del fallimento.