La recente risposta 8 settembre 2020, n. 323 alla richiesta di chiarimenti di un contribuente ha ulteriormente stimolato il dibattito sulla fiscalità degli strumenti finanziari derivati non di copertura, in particolare nel caso di micro-imprese disciplinate dall’art. 2435-ter del Codice Civile.
Il Precedente
Già con la precedente risposta 24 aprile 2020, n. 121, era stato sollevato un quesito relativo al corretto trattamento fiscale dei titoli detenuti da una micro-impresa che, tra l’altro, chiedeva dei chiarimenti in ordine alle norme del TUIR applicabili alla sua attività di trading su strumenti finanziari derivati rientranti nella categoria degli ETC (“exchange traded commodities”). In quell’occasione, l’Agenzia delle entrate aveva affermato che i componenti positivi e negativi derivanti dalla valutazione di tali strumenti finanziari alla data di chiusura dell’esercizio avrebbero concorso alla formazione del reddito, in ossequio all’art. 112, c. 2 del TUIR; inoltre, al reddito di periodo avrebbero concorso gli eventuali plusvalori o minusvalori emersi al momento del realizzo, in applicazione del principio di derivazione recato dall’art. 83 del TUIR. Ai fini IRAP, a dire il vero sorprendentemente visto che la stessa Agenzia delle entrate concordava con l’interpretazione del contribuente concludendo che la società istante non rientrasse in alcuna “delle tipologie di cui al comma 1 dell’articolo 162-bis del TUIR, dal momento che il portafoglio dallo stesso detenuto è composto unicamente da ETC emessi da una società veicolo a fronte dell’investimento in una materia prima”, la risposta stabiliva che i componenti di reddito suddetti fossero da ricondurre tra le voci rilevanti per la formazione della base imponibile del tributo.
La risposta n. 323 del 2020
Il parere espresso nella risposta n. 121 del 2020 secondo cui “in sede di realizzo degli strumenti finanziari derivati in esame, si determineranno componenti positivi o negativi che concorreranno alla formazione del reddito di periodo, ai sensi dell’articolo 83 del TUIR” poteva ingenerare il dubbio, puntualmente esposto dal contribuente nella nuova istanza che i differenziali positivi da valutazione dei derivati fossero da considerarsi rilevanti ai fini IRES e che si dovesse procedere alla loro tassazione attraverso variazioni fiscali in aumento della base imponibile “…derivanti da dati extracontabili e determinate dal disallineamento tra il valore civile e fiscale dei derivati stessi”.
Come precisato nell’interpello, la valutazione al fair value degli ETC alla chiusura del bilancio 2019 avrebbe determinato un differenziale positivo che non sarebbe stato possibile iscrivere nel bilancio che la società redige applicando le disposizioni dell’art. 2435-ter del Codice Civile quindi senza rilevare i derivati al fair value, differenziale che non sarebbe stato tassato.
Dal momento che, successivamente, gli ETC sono stati ceduti generando delle plusvalenze in alcune transazioni e minusvalenze in altre, l’istante si chiede se ai fini della determinazione delle imposte dirette il differenziale positivo derivante dalla valutazione in chiusura di bilancio e di cui non si è data evidenza in bilancio debba essere scomputato dalle componenti emerse a seguito della dismissione dei titoli. L’istante si domanda anche se tale componente valutativa debba avere rilevanza in sede di determinazione del ROL fiscale, ai sensi della nuova disciplina dettata dall’art. 96 del TUIR.
L’Agenzia, richiamando quanto affermato nella risposta precedente, ha precisato che il valore fiscale dello strumento finanziario non subisce alcuna variazione in sede di valutazione di fine esercizio e che l’eventuale differenziale tra tale valore e il corrispettivo di cessione necessariamente concorrerà alla formazione del reddito imponibile ai sensi dell’art. 83 del TUIR. Sempre in materia di IRES, ha anche ritenuto che “…in relazione, ai componenti negativi che alimentano l’eventuale fondo di cui al paragrafo 22 dell’OIC 31, si è in presenza di componenti di reddito la cui classificazione fiscale è riconducibile agli accantonamenti di cui al comma 4 dell’articolo 107 del Tuir”.
Analoga la conclusione ai fini IRAP, poiché, secondo l’interpretazione dell’Amministrazione finanziaria, anche in questo caso gli eventuali componenti di reddito emersi in sede di valutazione restano ininfluenti fino al momento del realizzo.
Con riguardo a quest’ultimo tributo, come già accennato, la risposta dell’Amministrazione finanziaria ha ribadito la posizione già precedentemente assunta nella risposta n. 121 del 2020, concludendo che “…in considerazione della peculiare attività posta in essere dalla società interpellante (attività di trading su strumenti finanziari derivati), si ritiene che i componenti di reddito derivanti sia dalla valutazione a fine esercizio sia dal realizzo degli strumenti in parola debbano essere ricondotti tra le voci rilevanti ai fini del tributo regionale, ai sensi dell’articolo 5 del decreto IRAP, in quanto rappresentativi dell’attività caratteristica della società istante”.
Solo al fine di consentire uno sviluppo ordinato degli spunti di riflessione che la risposta stimola, anche in considerazione dell’importanza che rivestono ai fini della soluzione del quesito, si ripercorrono rapidamente gli aspetti principali delle regole di contabilizzazione applicabili alla fattispecie.
Cenni sulla disciplina contabile degli strumenti finanziari derivati
Prima delle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 139/2015 e dell’approvazione del principio contabile OIC 32 (“Strumenti finanziari derivati”), gli strumenti finanziari derivati non erano disciplinati dal punto di vista contabile. Solamente l’art. 2427-bis del Codice Civile, richiamato dal principio contabile OIC 3, prevedeva l’obbligo di indicare in nota integrativa ciascuna categoria di derivati, il loro fair value, e le informazioni sulla loro entità e natura.
La nuova disciplina è applicabile a tutte le società, comprese quelle tenute alla redazione del bilancio in forma abbreviata ex art. 2435-bis, mentre ne restano escluse quelle disciplinate dall’articolo seguente, ossia le micro-imprese. Tale disciplina è stata delineata sulla base di quanto previsto dai principi contabili internazionali in materia di strumenti finanziari derivati (dapprima dallo IAS 39, sostituito dall’IFRS 9 a partire dal 1° gennaio 2018).
È, infatti, lo stesso IAS 39, come confermato dall’IFRS 9, che richiede che i derivati siano iscritti al loro fair value e che le variazioni di fair value siano rilevate a conto economico.
Tale disposizione si rinviene all’art. 2426, così come modificato dal d.lgs. 139/2015, contenente i criteri di valutazione di bilancio, che, al punto 11-bis, prevede che gli strumenti finanziari derivati siano iscritti al fair value e le eventuali variazioni del fair value debbano essere imputate al conto economico. Per la definizione di strumento finanziario derivato e di fair value, l’articolo rimanda, infatti, a quando stabilito dai principi contabili internazionali[1].
In particolare, il comma 4 prevede che “il fair valueè determinato con riferimento: a) al valore di mercato, per gli strumenti finanziari per i quali è possibile individuare facilmente un mercato attivo; qualora il valore di mercato non sia facilmente individuabile per uno strumento, ma possa essere individuato per i suoi componenti o per uno strumento analogo, il valore di mercato può essere derivato da quello dei componenti o dello strumento analogo; b) al valore che risulta da modelli e tecniche di valutazione generalmente accettati, per gli strumenti per i quali non sia possibile individuare facilmente un mercato attivo; tali modelli e tecniche di valutazione devono assicurare una ragionevole approssimazione al valore di mercato”.
Inoltre, l’informativa in nota integrativa disciplinata dall’art. 2427-bis si estende anche agli assunti fondamentali su cui si basano i modelli e le tecniche di valutazione, laddove il fair value non sia stato determinato con riferimento al valore di mercato; alle variazioni di valore iscritte direttamente a conto economico, nonché quelle imputate alle riserve di patrimonio netto; ai movimenti delle riserve di fair value avvenuti nell’esercizio.
Il legislatore ha, inoltre, apportato delle modifiche anche agli schemi di stato patrimoniale e conto economico, per recepire gli effetti della nuova disciplina sulle voci di bilancio; in particolare, a stato patrimoniale, sono state inserite le voci B.III.4 e C.III.5 tra le immobilizzazioni finanziarie e nell’attivo circolante, per l’iscrizione degli strumenti finanziari derivati attivi; nel patrimonio netto è stata inserita una specifica riserva per le operazioni di copertura dei flussi finanziari attesi (A.VII); nel passivo è stata inserita la voce B.3 tra i fondi per rischi e oneri, per l’iscrizione degli strumenti finanziari derivati passivi; a conto economico, sono state inserite le voci D.18 d) e D.19.d) dedicate alle rivalutazioni e alle svalutazioni di strumenti finanziari derivati.
L’OIC 32, approvato a novembre 2016, al paragrafo 37, precisa che “gli strumenti finanziari derivati sono valutati al fair value sia alla data di rilevazione iniziale sia ad ogni data di chiusura del bilancio”. Le eventuali variazioni determinate in sede di valutazione saranno rilevate, con specifico riferimento ai derivati speculativi, a conto economico.
Pertanto, un derivato non di copertura sarà iscritto tra le attività finanziarie se il fair value è positivo (strumenti finanziari derivati attivi dell’attivo circolante – C.III.5), oppure tra le passività finanziarie se il fair value è negativo (strumenti finanziari derivati passivi – B.3). Gli adeguamenti di fair value, da iscriversi a conto economico (rivalutazione/svalutazione di strumenti finanziari derivati – D.18.d/D.19.d), qualora siano di segno positivo, inibiscono la distribuzione degli utili che non rilevano neppure ai fini ACE.
Come già precisato, tale disciplina non è stata estesa alle c.d. micro-imprese. Difatti, l’art. 2435-ter esclude l’applicabilità delle disposizioni di cui al n. 11-bis del comma 1 dell’art. 2426 e quindi le norme sulla valutazione dei derivati. Pertanto, le micro-imprese, analogamente a quanto accadeva prima dell’introduzione della nuova normativa, continuano ad iscrivere le eventuali operazioni in strumenti finanziari derivati in calce allo stato patrimoniale, o in nota integrativa qualora sia redatta, e a stanziare un fondo rischi ed oneri in presenza di derivati speculativi con fair value negativo.
Alcuni spunti critici sull’interpretazione dell’Amministrazione finanziaria
Dalla rapida descrizione dell’inquadramento contabile, che come si è visto, per le c.d. micro-imprese è rimasto immutato, è evidente che quest’ultime non potranno mai esporre in bilancio differenziali positivi di valutazione. Questo dovrebbe semplificarne anche il relativo trattamento fiscale, in quanto, prima ancora di verificare le modalità di applicazione dell’art. 112 del TUIR, risulterebbe decisiva l’applicazione del c.d. principio di derivazione formulato dal precedente art. 83 del TUIR in base al quale non sarebbe tassabile un componente positivo da valutazione legittimamente escluso dalle rilevazioni contabili. Ed infatti, la conclusione dell’Amministrazione finanziaria appare coerente con questo percorso logico e valorizza, ai fini della soluzione del quesito posto “…l’assenza della rilevazione delle eventuali oscillazioni del valore del derivato detenuto con finalità diverse dalla copertura rende, della sostanza, ininfluente l’applicazione delle previsioni contenute nei commi 2 e 3 dell’articolo 112 del Tuir, ferma restando l’inclusione, in linea di principio, del fenomeno nell’ambito di applicazione del menzionato articolo”. Risolto in maniera condivisibile il primo dubbio, desta, però qualche perplessità l’indicazione sul trattamento fiscale di eventuali componenti negativi scaturiti dal processo di valutazione dei derivati che la risposta dell’Agenzia delle entrate inquadra senza incertezze tra gli accantonamenti indeducibili ai sensi dell’art. 107, comma 4 del TUIR. In caso di oscillazioni negative del valore degli strumenti derivati, come si è già accennato, le micro-imprese continuano ad applicare i criteri contabili precedenti alla riforma, in particolare il documento OIC 19, e, pertanto, continueranno a stanziare le perdite nette maturate su strumenti derivati in appositi fondi del passivo di stato patrimoniale. Ciò che risulta poco comprensibile è perché eventuali componenti negativi contabilizzati dovrebbero rientrare nell’ambito di applicazione dell’art. 107 comma 4 anziché essere disciplinati dalle specifiche norme che il legislatore ha dettato nei commi 2 e 3 dell’art. 112 del TUIR, con l’intento sicuramente di limitarne la deducibilità ma non di escluderla radicalmente. D’altra parte, sembrerebbe avvalorare questa lettura anche il successivo comma 3-bis dello stesso art. 112 che espressamente esclude che si possa estendere alle micro-imprese la possibilità di dedurre i componenti negativi imputati al conto economico anche oltre i limiti previsti dal precedente comma 3: la previsione di un limite di deducibilità implica il riconoscimento di un diritto, seppur parziale, a dedurre un componente negativo di reddito, situazione che ragionevolmente sembra incompatibile con la preclusione assoluta prevista dal comma 4 dell’art. 107 del TUIR.
Anche sotto il profilo IRAP la risposta dell’Agenzia delle entrate, peraltro coerente con la precedente n. 121 dell’aprile scorso, desta qualche dubbio e non pare convincente. Infatti, di nuovo si fa discendere “dalla peculiare attività posta in essere dalla società interpellante (attività di trading su strumenti finanziari derivati)” il trattamento fiscale della fattispecie. In realtà, considerato che l’interpellante risulta essere una società di capitali cui si applicano, per la determinazione del valore della produzione, le disposizioni recate dall’art. 5 del D.Lgs. 446 del 1997, le componenti finanziarie correttamente contabilizzate nell’area D del bilancio sono irrilevanti ai fini IRAP. Tuttavia, secondo l’interpretazione dell’Agenzia, la base imponibile IRAP dell’interpellante non sarebbe determinata dalla differenza tra il valore e i costi della produzione così come individuati dalla norma, ma dovrebbe ricomprendere il risultato dell’attività di trading perché esercitata con carattere di continuità e sistematicità, a prescindere dalla sua contabilizzazione in un’area di bilancio tradizionalmente irrilevante ai fini del tributo. D’altra parte, non sembrano esistere appigli giuridici che giustifichino la modifica dei criteri di determinazione del valore della produzione che il legislatore ha destinato ad una categoria ben individuata di contribuenti: non lo consente la formulazione letterale della norma, non si ravvede l’esigenza di rimediare in via interpretativa ad un presunto vulnus alla coerenza del sistema impositivo (anche ammettendo che questo rientri tra le attribuzioni dell’Amministrazione).
La difficile relazione tra derivati e reddito d’impresa
I poco convincenti orientamenti espressi in questa occasione dall’Amministrazione finanziaria si inseriscono nell’alveo tracciato da una serie di discutibili interpretazioni di cui sono state oggetto le disposizioni sui derivati nell’ambito della disciplina del reddito d’impresa. Come è noto, la Corte di Cassazione ha più volte negato la deducibilità dei componenti negativi, sebbene realizzati, correlati agli strumenti finanziari derivati speculativi (Sen. 28 febbraio 2017, n. 5160 e Sen. 23 maggio 2018, n. 12738) sul presupposto della carenza del requisito di inerenza “…del costo alla attività di impresa svolta dalla società” perché, sempre secondo la motivazione della citata Sen. 5160/2017, nessuna “correlazione, anche indiretta o mediata, è ravvisabile tra la perdita derivante dalla stipulazione di un contratto di “interest rate swap” speculativo ed i ricavi o componenti positivi derivanti dalla attività di impresa svolta da una società il cui oggetto sociale non è costituito dalla assunzione di rischi finanziari ma dalla produzione di beni”. Questa posizione espressa dalla Suprema corte ha recentemente registrato un’evoluzione se possibile ancor più preoccupante che giunge addirittura a mettere in discussione anche la deducibilità dei componenti negativi scaturiti dai derivati di copertura ritenendo che “…le società, che non sono enti creditizi o finanziari, non possono dedurre fiscalmente gli accantonamenti predisposti per la copertura del rischio legato al contratto di “interest rate swap”, se non ne dimostrano l’inerenza con l’attività imprenditoriale esercitata”. La deducibilità risulterebbe subordinata alla dimostrazione della “…correlazione concretamente ravvisabile tra la perdita derivante dalla stipulazione di un contratto di “interest rate swap” e i ricavi o componenti positivi derivanti dall’attività di impresa” (Sen. primo gennaio 2020, n. 902). Come nella risposta 323/2020 dell’Agenzia delle entrate sulla rilevanza IRAP dei derivati per la società istante, anche in questo caso la natura dell’attività svolta dal contribuente sembra rivestire un ruolo decisivo nella determinazione del trattamento tributario del fenomeno analizzato e anche in questo caso tale ruolo sembra attribuito senza motivo.
Infatti, il legislatore era già intervenuto sul previgente art. 103-bis del TUIR, per estenderne l’applicazione anche ai soggetti diversi dagli enti creditizi e finanziari, mentre nell’attuale art. 112 del TUIR è addirittura stato soppresso qualsiasi riferimento alle banche ed agli intermediari finanziari. Inoltre, in entrambe le norme sono declinati criteri diversi di partecipazione alla formazione del reddito imponibile per gli strumenti finanziari derivati speculativi e per quelli sottoscritti con finalità di copertura. È possibile che il legislatore intendesse limitare la deducibilità dei componenti negativi scaturiti da un’attività caratterizzata da un elevata componente di aleatorietà, ma di certo non ha voluto introdurre una presunzione assoluta con lo scopo di negare l’inerenza degli oneri scaturiti da quella stessa attività solo perché esercitata da imprese diverse dagli enti creditizi e finanziari. Indiretta conferma si ricava anche dalla circostanza che il legislatore abbia avvertito la necessità di dettare specifiche norme di coordinamento delle disposizioni in materia di IRES e IRAP introdotte con il decreto legislativo n. 139 del 2015 introducendo una disciplina transitoria per la valutazione degli strumenti finanziari derivati differenti da quelli iscritti in bilancio con finalità di copertura, con una norma, il comma 5 dell’art. 13-bis del D.L. 244 del 2016, che difficilmente si potrebbe ipotizzare come indirizzata alle banche.
Analizzando l’evoluzione dell’orientamento della Corte di Cassazione, si osserva dal 2017 ad oggi una sempre più precisa volontà di riconoscere la deducibilità, alle imprese diverse dagli enti creditizi e finanziari, solo degli oneri scaturiti dall’attività di hedging. Con la pronuncia del gennaio 2020 in particolare, la Corte di Cassazione non solo ribadisce le proprie convinzioni, ma sembra quasi attribuire al contribuente l’onere di provare l’efficacia della copertura “…nel senso che le società, che non sono enti creditizi o finanziari, non possono dedurre fiscalmente gli accantonamenti predisposti per la copertura del rischio legato al contratto di “interest rate swap”, se non ne dimostrano l’inerenza con l’attività imprenditoriale esercitata”. Questa interpretazione che già di per sé lascia perplessi perché nega radicalmente, in netta contraddizione con la lettera e lo spirito della norma, in verità non solo dell’art. 112 ma anche dell’art. 103-bis, la rilevanza fiscale dei componenti negativi correlati a strumenti finanziari speculativi, è suscettibile di creare effetti anche più drammatici solo che si pensi che ai fini contabili la qualificazione della relazione di copertura è subordinata alla verifica della sussistenza di precisi e rigidi criteri in mancanza dei quali l’operazione viene considerata non di copertura a prescindere dalla finalità per cui è stata posta in essere. Questo significa che dal punto di vista tecnico-contabile i derivati di copertura rischiano di rappresentare un’eccezione piuttosto che una regola, e questo potrebbe produrre, in ambito tributario, le pesanti conseguenze che si è appena visto.
In questo contesto, appare curioso che la Corte adduca, a sostegno della sua tesi, la recente e condivisibile declinazione che ha dato del principio di inerenza, in particolare nell’ordinanza n. 450 del 2018 e nella sentenza n. 29179/2019 , secondo cui “può affermarsi che l’inerenza, qualunque valore ad essa voglia attribuirsi, sussista ogni qual volta i costi siano riferibili a qualsiasi operazione idonea a produrre reddito, poiché la riferibilità si relaziona non ai ricavi in sé, ma all’oggetto dell’impresa”. Considerato che eventuali differenziali positivi scaturiti dall’attività speculativa in derivati andrebbero indubitabilmente tassati, non sembra coerente escludere dalla partecipazione al reddito oneri che abbiano la stessa origine.
Conclusioni
Il quadro, certo non esaustivo, che si è appena abbozzato è, in ogni caso, rappresentativo delle molte incertezze e difficoltà che le imprese, a prescindere dalle dimensioni, dall’ambito di attività e dai principi contabili adottati, si trovano a dover fronteggiare quando devono decidere il trattamento fiscale di strumenti che, ormai da molto tempo, rappresentano una componente ordinaria per non dire essenziale della gestione delle loro risorse finanziarie. In definitiva la risposta dell’Agenzia delle entrate, pur apprezzabile sotto alcuni profili, evidenzia come la complessità delle norme tributarie e la difficoltà di trovare un adeguato coordinamento tra le varie disposizioni possa compromettere la coerenza del sistema nel suo complesso e, complice anche la stratificazione di interventi interpretativi che utilizzano criteri ermeneutici spesso di difficile comprensione, disorientare il contribuente e gli operatori del settore.
[1] Secondo la definizione contenuta nell’Appendice A dell’IFRS 9, il derivato è uno strumento finanziario o altro contratto che presenta le seguenti tre caratteristiche: (i) il valore dello strumento varia in relazione alla variazione di un parametro sottostante (tasso di interesse, prezzo di uno strumento finanziario, prezzo di una merce, tasso di cambio in valuta estera, indice di prezzi o di tassi, merito di credito o indici di credito o altra variabile); (ii) non richiede un investimento iniziale ovvero richiede un investimento netto iniziale minore rispetto a quanto sarebbe richiesto per altri tipi di contratti che rispondono in modo simile alle variazioni dei fattori di mercato; (iii) è regolato ad una data futura.