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Note

La difficile convergenza fra clima e finanza nei primi arresti giurisprudenziali stranieri

10 Aprile 2025

Allegra M. Bernabei, Dottoranda di ricerca in Diritto ed Economia della Società Digitale, Università Telematica Internazionale Uninettuno

Di cosa si parla in questo articolo

SOMMARIO : Nel 2023, l’associazione ambientalista ClientEarth ha esperito un’azione legale (c.d. “derivative action”) contro gli amministratori di Shell per non aver – asseritamente – rispettato i loro doveri ai sensi del Companies Act del 2006 e, in particolare, per la mancata adozione di politiche e strategie aziendali funzionali al raggiungimento dell’obiettivo della società di diventare una società a zero emissioni entro il 2050. L’Alta Corte ha rigettato l’azione per tre motivi. In primo luogo, il materiale probatorio fornito da ClientEarth risultava prima facie inidoneo. In secondo luogo, tali prove non suffragavano la tesi secondo cui esiste una metodologia universalmente riconosciuta in merito alle strategie con cui una società dovrebbe raggiungere i propri obiettivi di riduzione delle emissioni di anidride carbonica. In sostanza, è molto difficile stabilire se il comportamento tenuto dagli amministratori di Shell fosse o meno corretto rispetto agli obiettivi prestabiliti dalla società. In terzo luogo, ClientEarth ha ammesso che gli amministratori avessero effettivamente adottato politiche coerenti con l’obiettivo del raggiungimento delle emissioni zero. ClientEarth ha tuttavia trascurato che la gestione di una società complessa come Shell richiede agli amministratori di prendere in considerazione una serie di circostanze contrastanti, il cui corretto bilanciamento è una tipica decisione gestionale – e come tale di carattere discrezionale – in cui l’Alta Corte non può interferire.

ABSTRACT: In 2023, the environmental organization ClientEarth initiated a derivative action against Shell’s directors for allegedly failing to fulfill their duties under the 2006 Companies Act and, in particular, for the failure to adopt company policies and strategies aimed at achieving the goal of becoming a zero-emissions company by 2050. The High Court dismissed the action on three grounds. Firstly, the evidence provided by ClientEarth was found to be unsuitable. Secondly, the evidence did not support the argument that there is a universally recognized methodology regarding the strategies a company should use to achieve its carbon reduction targets. In essence, it is very difficult to determine whether or not the behavior of Shell’s directors was compliant with the company’s objectives. Thirdly, ClientEarth accepted that the directors had indeed adopted policies consistent with the goal of achieving zero emissions. However, ClientEarth overlooked the fact that the management of a complex company such as Shell requires directors to take into consideration a series of conflicting circumstances, the correct balancing of which is a typical management decision – and as such a discretionary one – in which the High Court cannot interfere.


1. Premessa

La sentenza dell’Alta Corte di Giustizia di Londra ClientEarth v Shell Plc and others [2023] EWHC 1137 (Ch), pur nel contesto normativo d’oltremanica, offre interessanti spunti di riflessione sul tema della responsabilità degli amministratori per la gestione dei rischi climatici. In particolare, l’Alta Corte di Giustizia si pronuncia per la prima volta sulla esperibilità di un’azione – promossa da un’organizzazione senza scopo di lucro, nei confronti degli amministratori di una società emittente, attiva nel mercato petrolifero – avente ad oggetto la declaratoria di responsabilità personale degli amministratori per la violazione dei doveri di gestione dei rischi derivanti dal cambiamento climatico[2].

Invero, nonostante il rigetto dell’azione, la vicenda appare meritevole di considerazione in quanto porta all’attenzione dell’Alta Corte un’ipotesi ricostruttiva che – qualora fosse stata accolta – avrebbe potuto incidere sugli equilibri di mercato per effetto di doveri ambientali gravanti direttamente sulla responsabilità personale degli amministratori stessi.

Sicché, la pronuncia in commento rappresenta un punto di riferimento anche per il regolatore eurounitario, anticipando il dibattito sulle possibili sfide e tensioni che potranno sorgere a seguito dell’entrata in vigore degli obblighi di trasparenza e rendicontazione imposti dalla Corporate Sustainability Reporting Directive (ossia la direttiva 2022/2464, c.d. “CSRD”); ciò, soprattutto in considerazione dei livelli di discrezionalità che qualificano l’attività degli amministratori nel corso della gestione.

In particolare, appare possibile coniugare il ragionamento dell’Alta Corte con i più recenti modelli organizzativi sviluppati dalle scienze aziendali, i quali – per quanto rispondenti ad una combinazione di best practices e orientamenti giurisprudenziali[3] – allontanano, nel tempo e nelle competenze, le politiche assumibili dagli organi di vertice rispetto alle singole scelte gestorie atte a dare una connotazione sostenibile all’attività di impresa.

2. La vicenda

La Corte inglese ha rigettato l’azione (i.e. derivative action, promossa ai sensi della sez. 260(1) del Companies Act del 2006), negando che, nella vicenda, vi fosse una responsabilità degli amministratori per la gestione dei rischi derivanti dal cambiamento climatico.

Al riguardo, appare utile soffermarsi in primo luogo sulle richieste formulate dall’attore, il quale ha richiesto di accertare la responsabilità degli amministratori per violazione dei loro doveri e, conseguentemente, di ingiungere agli stessi di adottare una strategia di gestione del rischio conforme ai loro obblighi di legge, nonché di ottemperare alle prescrizioni contenute nel previo ordine del Tribunale dell’Aia (Milieudefensie et Al. vs. Shell). Trattasi, infatti, di richieste che assumevano l’esistenza di doveri degli amministratori riferibili, per un verso, all’adozione di una strategia ambientale e, per altro, all’esecuzione di un ordine giudiziario.

Non vi è dubbio sulla condivisibilità di tali assunzioni. Infatti, gli amministratori non operano nel mero ossequio alla propria coscienza, ma anche in base alle risultanze della propria professionalità e ad indicazioni fornite dalle regole previste dal quadro normativo o dallo statuto sociale di riferimento, nonché dalle decisioni assunte dagli altri organi societari competenti.

Per converso, recherebbe incertezza l’adesione ad un’ipotesi che imporrebbe agli amministratori di conformarsi ai desiderata di soggetti esterni all’organizzazione aziendale e all’ordinamento ad essi applicabile, quali le Non Governmental Organization che perseguono fini ambientali. Queste ultime, infatti, appaiono titolari di poteri di intervento che, per quanto meritori, appaiono destinati ad esaurirsi nel contesto della soft law.

Di tale avviso, del resto, appare l’Alta Corte che non pone in termini nuovi le questioni da tempo all’attenzione dei giuristi sui rapporti tra proprietà e controllo negli emittenti, anche se considera la circostanza che l’orizzonte delle relative relazioni travalica l’ambito bilaterale (dei rapporti tra azionisti e amministratori) per estendersi sino a considerare l’ambiente multilaterale di mercato in cui trovano esecuzione gli scambi che producono effetti inquinanti[4].

Alla luce di quanto precede si comprendono le ragioni che hanno indotto l’Alta Corte a circoscrivere la portata dell’ipotesi ricostruttiva secondo cui gli amministratori sarebbero incorsi nella violazione dei doveri loro imposti dalle sez. 172 e 174 del Companies Act, ossia, rispettivamente, il dovere di promuovere il successo della società tenendo in considerazione, inter alia, l’impatto delle attività della società su comunità e ambiente e il dovere di agire con ragionevole cura, competenza e diligenza.

Ad avviso dell’attore, dunque, gli amministratori della società convenuta avrebbero dovuto declinare i predetti doveri nel contesto di una società petrolifera e, per l’effetto, procedere all’adempimento di una serie di compiti che si compendierebbero nella formulazione di giudizi, strategie e misure. Non vi è traccia, tuttavia, nelle accuse formulate dall’attore della circostanza che le delibere assunte dagli organi di vertice della società dovessero trovare esecuzione in un contesto organizzativo in cui i processi operativi sono frammentati in varie fasi attribuite alla competenza di una pluralità di uffici, impegnati in una sequela di valutazioni (che spaziano dall’acquisizione di informazioni, al monitoraggio delle cognizioni scientifiche, all’analisi ambientale, etc.).

Peraltro, con riferimento al dovere di formulare giudizi, l’attore ipotizza che gli amministratori debbano basarsi su un ragionevole consenso dell’opinione scientifica, attribuendo un peso adeguato al rischio climatico. Oltre alle considerazioni che precedono, occorre interrogarsi su quali uffici possano esser preposti, in termini di capacità e competenza, a soddisfare le esigenze di raccogliere il predetto “ragionevole consenso”, stante l’elevato contenuto tecnico dell’attività in parola; ciò, nell’assunto che gli amministratori possano poi acquisire una piena consapevolezza di tale consenso nell’esercizio dell’attività gestoria.

A valle di giudizi siffatti, i compiti degli amministratori si dovrebbero estendere sino all’adozione di strategie che abbiano una ragionevole probabilità di raggiungere gli obiettivi della società stessa per mitigare il rischio climatico, dovendone garantire una ragionevole sottoposizione al controllo degli amministratori attuali e di quelli futuri. Appare, ad ogni modo, necessario evidenziare che le regole poste a presidio della corporate governance sembrano confliggere con l’attribuzione in capo agli amministratori della responsabilità per la rispondenza delle strategie ambientali agli obiettivi di sostenibilità in termini più gravosi di quelli generalmente previsti per le società lucrative con riferimento ai risultati economici di esercizio.

Ed ancora, va considerato che l’attore richiama anche il dovere di attuare misure ragionevoli per conformarsi agli obblighi legali applicabili alla società, per mitigare i rischi per la redditività finanziaria a lungo termine e la resilienza della società stessa nella transizione verso un sistema energetico globale e un’economia allineati all’obiettivo di temperatura globale di 1,5°C, come previsto dall’Accordo di Parigi del 2015 sul cambiamento climatico.

In sintesi, si versa in presenza di una pretesa che impone agli amministratori di affrontare problematiche contingenti e variegate per dar corso alla prioritaria ricerca di un equilibrio che assicuri la salvaguardia dell’ambiente, dovendo quindi orientare i comportamenti aziendali verso la salvaguardia del patrimonio ambientale o, con migliori ambizioni, verso il conseguimento di condizioni ambientali ottimali in grado di incrementare la qualità della biosfera.

L’Alta Corte di Londra, tuttavia, non ha ritenuto sussistenti i fondamenti di tale pretesa.

Per quanto le prove allegate fossero di carattere testimoniale (e, quindi, non consentissero alla Corte di farvi affidamento) e non dimostrassero l’esistenza di una metodologia universalmente riconosciuta tramite la quale la società avrebbe potuto adottare un piano per raggiungere l’obiettivo zero emissioni, la critica più severa si compendiava nella complessità dell’azione gestoria, in quanto gli amministratori sono tenuti a bilanciare una serie di circostanze concorrenti. Va da sé che un riferimento siffatto possa esser prima facie riferibile alla business judgement rule”:[5] tuttavia è assente nel provvedimento un’espressa menzione che sedi ogni perplessità in ordine al rischio che possa esser imputato, all’amministratore di una società, a titolo di responsabilità, il mancato esperimento di iniziative ambientali esplicitamente contemplate dal quadro normativo di riferimento oppure da delibere societarie.

3. Doveri degli amministratori tra shareholderism e stakeholderism

Nonostante l’Alta corte abbia ritenuto che la domanda attorea e le prove addotte a sostegno della stessa non evidenziassero prima facie i presupposti per concedere l’autorizzazione a proseguire nell’azione, la pronuncia in esame induce a riflettere sulla riconducibilità del compito di conseguire specifici obiettivi di sostenibilità ambientale e sociale ai doveri degli amministratori di una società emittente[6].

A ben considerare, le argomentazioni addotte della corte non appaiono riconducibili tout court né alla tesi secondo cui gli amministratori – in linea con la teoria istituzionalistica – dovrebbero perseguire esclusivamente l’interesse autonomo della loro società (distinto rispetto a quello dei soci), [7] né ad un’altra tesi secondo cui essi dovrebbero restare ancorati alla promozione del successo della società a beneficio dei soci stessi (concetto noto come shareholderism).[8] Non appare configurabile neanche una mera adesione alla tesi secondo cui lo scopo sociale primario dell’impresa andrebbe identificato con la realizzazione del profitto[9] (accogliendo, quindi, le argomentazioni relative alla natura “proprietaria” dei diritti dei soci, in quanto questi ultimi sarebbero i soggetti che sopportano il rischio di impresa)[10].

Per vero, anche l’adesione a tali tesi avrebbe fatto salva la posizione degli amministratori, in quanto la riferibilità alle tesi dianzi indicate avrebbe potuto giustificare la condotta dei medesimi avendo riguardo a strategie imprenditoriali e di investimento che erano perlopiù orientate a obiettivi di breve termine e giustificate da un generalizzato senso di incertezza verso il futuro (secondo una tendenza interpretativa riferibile allo short-termism)[11].

È evidente, infatti, che l’Alta Corte abbia assunto a fondamento del proprio giudizio la consapevolezza che l’impresa debba farsi carico dei rischi ambientali e sociali in cui può incorrere e che può contribuire a determinare. Non a caso, è ormai di comune accettazione l’orientamento verso una valutazione degli interessi che, per un verso, sono attivati dall’attività imprenditoriale e, per altro, convergono verso l’organizzazione aziendale. Del resto, l’ordinamento del mercato ormai si caratterizza per un’impostazione atta a soddisfare la necessità di considerare le istanze di altri portatori di interesse, quali dipendenti, clienti, fornitori, comunità locali e, soprattutto, l’ambiente (cd. stakeholderism).[12]

Pertanto, può dirsi che il diniego formulato dall’Alta Corte non appare atto a comprimere gli interessi di soggetti estranei alla compagine sociale, quali portavoce di istanze diffuse della comunità civile. Tuttavia, non può dirsi che trovi affermazione la tesi secondo cui l’identificazione dello scopo sociale con lo scopo prettamente lucrativo è oggigiorno mitigato, anche se appare che la decisione segni un passo in avanti nella direzione dell’enlightened shareholder value, in quanto essa non nega che la responsabilità degli amministratori possa esser attivata in funzione del perseguimento di obiettivi di lungo periodo. Sicché, in questo paradigma logico argomentativo, la sostenibilità potrebbe assurgere a canone di condotta per orientare l’attività e l’organizzazione dell’impresa.

Come si è accennato, il giudizio ha riguardo alla sezione 172 del Companies Act; compendio normativo che può costituire un esempio di legislazione che evolve verso un’estensione dei compiti ascrivibili agli organi di governo societario, in quanto impone agli amministratori il dovere di promuovere il successo della società considerando una serie di fattori, tra cui le conseguenze a lungo termine delle loro decisioni, gli interessi dei dipendenti di società, la necessità di mantenere rapporti commerciali favorevoli e l’impatto delle attività aziendali sulla comunità e, soprattutto, sull’ambiente. Ed invero, si versa in presenza di un approccio disciplinare che, nel dar corso ai principi dell’enlightened shareholder value,[13] rappresenta un tentativo di bilanciare gli interessi, potenzialmente confliggenti, di shareholder e stakeholder. Tuttavia, tale tentativo non consegue gli effetti di una piena apertura, in quanto mantiene ancora il riferimento al beneficio dei soci (i “members”) e non arriva a prescrivere il dovere degli amministratori di adottare decisioni con una visione orientata al lungo periodo[14].

Sotto altro profilo, la vicenda posta all’attenzione dell’Alta Corte induce a riflettere anche sull’assetto normativo che, nel nostro Paese, dovrebbe presidiare il dovere degli amministratori di adottare una politica di gestione societaria improntata alla sostenibilità dell’impresa. Va da sé che a monte di una siffatta indagine occorrerebbe riflettere anche sulla legittimazione attiva e sull’interesse a proporre l’azione. Tuttavia, appare utile soffermarsi sul rilievo giuridico dell’intenzione di taluni operatori economici di avviare una politica ambientale e, quindi, sul potere dispositivo che essa avrebbe sui vincoli giuridici posti in capo agli amministratori stessi.

Non vi è dubbio che, in Italia, il Codice di Corporate Governance delle società quotate[15] tenda verso una gestione sostenibile dell’impresa, stante l’introduzione dell’obiettivo di “successo sostenibile” che “guida l’azione dell’organo di amministrazione e che si sostanzia nella creazione di valore nel lungo termine a beneficio degli azionisti tenendo conto degli interessi degli altri stakeholder rilevanti per la società”.[16] Peraltro, viene in considerazione anche l’obiettivo di una gestione orientata al lungo periodo e che ostacoli comportamenti inefficienti che mirano unicamente all’ottenimento di un guadagno immediato, con potenziali perdite nel lungo periodo; [17] obiettivo che il Codice di Corporate Governance persegue mediante la disciplina della politica di remunerazione e la configurazione di un sistema di controllo interno e di gestione dei rischi funzionale al perseguimento del successo sostenibile della società.[18]

Non esiste, tuttavia, un vincolo giuridico per gli amministratori rispetto al compito di adottare una politica di gestione improntata alla sostenibilità dell’impresa; pertanto, ad oggi l’intento degli amministratori ad improntare la propria azione ad una cultura sempre più attenta alle esigenze del pianeta risponde all’esigenza di evitare un anacronistico disinteresse rispetto all’impatto delle scelte gestionali sui profili ambientali. A ben considerare, questo intento, che è positivo per un lato, perché proiettato nel futuro e diretto a scandagliare opportunità di miglioramento della sostenibilità, per altro è negativo, perché implica la privazione di opportunità commerciali che l’impresa potrebbe cogliere (in quanto non v’è sottoposizione della medesima a poteri dispositivi che ne dovrebbero contenere l’azione).

Ciò posto, appare possibile ritenere che l’idea di longtermism non possa trovare affermazione in sede consigliare, in quanto gli amministratori sono tenuti a rispondere alle indicazioni formulate dai soci e, quindi, la discrezionalità degli amministratori è infatti limitata dai soci stessi (i quali nominano gli amministratori, ne determinano il compenso ed eventualmente esercitano l’azione di responsabilità nei loro confronti). Pertanto, è in sede assembleare che si dovrebbe assumere una prospettiva imprenditoriale di lungo termine, in linea con la stessa configurazione della struttura societaria e, quindi, con lo scopo sociale auspicato dai soci medesimi.

4. Tipicità dei doveri degli amministratori nelle direttive CSRD e CDSDD

Alla luce di quanto precede appare chiaro che l’ipotesi dell’attore poneva in capo agli amministratori un dovere di tipo nuovo, seguendo un approccio metodologico diretto ad acclarare i comportamenti degli amministratori stessi. Non si rinviene, invece, un altro approccio, concepito in una prospettiva regolamentare, che ridisegnerebbe i compiti degli amministratori ponendo in correlazione la sfera del giuridico e quella del sociale. Ed invero, l’attore avrebbe potuto considerare che le politiche disciplinari dei principali paesi industrializzati perseguono l’obiettivo della sostenibilità attraverso una via finanziaria, fatta di informativa, controlli e disincentivi alle diseconomie ambientali.

Pare utile, al riguardo, porre l’attenzione sull’impostazione dello European Green Deal e, più in generale, alle proposte destinate a realizzare una transizione verso una società biocompatibile. Con particolare riferimento al tema che ci occupa (e, quindi, al ruolo e ai doveri degli amministratori), appare utile prendere in considerazione la CSRD e la Corporate Sustainability Due Diligence Directive (ossia la direttiva 2024/1760, c.d. “CS3D”), quali importanti interventi normativi volti a imporre obblighi sostanziali vuoi per rendere cogente una condotta imprenditoriale sostenibile, vuoi per rafforzare la trasparenza e la responsabilità delle società in materia di sostenibilità ambientale e sociale.

Le direttive dianzi indicate sono il risultato di un percorso cominciato nel 2018 con l’Action Plan for Financing Sustainable Growth nel 2018[19] che aveva manifestato l’esigenza di sviluppare all’interno delle società un’adeguata strategia di sostenibilità, di precisare le regole in forza delle quali gli amministratori devono agire in una prospettiva di lungo termine e infine di permettere agli investitori di accedere a un’informativa sulla sostenibilità più chiara ed esaustiva.[20]

Significativa, in tale contesto, è la circostanza che la CSRD imponga alle grandi imprese e alle società quotate di includere nella loro relazione sulla gestione la rendicontazione di sostenibilità (ossia informazioni dettagliate circa i piani e le strategie di sostenibilità, inclusi gli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra e i progressi realizzati). In sostanza, la direttiva in esame mira a garantire che il mercato sia in condizione di conoscere le strategie aziendali e di valutare se le medesime siano in linea con gli obiettivi dell’accordo di Parigi e, quindi, con la transizione verso un’economia sostenibile. È evidente, peraltro, che il regolatore europeo non arriva a declinare tale opzione alla stregua di un dovere degli amministratori, in quanto gli articoli 19-bis e 29-bis, paragrafo 2, lettera f, della direttiva CSRD specificano che le imprese sono tenute a rendere conto dei “principali impatti negativi, effettivi e potenziali, legati alle attività delle imprese e della relative catena di fornitura”, richiedendo inoltre una raffigurazione delle “azioni intraprese dall’impresa per prevenire o attenuare impatti negativi, effettivi o potenziali, o per porvi rimedio o fine, e dei risultati di tali azioni” sui diritti umani e sull’ambiente. Pertanto, per quanto appaia chiara la declinazione di una specifica rendicontazione di sostenibilità, non può dirsi che la medesima possa prevedere un esplicito e diretto obbligo degli amministratori di affrontare direttamente le questioni poste dall’impatto dell’attività della loro impresa sulla sostenibilità ambientale.

Con riferimento alla CS3D, invece, appare utile prendere in considerazione gli obblighi di due diligence in materia di sostenibilità che, in tale contesto, richiedono alle imprese di identificare, prevenire, mitigare e rendicontare gli impatti negativi delle loro attività sui diritti umani e sull’ambiente, lungo l’intera catena del valore. Ancora una volta si versa in presenza di obblighi destinati alle società, riferibili al rispetto di un dovere di diligenza.[21] Ciò in quanto la violazione del citato dovere di diligenza attiva una procedura di risarcimento dei danni riferibile sia alle operazioni proprie dell’impresa, sia a quelle dei relativi partner commerciali e fornitori.

Entrambe le direttive evidenziano un approccio rigoroso verso la sostenibilità, anche se – di fatto – impongono requisiti specifici di trasparenza e rendicontazione. Tuttavia, esse non prevedono altre forme di tutela degli stakeholder, nonostante sia previsto un processo di negoziazione fra questi ultimi e le società.[22]

Concludendo, sul punto può dirsi che l’ordinamento europeo non offre spunti atti a suffragare le conclusioni dell’Alta Corte, anche se esso reca misure volte ad orientare i flussi di capitali verso investimenti sostenibili (al fine di realizzare una crescita sostenibile e inclusiva). Di ciò dovranno essere consapevoli gli amministratori, in quanto appare oramai ineludibile la conformità alle menzionate direttive e, più in generale, agli obblighi che proiettano le imprese verso condizioni di sostenibilità.

5. L’assenza di certificazioni di sostenibilità come ostacolo alla conformità alla regolamentazione eurounitaria

Convergenti e complementari, le considerazioni della High Court of Justice e gli orientamenti normativi di matrice europea segnano un passaggio importante nella identificazione degli impegni e della responsabilità che gli amministratori assumono insieme alla loro carica. Letta alla luce dei profili evolutivi dianzi indicati, la sentenza riflette il crescente rilievo delle considerazioni ambientali nel contesto della governance societaria e la valenza esterna degli obblighi informativi cui sono tenute le imprese nel contesto di un quadro normativo rigorosamente volto a promuovere la sostenibilità.

Nonostante il rigetto dell’azione di ClientEarth, è chiaro come il rapporto volontà- effetti giuridici non sia il risultato di scelte ideologiche, ma evidenzi sfide di nuovo tipo; sfide che gli amministratori devono affrontare nel bilanciare gli interessi degli azionisti con quelli degli stakeholder, risultando fuorviante l’idea di una contrapposizione netta tra gli uni e gli altri, mentre appare utile ipotizzare il dovere di soddisfare una duplice sfera di bisogni (di azionisti e terzi). Non v’è dubbio che si versi in presenza di condizionamenti molteplici che – in modalità variegate e con gradi di coercività differenti – comprimono gli spazi dell’autonomia privata quale strumento a disposizione degli amministratori per dar corso ai rapporti giuridici della loro impresa, laddove risulta imprescindibile procedere verso una maggiore trasparenza e responsabilità in materia di sostenibilità, con l’effetto di suggerire l’adozione di strategie sempre più sofisticate per gestire i rischi climatici e garantire il rispetto degli obblighi imposti dalla normativa.

Per quanto le tesi dell’attore possano apparire ridimensionate – e talvolta aspramente criticate – dal giudizio dell’Alta Corte, sembra possibile ritenere che il caso rappresenti un significativo precedente che potrebbe influenzare future azioni legali in materia di responsabilità ambientale e indirizzare le società verso pratiche sostenibili, in quanto ai valori dell’amministrazione societaria nell’interesse degli azionisti e all’orientamento aziendalistico delle politiche manageriali si potranno aggiungere valori fondamentali collegati alle persone, al loro benessere e alla sostenibilità dell’ambiente in cui vivono[23].

Pertanto, gli amministratori dovranno essere sempre più attenti e proattivi nel considerare i rischi e le opportunità legati alla sostenibilità, al fine di garantire la sopravvivenza a lungo termine delle loro società. Da qui, una piena condivisione della conclusione della sentenza secondo cui i doveri degli amministratori restano soggetti alla legge applicabile alla società di riferimento e, quindi, l’aspettativa che un impulso verso obiettivi di sostenibilità possa (e debba) essere mosso dalla previsione di doveri specifici in materia ambientale, separati e distinti rispetto ai doveri generalmente previsti dalla normativa comune.

 

[1] Dottoranda di ricerca in Diritto ed Economia della Società Digitale presso l’Università Telematica Internazionale Uninettuno.

[2] WANG, Client Earth v Shell Plc: should climate change directorial duty in the 21st century?, LSE law review blog: https://blog.lselawreview.com/2023/12/31/clientearth-v-shell-plc-should-climate-change-directorial-duty-in-the-21st-century/ e R. Carnwath, ClientEarth v Shell: What future for derivative claims? https://www.lse.ac.uk/granthaminstitute/publication/clientearth-v-shell-what-future-for-derivative-claims/

[3] Cfr. V. LEMMA, Sviluppi della corporate governance bancaria tra innovazione, efficienza e responsabilità, Riv. trim dir. ec., 2023 e F. Capra, U. Mattei, Ecologia del diritto – Scienza, politica, beni comuni, Arezzo, 2017.

[4] Sul punto cfr. S. Bruno, Climate Corporate Governance: Europe vs. USA? ECFR 6/2019, reperibile anche al link: https://finanzasostenibile.it/SRI2020/pdf/univ_calabria.pdf

[5] Sul punto v. S. Bruno e M. Manna, Rischio climatico e responsabilità degli amministratori: il caso ClientEarth vs. Shell, High Court of Justice 12 maggio 2023, in Foro it., 2024, 1, 48.

[6] In argomento si veda F. Capriglione, Responsabilità sociale d’impresa e sviluppo sostenibile, in Riv. trim dir. ec., 2022, 1 ss. e A. Sacco Ginevri, Divagazioni su corporate governance e sostenibilità, ivi, in suppl. n. 3 al n. 1/2022 83 ss. Sul tema della responsabilità degli amministratori nel contesto bancario si veda V. Lemma, Amministratori di banca tra rischio d’impresa e responsabilità individuali, Riv. trim dir. ec., 2023, 65 ss. e con particolare riferimento ai doveri di sostenibilità cfr. R. Lener e P. Lucantoni, Sostenibilità ESG e attività bancaria, Banca, borsa e tit. cred., 2023, 6 ss.

[7] Così U. Tombari, Corporate Purpose e diritto societario: dalla “supremazia degli interessi dei soci alla libertà di scelta dello “scopo sociale”?, Riv. Soc., 2021, 1.

[8] Su tale impostazione dicotomica si collocano i contributi di cui all’opera collettanea Aa. Vv., L’interesse sociale tra valorizzazione del capitale e protezione degli stakeholders. In ricordo di Pier Giusto Jaeger, Milano, 2010.

[9] G. Alpa, Responsabilità degli amministratori di società e principio di “sostenibilità”, in Contr e Impr., 2021, 721.

[10] F. M. Mucciarelli, Interesse sociale e sostenibilità: un falso problema, Atti del XIV Convegno annuale dell’Associazione Italiana dei Professori Universitari di diritto commerciale “Orizzonti del Diritto Commerciale” “Imprese, mercati e sostenibilità: nuove sfide per il diritto commerciale”.

[11] Per ulteriori approfondimenti in merito si veda M. Maugeri, Note in tema di doveri degli amministratori nel governo del rischio di impresa (non bancaria), Orizzonti del diritto commerciale, 25 giugno 2014.

[12]A fronte di elevati livelli di insicurezza e povertà, della lotta alla globalizzazione e della sfiducia nella grande impresa, vi è una pressione crescente sui dirigenti e sulle loro imprese perché producano un maggiore valore sociale. Questo richiede una gestione efficace degli impatti più ampi delle imprese sulla società e dei loro contributi alla stessa con un uso appropriato dell’impegno verso gli stakeholder”; cfr. WEF-World Economic Forum (2003), Responding to the Challenge: Findings of a CEO Survey on Global Corporate Citizenship, disponibile sul sito: https://search.issuelab.org/resource/responding-to-the-leadership-challenge-findings-of-a-ceo-survey-on-global-corporate-citizenship.html, citato da G. FERRARINI, Lo scopo delle società tra valore dell’impresa e valore sociale, in Riv. soc., I, 2023, 317 ss.

[13] Così F. Capriglione, Clima energia e finanza – Una difficile, Milano, 2023.

[14] L’art. 172 CA stabilisce infatti che: “A director of a company must act in the way he considers, in good faith, would be most likely to promote the success of the company for the benefit of its members as a whole […]”.

[15] Il Codice di Corporate Governance di Borsa Italiana è consultabile al sito https://www.borsaitaliana.it/comitato-corporate-governance/codice/codice.htm

[16] Comitato Corporate Governance, Codice di corporate governance, 2020, 8.

[17] Sotto questo profilo, il nostro codice è particolarmente all’avanguardia: rientra infatti tra i quindici codici di corporate governance degli Stati membri dell’Unione Europea che valorizzano i profili di corporate social responsibility, promuovendo principi di sostenibilità e tutelando gli stakeholder tramite l’imposizione di specifici doveri della società nei loro confronti; cfr. G. Ferrarini, op. cit.

[18] In particolare, le componenti variabili sono legate al raggiungimento di obiettivi di performance predeterminati, misurabili e legati in modo significativo ad orizzonti di lungo periodo.

[19] L’Action Plan for Financing Sustainable Growth è consultabile al sito: https://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/?uri=CELEX:52018DC0097 .

[20] Successivamente nel 2021, l’Unione Europea ha commissionato uno studio alla società di revisione Ernest & Young – lo Study on directors’ duties and sustainable corporate governance – al fine di indagare le ragioni sottese allo short-termism che affligge la corporate governance delle società europee e quindi di valutare le proposte normative in materia di doveri degli amministratori. Sulla base di tale studio, il Parlamento UE ha sottolineato l’importanza di chiarire che i doveri degli amministratori non devono essere volti esclusivamente alla massimizzazione del profitto nel breve termine ma anche incorporare gli interessi degli stakeholder e, pertanto, un’adeguata strategia di sostenibilità.

[21] Tale dovere è declinato tramite un processo articolato in sei fasi: integrazione della due diligence nelle politiche e nei sistemi di gestione, individuazione e valutazione degli impatti negativi sui diritti umani e sull’ambiente, prevenzione, interruzione o minimizzazione degli impatti negativi effettivi o potenziali, monitoraggio e valutazione delle misure, comunicazione e riparazione

[22] Sicché, appare possibile ritenere che gli stakeholder abbiano solo un diritto di parola e l’unica reale sanzione connessa al mancato rispetto delle loro istanze sia di tipo reputazionale; cfr. sul tema E. Barcellona, La sustainable corporate governance nelle proposte di riforma del diritto europeo: a proposito dei limiti strutturali del c.d. stakeholderism, in Riv. soc., I, 2022, 1 ss.

[23] In particolare, in Europa, dove la regolamentazione ESG è sempre più stringente e la relativa sensibilità più spiccata, lo scenario è radicalmente differente rispetto agli Stati Uniti, dove la speculazione politica sta creando pressioni in senso opposto. Sul punto si veda V. D’Angerio, Gelata sui fondi Esg in tre anni la raccolta trimestrale crolla da 160 a 10 miliardi, Sole24Ore, 8 dicembre 2024.

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