Nel caso in esame la Corte di Cassazione, richiamando il principio statuito da Cass. Civ., Sez. I, 20 Maggio 2016, n. 10507, ha chiarito che l’art. 147, quinto comma, l. fall. “trova applicazione non solo quando, dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore individuale, risulti che l’impresa è, in realtà, riferibile a una società di fatto tra il fallito e uno o più soci occulti, ma anche, in virtù di sua interpretazione estensiva, quando il socio già fallito sia una società, anche di capitali, che partecipi, con altre società o persone fisiche, a una società di persone (cd. supersocietà di fatto)”.
Affinché possa dirsi integrata la fattispecie della supersocietà di fatto occorre però dimostrare rigorosamente il comune intento sociale perseguito dai suoi presunti soci, “che deve essere conforme, e non contrario, all’interesse dei soci, dovendosi ritenere che la circostanza che le singole società perseguano, invece, l’interesse delle persone fisiche che ne hanno il controllo, anche solo di fatto, costituisca, piuttosto, una prova contraria all’esistenza della supersocietà di fatto”, indicativa semmai dell’esistenza di una holding di fatto, che “può essere dichiarata autonomamente fallita, ove ne sia accertata l’insolvenza a richiesta di uno dei soggetti legittimati” (cfr. Cass. civ., Sez. I, 25 luglio 2016, n. 15346).
Sulla base di tali principi, la Corte di Cassazione ha confermato la sentenza resa dalla Corte d’Appello di Catanzaro che, non ravvisando la sussistenza dei presupposti di una supersocietà di fatto, ne aveva revocato il fallimento.