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La Direttiva UE 1673/2018 sulla lotta al riciclaggio mediante il diritto penale. Criticità per il settore bancario.

20 Maggio 2021

Ermanno Cappa, Partner fondatore, Luca D’Auria, Of Counsel, Studio Legale Cappa & Partners

Di cosa si parla in questo articolo
AML

1. Premessa

L’emanazione della Direttiva UE 1673/2018 sulla lotta al riciclaggio mediante il diritto penale (e la necessità di non indugiare oltre a recepirla in Italia[1]) può costituire l’occasione per esprimere una manciata di considerazioni su un tema abbastanza delicato e, a ben vedere, un po’ negletto in dottrina; vale a dire, per interrogarsi sulla configurabilità di una ricaduta penalistica, per così dire “automatica”, nelle ipotesi di violazione delle norme antiriciclaggio[2].

Il tema, avvolto forse da una sorta di pudore in dottrina[3], dirompe in tutta la sua tangibilità (e drammaticità, in molti casi) nelle aule di giustizia, dove sempre più frequentemente si assiste alla pronuncia di condanne per riciclaggio a carico di operatori, prevalentemente bancari, accusati di avere violato norme antiriciclaggio, e segnatamente l’obbligo di segnalazione delle operazioni “sospette”, per ciò stesso ritenuti colpevoli di riciclaggio ex art. 648-bis c.p.[4]

La tendenza all’equazione [violazione di norme antiriciclaggio = delitto di riciclaggio] che sta alla base di tali condanne (ovvero, più frequentemente, di vari capi d’imputazione che non sempre danno luogo a condanna[5]), richiederebbe, ad avviso di chi scrive, un severo esame da parte della dottrina penalistica.

Meglio ancora, se la dottrina volesse approfondire la questione della compatibilità dei processi che sembrano muovere esclusivamente da un’accusa di sostanziale omissione di segnalazione di operazioni “sospette”, con il principio di specialità sancito dall’art. 9 della legge sulla depenalizzazione del 1981[6] secondo cui, come noto, “quando uno stesso fatto [omissione di segnalazione, nel caso di specie] è punito da una disposizione penale e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa … si applica la disposizione speciale”.

Ovviamente, una riflessione del tipo prospettato non può prescindere da una breve disamina dei connotati essenziali del delitto di riciclaggio, di cui all’art.648-bis c.p., delitto la cui conformazione viene oggi rimessa in discussione in vista del recepimento in Italia della Direttiva in commento.

2. Il delitto di riciclaggio come “cantiere aperto” nell’ambito dei white collar crimes

Genunzio Bentini[7] non avrebbe mai immaginato che il delitto dei colletti bianchi, secondo la definizione data al crimine economico da Edwin Sutherland[8] avrebbe acquisito una propria dignità autonoma all’interno della sistematica penalistica, così perdendo il ruolo di materia ancillare del diritto civile. Ancor meno avrebbe potuto immaginare che il penale bianco sarebbe divenuto la sponda più avanzata della legislazione in materia di crime control[9]ed il vero termometro per comprendere le nuove frontiere del penalmente rilevante. Il giurista forlivese, negli anni Trenta del Novecento, aveva sostenuto che: “[il delitto economico, ndr.] è un delitto che parla al cervello e non al sentimento; è l’illecito civile che trabocca nell’illecito penale e così si comprende come l’accusa e la difesa debbono scontrarsi in un campo che sta tra il civilismo e il penalismo. A Milano la sovrasta la ragioneria; alludo agli avvocati che non parlano, che officiano nel tempio le banche. La bancarotta non consente do di petto!”[10]. L’avvento della globalizzazione, l’Europa unita intorno ad una sola moneta, la trasformazione del mondo in un piccolo pianeta, oltre alla circolazione sempre più vertiginosa di capitali, idee e persone, ha prodotto una realtà in cui l’economia definisce i tratti del fare etico dell’uomo e, di conseguenza, ne stabilisce i limiti d’azione e lo spazio morale (oltre che legale) di riferimento. In Italia, lo spartiacque tra la (superata) realtà giuridica modellata sulle idee “primonovecentesche” di Genunzio Bentini e il (nuovo) paradigma della contemporaneità, contraddistinto dall’esigenza di far prevalere la forma etica di capitalismo (come declinazione giuridico-legislativa del principio di sostenibilità)[11] è segnata dalle inchieste sulla corruzione politica dell’ultima decade del Novecento. A far tempo dalla metà degli anni Novanta, il penalista più esposto, spesso anche mediaticamente, è divenuto il difensore degli imputati dei white collar crimes ed anche la riflessione giuridica e le innovazioni legislative più rilevanti hanno riguardato questo spazio del diritto (sino ad allora, come detto, poco pattugliato o lasciato ad alcuni civilisti che, saltuariamente, si avventuravano nelle pieghe del diritto penale). Oggi dunque, per comprendere la direzione verso cui si sta dirigendo la sistematica repressiva penalistica, è necessario guardare alla legislazione in materia di delitti dei colletti bianchi e comprenderne le più profonde trasformazioni: è possibile affermare che sia in corso una radicale modificazione della struttura della norma penale in relazione alle nuove forme di politica repressiva che tendono ad anticiparne l’operatività e, di conseguenza, la punibilità. La fattispecie di riciclaggio, preveduta dal nostro ordinamento all’art. 648-bis c.p., è divenuta un vero e proprio oggetto di laboratorio attraverso cui sperimentare le nuove esigenze repressive e di crime control del mondo globalizzato[12].

La disciplina penale volta a punire le condotte di riciclaggio è così divenuta un “cantiere aperto” ed una norma onnivora, tesa ad attrarre a sé ogni condotta (penalmente rilevante) di utilizzo del denaro. L’art. 648-bis c.p. svolge il ruolo di faro epistemico ed ermeneutico dell’intero mondo del penale bianco ed è il vero e proprio protagonista della politica repressiva in tema di “economia illecita” (il riciclaggio per via bancaria è, su questo fronte, l’avamposto dell’interpretazione della fattispecie di cui all’art. 648-bis c.p.)[13].

Prima del Duemila il delitto in parola era una fattispecie trascurata e destinata a regolamentare ipotesi ben definite e limitate. Dai primi anni Duemila la centralità di questa fattispecie delittuosa è esplosa e il precetto de quo si è radicalmente modificato, fino a divenire il grimaldello giudiziario per combattere ogni modalità illecita di circolazione del denaro[14].

Risulta del tutto evidente che l’economia globalizzata imponga agli stati membri di adottare una uniformità normativa antiriciclaggio[15], nonché, per quanto qui ci occupa, una uniformità legislativa volta alla repressione penale del riciclaggio, individuando in questo reato il volano economico utilizzato dalla criminalità, anche terroristica, per “mettere al sicuro” i proventi illeciti scaturiti dal delitto.

Questa esigenza di eticità economica rappresenta la lente attraverso cui scrutinare la nuova Direttiva del Consiglio d’Europa per la lotta al riciclaggio mediante il diritto penale[16].

3. La Direttiva UE 1673/2018 e il suo possibile impatto sul sistema penale vigente

Questa Direttiva non è stata ancora recepita dall’ordinamento italiano e ciò, come già ricordato, ha comportato l’apertura di una procedura d’infrazione a carico del Paese.

La Direttiva apre uno squarcio decisivo nell’interpretazione dell’art.648-bis c.p. e, specialmente, nelle prospettive normative (e di capacità repressiva) dell’ipotesi di reato di cui all’art. 648-bis c.p. vigente.

In tema di repressione del riciclaggio ed interpretazione giurisprudenziale dei confini della fattispecie della norma positiva deve essere segnalata una legislazione della prassi che rappresenta un unicum nell’ordinamento italiano. Essa infatti ha inciso così profondamente sulla natura del precetto da avvicinare il nostro ordinamento (quanto meno in tema di riciclaggio penale) a quello dei paesi di common law in cui la fattispecie è delineata dalla dottrina del precedente.

Le considerazioni contenute nel programma legislativo indicato dal Consiglio e dalla Commissione europea con la Direttiva 1673/18 pongono l’ordinamento italiano dinnanzi ad una scelta decisiva, proprio considerando che la fattispecie di diritto positivo (l’art. 648-bis c.p.) è stata radicalmente reinterpretata nel corso dell’ultimo decennio da parte della giurisprudenza.

Oggi il precetto dell’art. 648-bis c.p. non può dunque essere compreso senza essere completato dai precedenti giurisprudenziali. Il 648-bis c.p. prevede una parte positiva ed una, altrettanto decisiva (se non addirittura maggiormente capace di tracciare i confini del delitto) che risiede nella prassi applicativa; ciò non pare essere stato tenuto nella dovuta considerazione da parte dell’Autorità che ha assunto l’iniziativa di aprire una procedura d’infrazione[17] nei confronti dell’Italia per mancata adozione di una nuova legislazione conforme ai considerando della Direttiva.

Volendo comprendere il possibile impatto sul sistema penale vigente di un novellato art. 648-bis c.p. alla luce delle indicazioni europee, possono individuarsi una serie di questioni utili per definire le possibili relazioni ed anche gli eventuali conflitti tra i considerando della Direttiva, la norma positiva vigente, la sua interpretazione giurisprudenziale, lo standard repressivo del riciclaggio e le ipotesi di riscrittura dell’articolo 648-bis c.p. attualmente in vigore.

È dunque necessario trattare, anche per sommi capi, le seguenti tematiche: [i] la punibilità del delitto di cui all’art. 648-bis c.p. nella situazione attuale; [ii] la possibile ridefinizione dello spazio punitivo a seguito del recepimento della Direttiva; [iii] la compatibilità delle novità legislative con la sistematica dell’ordinamento penale nel suo complesso; [iv] l’individuazione della direzione verso la quale si sta muovendo il diritto penale contemporaneo.

3.1. La punibilità del delitto di cui all’art. 648-bis c.p. nella situazione attuale

La giurisprudenza ha, nel corso degli anni, interpretato in modo estremamente estensivo il concetto giuridico di riciclaggio, travalicando i confini classici del delitto di cui all’art. 648-bis c.p.

In specie: il riciclaggio bancario è divenuto il modello più avanzato nel contrasto all’utilizzo illecito del denaro. Questo è stato possibile individuando la possibilità di incorrere nella fattispecie penalistica non solamente a seguito di operazioni di deposito di contante presso un istituto di credito, ma anche a seguito di una serie di condotte diverse che non paiono essere immediatamente riferibili al dettato della norma. Questa scelta della giurisprudenza, di estendere la punibilità del riciclaggio al di fuori dei suoi confini più tradizionali, ha posto l’ordinamento italiano nella condizione di essere unavamposto nella repressione del riciclaggio[18].

Anche la prima legge antiriciclaggio nazionale, risalendo al mese di luglio del 1991 ed essendo legge di conversione di un decreto-legge emanato nel mese di maggio del 1991[19], si pose come assoluto avamposto, in Europa, nella prevenzione del riciclaggio, posto che la prima direttiva comunitaria in materia fu emanata nel mese di giugno dello stesso anno 1991[20].

Tornando al delitto di riciclaggio, la giurisprudenza, come già sottolineato, si è fatta carico di integrare il precetto normativo introducendo ulteriori criteri per individuare e punire il riciclatore (in specie quello di banca): il riferimento è al “patto” intercorso tra le disposizioni amministrative antiriciclaggio e la fattispecie di cui all’art. 648-bis c.p. vigente; tale patto consente oggi di rendere punibili comportamenti “di sospetto” all’apparenza estranei al penalmente rilevante. Questa alleanza tra precetto penale e disposizione amministrativa (che coinvolge gli operatori di banca e i professionisti che si trovano nella condizione di mediare transazioni economiche sospette) ha permesso di estendere quasi all’infinito la punibilità per riciclaggio, anche torcendo il corretto rapporto tra dolo penale e colpa amministrativa e sfruttando la figura ambigua del dolo eventuale per attribuire ai facere rilevanti in campo amministrativo il ruolo decisivo di “fatti noti” finalizzati alla costruzione del sillogismo repressivo penalistico[21].

Proprio a questo proposito entra fortemente in gioco la giurisprudenza che individua, nella mancata segnalazione di operazioni sospette (in conformità alle disposizioni bancarie e professionali antiriciclaggio), un veicolo ermeneutico mediante il quale asserire l’esistenza del dolo eventuale del reato di riciclaggio (in una sorta di sua declinazione sul modello del “favoreggiamento” o della “facilitazione” nell’operazione di “ripulitura” del denaro sporco).

Non vi è dubbio che tale soglia di attribuzione della responsabilità per riciclaggio (nello specifico il riferimento è all’elemento soggettivo dell’ipotesi delittuosa) rappresenti una estensione che sfida il principio di legalità sostanziale del precetto normativo vigente[22]. Il delitto di riciclaggio “rivestito” dalla giurisprudenza con l’abito della normativa antiriciclaggio incarna una forma del tutto nuova di punibilità del delitto di riciclaggio che può essere definita “a forma mista” e cioè caratterizzata da un elemento soggettivo in parte doloso e in parte “quasi colposo”.

Certamente, l’esigenza di reprimere il diffondersi degli interessi economici della criminalità organizzata ha prodotto una reazione della giurisprudenza che ha inteso non lasciare “scoperto” alcun varco attraverso il quale le associazioni criminoso possano “lavare” i loro copiosi proventi illeciti ma ciò non deve lasciare indifferente l’operatore giuridico dinnanzi allo stravolgimento del sistema penale e dei suoi connotati più tipici; lo spirito repressivo e di crime control pare aver legittimato una virata anomala nel campo penalistico e cioè la trasformazione del reato da una fattispecie “di fare” in una disciplina dai tratti più tipici del delitto commissivo mediante omissione (senza, peraltro, la previsione di un vero e proprio evento naturalistico).

3.2. La possibile ridefinizione dello spazio punitivo a seguito del recepimento della Direttiva

In questa nuova dimensione “multiforme” dell’art. 648 bis, così come ridisegnata dalla reciproca collaborazione securitaria tra legislazione amministrativa antiriciclaggio e disciplina positiva penale, si innestano i desiderata del Parlamento e del Consiglio Europeo.

I considerando della Direttiva appaiono, alternativamente, del tutto ultronei ed incapaci di “migliorare” (in senso repressivo) lo status normativo vigente oppure, in via del tutto contraria, risultano addirittura idonei a riportare l’interpretazione giurisprudenziale entro confini più tipici (e garantiti) del diritto penale (così cancellando, in tutto o in parte, l’utilizzo più estremo del connubio tra disciplina penale e normativa amministrativa).

Il considerando decisivo per comprendere il tenore della Direttiva in parola è il n.13 che recita: “la presente direttiva è volta a qualificare come reato il riciclaggio qualora sia commesso intenzionalmente e con la consapevolezza che i beni derivano da un’attività criminosa”.

Al di là di quanto asserito nel considerandon.5, che esige una catalogazione completa e uniforme (tra gli Stati membri) delle ipotesi di reato qualificabili come “fattispecie presupposto” di riciclaggio e del considerando che esclude qualsivoglia pregiudizialità dell’accertamento del delitto presupposto per la punibilità del riciclaggio (condizioni già ampiamente recepite dal nostro ordinamento) ciò che deve essere attentamente analizzato con riferimento al decisivo considerando 13 è l’indicazione di introdurre il concetto di intenzionalità come nuova qualificazione del delitto di riciclaggio.

Qualora l’ordinamento italiano accogliesse la proposta di introdurre una nuova forma di delitto di riciclaggio il cui elemento soggettivo fosse incentrato sul dolo intenzionale verrebbe forgiata una disciplina positiva capace di nullificare gli sforzi giurisprudenziale precedentemente tratteggiati e ciò in quanto l’inserimento del lemma “intenzionalmente” (come elemento soggettivo della fattispecie) impedirebbe definitivamente di reiterare l’interpretazione giurisprudenziale costruita intorno al dolo eventuale come manifestazione fenomenica del connubio e del ponte ermeneutico tra disciplina antiriciclaggio amministrativa e articolo 648-bis c.p.

3.3. La compatibilità delle novità legislative con la sistematica dell’ordinamento penale nel suo complesso

Qualora l’art. 648-bis c.p. venisse dunque riformato in senso “intenzionale” potrebbe crearsi un’analogia con la disciplina di cui all’art. 323 c.p. (il delitto di abuso d’ufficio, anch’esso novellato in senso analogo nel 1997). Quest’ultima norma, il cui dolo è stato modificato da “generico” a “intenzionale”, è stata reinterpretata dalla giurisprudenza nel senso che, a differenza di quanto accadeva anteriormente, “[per l’integrazione della fattispecie, ndr.] non è sufficiente né il dolo eventuale – e cioè l’accettazione del rischio del verificarsi dell’evento – né quello diretto – e cioè la rappresentazione dell’evento come realizzabile con elevato grado di probabilità razionale”[23].

Alla luce del considerando 13 non vi è alcun dubbio ermeneutico: una riforma in chiave “intenzionale” dell’elemento soggettivo del reato di riciclaggio vorrebbe dire modificarne totalmente la prospettiva punitiva, intervenendo alla radice sul sistema di crime control riferibile all’utilizzo del denaro di provenienza delittuosa e ciò toccherebbe principalmente le ipotesi di riciclaggio bancario.

Tuttavia, come è stato osservato[24] il considerando n.13 si presenta di natura bifronte; nella seconda parte introduce infatti delle asserzioni che fanno immaginare presupposti di punibilità del riciclaggio penale non del tutto dissimili da quelli già introdotti dall’interpretazione giurisprudenziale italiana e derivanti dall’interazione tra normativa antiriciclaggio e art. 648-bis c.p. e dunque radicalmente antitetici rispetto a quelli fondati sul dolo intenzionale.

Nel capoverso di chiusura del medesimo considerando, la direttiva sembra suggerire una soluzione a “doppio binario” punitivo, prevedendo che gli Stati membri, accanto all’ipotesi di riciclaggio “intenzionale”, adottino una fattispecie di natura più decisamente colposa (“gli Stati membri dovrebbero poter stabilire, ad esempio, che il riciclaggio commesso per leggerezza o per negligenza grave costituisce reato”).

Qualora dovesse prevalere questa seconda impostazione del considerando 13 (cioè l’apertura anche ad una ipotesi colposa di riciclaggio) sarebbero ipotizzabili una serie di conseguenze di decisiva importanza per il sistema repressivo italiano: [a] una ancora maggiore radicalizzazione della decisività della normativa antiriciclaggio rispetto all’integrazione della norma penalistica dovuta alla trasformazione del delitto di cui all’art. 648-bis c.p. in un’ipotesi “interamente” colposa; [b] una nuova formulazione dell’art. 648-bis c.p. che individui due fattispecie differenti di reato (una, più grave ed intenzionale) e l’altra prettamente colposa (con pene decisamente meno gravi, ancorché rispettose del considerando 14).

4. In particolare: l’elemento psicologico del reato

Non vi è dubbio che, salvo ipotesi di manifesta complicità (più prossimi al concorso nel reato che al riciclaggio “fuori dei casi di concorso”[25]) la casistica dell’art. 648-bis c.p. riferibile alla mancata comunicazione e segnalazione di operazioni sospette (ai sensi della disciplina antiriciclaggio) dovrebbe considerarsi integrata in questa ipotesi di reato più lieve (e colposa).

La scelta del “doppio binario” appare l’unica soluzione che garantisca il rispetto del principio di legalità qualora fosse necessario introdurre un’ipotesi di riciclaggio “per leggerezza”. Diversamente, come accennato, il rischio sarebbe quello di aggravare una tendenza già consolidata nel sistema italiano che rischia di stravolgere le fondamenta del corretto accertamento del delitto in parola.

L’ordinamento italiano, infatti, che, pur prevedendo il dolo generico per la punibilità del riciclaggio, ha ritenuto legittimo utilizzare le condotte omissive tipiche della disciplina antiriciclaggio al fine di integrare il precetto di cui all’art. 648-bis c.p., ha consentito la formulazione illogica (anche se “utile” in chiave meramente repressiva) di sillogismi (pseudo) deduttivi in cui la “premessa maggiore” è integrata dall’inosservanza della normativa antiriciclaggio, la “premessa minore” dal legame tra detta violazione e l’integrazione dell’art. 648-bis c.p. (a cui fa seguito la punibilità per riciclaggio dell’autore della violazione amministrativa[26]).

Questa costruzione intellettuale che calibra il sillogismo in chiave deduttiva, accetta di applicare al processo un sillogismo incompatibile con le scienze storiche (come è il processo) e ciò in quanto pone come dati di verità (la premessa maggiore e la premessa minore) elementi (incerti) che sono oggetto dell’accertamento (integrando il thema probandum) e non possono fungere da dati obiettivi su cui fondare la prova di riciclaggio[27].

Come conferma della torsione logica del ragionamento giudiziario-indiziario costruito intorno alla violazione della disciplina antiriciclaggio utilizzata come massima di esperienza e premessa maggiore del ragionamento deduttivo, vi è, in via analogica, l’interpretazione giurisprudenziale in tema di rapporto tra omissione di soccorso (art. 593 c.p.), reato di fuga (art. 189 comma 6 C.d.s.) e mancata prestazione dell’assistenza in caso di incidente (art. 189 comma 7 C.d.s.).

Con riferimento a queste diverse ipotesi di reato e per contrastare l’idea della possibilità di operare una apodittica conversione delle violazioni del codice della strada nel più grave delitto di omissione di soccorso, la giurisprudenza ha chiarito che l’operatore giudiziario non possa ragionare in chiave di “inverosimiglianza”, così utilizzando questo postulato come “massima di esperienza” capace di bypassare il necessario accertamento di tutti gli elementi di fatto decisivi per accertare la concreta violazione della norma in tutti i suoi elementi costitutivi.

La giurisprudenza ha dunque voluto impedire l’operazione concettuale consistente nell’applicare al fatto noto (l’allontanamento dal luogo dell’incidente) gli elementi tipici dell’omissione di soccorso in virtù di una “massima d’esperienza” fondata sull’inverosimiglianza e così stabilendo (presuntivamente) che il soggetto, dopo l’investimento, se allontanatosi dal luogo del fatto, abbia “inevitabilmente” violato la norma di cui all’art. 593 c.p. (e non una delle disposizioni del codice della strada). Anche in questo caso, come nel rapporto tra riciclaggio penale e disposizioni antiriciclaggio, vi è la concorrenza tra una fattispecie penale disciplinata dal codice di diritto sostanziale e diverse ipotesi legislative che fanno capo ad un differente compendio normativo. In tali ipotesi non è consentito, in assenza di riscontri affidabili “al di là di ogni ragionevole dubbio”, ritenere integrata la norma penale più grave costruendo artatamente sillogismi basati su illazioni “travestite” da fatti certi, inconfutabili o “massime di esperienza” non dimostrate che, sfruttando la violazione della norma “secondaria”, intendono considerare accertata quella “primaria”.

Il ragionamento probatorio rigoroso esige un percorso logico del tutto differente e correttamente argomentato: “in tema di prova gli indizi suscettibili di valutazione ai sensi dell’art. 192 c.p.p. sono elementi di fatto noti dai quali desumere, in via inferenziale, il fatto ignoto da provare sulla base di regole scientifiche ovvero di massime di esperienza; mentre il sospetto si identifica con la congettura, un fenomeno soggettivo di ipotesi con prove da ricercare, tale da assecondare distinte alternative ed anche contrapposte ipotesi nella spiegazione di fatti oggetto di prova”[28].

5. Considerazioni conclusive

Quanto esposto sta a significare che l’esigenza di repressione del riciclaggio non può portare a stravolgimenti così netti da legittimare la punibilità fondata sulla costruzione di sillogismi logicamente inaccettabili in quanto costruiti sull’inversione del rapporto fra fatto noto e fatto ignoto ed utilizzando indifferentemente il thema probandum come elemento certo laddove, invece, dovrebbe essere, esso stesso, uno degli elementi da verificare concretamente.

La questione è particolarmente delicata nei casi – sopra richiamati – dei processi per riciclaggio basati sull’accusa di violazione di norme antiriciclaggio, segnatamente sull’accusa di omissione di segnalazioni di operazioni sospette ex art. 35 del D. Lgs. n. 231/2007 cit.

In tali casi, l’analisi penalistica deve necessariamente fare i conti con le peculiarità, non da poco, del sistema antiriciclaggio, quali – ad esempio – la “fragilità” endemica del concetto di sospetto, che costituisce il fulcro della normativa e rimane, nel contempo, un fatto psicologico interiore e imperscrutabile, tale da segnare il passo del processo penale, esasperandone il carattere indiziario.

Le peculiarità aumentano nel caso delle banche, RECTIUS: degli “intermediari bancari e finanziari” (art. 3, comma 2 del D. Lgs. n. 231/2007)[29], che costituiscono, perlomeno di fatto, i destinatari principali delle norme antiriciclaggio[30]e che si trovano, fra l’altro, al centro dei precedenti giurisprudenziali sopra ricordati[31].

Ovviamente, sebbene gli autentici destinatari degli obblighi siano gli “intermediari bancari e finanziari”, i processi del tipo in questione finiscono per colpire le persone che operano all’interno o comunque per conto degli intermediari stessi, fatta salva l’ipotesi – a quanto risulta rara – di un’estensione del procedimento all’ente, ex D. Lgs. 231/2001, posto che il riciclaggio figura, come noto, fra i reati-presupposto 231[32].

Anche questo profilo meriterebbe la dovuta considerazione, quantomeno per evitare di creare ingiustamente categorie di “capri espiatori” dell’antiriciclaggio che, molto spesso, con il riciclaggio del denaro non hanno nulla a che vedere[33].

Anche la normativa secondaria, sotto questo profilo, andrebbe forse più prudentemente calibrata, se solo si pensa, ad esempio, all’ultimo provvedimento della Banca d’Italia in materia di organizzazione, procedure e controlli, emanato a marzo 2019[34] con cui il Regolatore, forse un po’ inconsapevolmente (absit iniuria verbis!), finisce col mettere sulla graticola il capo e i collaboratori della “funzione antiriciclaggio”, che viene indicata come “…deputata a prevenire e contrastare la realizzazione di operazioni di riciclaggio[35]. Espressione estremamente ampia, atta ad evocare ipotesi accusatorie altrettanto ampie, financo nell’orbita di una ipotetica sebbene infondatissima posizione di garanzia ex art. 40 cpv cp.

Tutto ciò premesso, in attesa delle scelte del legislatore italiano rispetto al recepimento della Direttiva 1673/2018 è possibile rilevare come il trend consolidato che caratterizza tutte le riforme che hanno ad oggetto il diritto penale dei colletti bianchi (quanto meno negli ultimi quindici anni) sia stato comunque quello di arretrare sempre più la soglia di punibilità della condotta integrativa della fattispecie incriminatrice, sino a forgiare una sorta di “diritto penale del rischio” e della “messa in pericolo” del bene giuridico protetto. Certamente la sistematica penalistica conosceva e prevedeva già ipotesi delittuose definite “di pericolo” ma, almeno a far tempo dalla prima riforma del delitto di riciclaggio e poi con l’introduzione della responsabilità penale-amministrativa delle persone giuridiche (D. Lgs. 231/01) non v’è dubbio che la tendenza sia quella di punire l’agente che pone in essere dei facere che facilitino la violazione del precetto normativo mediante condotte anche non direttamente contemplate nella norma penale di riferimento (ma che di essa rappresentano degli epifenomeni).

Questa forma nuova di diritto penale del rischio si sposa perfettamente con l’ampio quadro della disciplina amministrativa volta ad “eticizzare” i comportamenti sociali.

A questo proposito è necessario rilevare come la Direttiva in parola crei un ponte ermeneutico tra ciò che vuole il considerando 13 (in specie il riciclaggio “per leggerezza o negligenza”) e l’articolo 7 (della medesima Direttiva) che chiede di introdurre all’interno delle legislazioni degli Stati membri ipotesi di reato volte a punire la persona giuridica per carenza di sorveglianza e controllo rispetto alle condotte dei vertici dell’ente.

In questo senso, ancora una volta, sono l’ordinamento e la giurisprudenza italiana a dettare lo spazio di crime control più avanzato in tema di delitti di colletti bianchi: non solamente questa ipotesi di reato è parte della disciplina legislativa che prevede la punibilità degli enti (D. Lgs. 231/01) ma, di recente, il Tribunale di Milano ha punito alcuni amministratori di una persona giuridica (banca) utilizzando come indizio una presunta condotta “trascurata” da parte dell’Organismo di Vigilanza dell’ente stesso, così riproducendo quel rapporto di biunivocità tra normativa amministrativa e diritto penale già vista in tema di repressione del delitto di riciclaggio[36].

Non v’è dubbio che questa nuova (e per certi versi rivoluzionaria) interpretazione giurisprudenziale delle condotte riferibili all’organismo di vigilanza aziendale, faccia pensare ad una possibile (e futura) implicazione degli organi stessi nei fatti attribuiti ai soggetti apicali della persona giuridica[37] ma, piuttosto, rafforza l’assunto secondo cui il diritto penale dei colletti bianchi non solamente abbia assunto una sua dignità centrale e autonoma nel sistema giuridico della contemporaneità, ma rappresenti addirittura il segnale per comprendere quale strada stia intraprendendo il penalmente rilevante nel nuovo Millennio. Oggi, il“do di petto” che, negli anni Trenta, Genunzio Bentini non riusciva a ritrovare nel diritto penale dell’economia, costituisce forse il più stupefacente spartito e l’aria centrale di tutta l’opera penalistica della contemporaneità.

 

 


[1] Da notare che il termine di recepimento è scaduto il 3 dicembre 2020 ed è stata avviata una procedura d’infrazione contro l’Italia (n. 2021/0055).

[2] Con “norme antiriciclaggio” ci si riferisce essenzialmente al D. Lgs. 21 novembre 2007, n. 231 “Attuazione della direttiva 2005/60/CE concernente la prevenzione dell’utilizzo del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo nonché della direttiva 2006/70/CE che ne reca misure di esecuzione” come modificato dal D. Lgs. 25 maggio 2017, n. 90 e dal D. Lgs. 4 ottobre 2019, n. 125.

[3] La dottrina sul punto è abbastanza rara. Degno di nota è lo scritto di F. Di Vizio, Il riciclaggio nella prospettiva penale ed in quella amministrativa. Definizioni di riciclaggio. Pubblicato sui “quaderni” della Banca d’Italia, n.8. luglio 2017.

[4] Detto obbligo, che costituisce da sempre il fulcro della normativa antiriciclaggio, è previsto dall’art. 35 del D. Lgs. n. 231/2007 e successive modifiche e integrazioni. Per una panoramica sulla problematica si veda E. Cappa e U. Morera, La segnalazione delle operazioni sospette di riciclaggio, Ed. Il Mulino, 2008.

[5] Sono abbastanza note le sentenze di condanna (fra tutte, Cass. n. 29452/13); meno note, invece, quelle di assoluzione quali Cass. N. 37098/2012; Appello di Firenze n. 2136/2016/ Cass. 23890/2018; Tribunale di Trapani n. 199/2015, Tribunale di Caltanissetta n. 528/2018.

[6] Trattasi ovviamente della Legge 24 novembre 1981, n. 689 “Modifiche al sistema penale”.

[7] G. Bentini, avvocato, giurista e parlamentare per il Partito Socialista italiano è nato a Forlì nel 1874 ed ha espresso le sue tesi sull’avvocatura penale e civile in un saggio del 1937, L’eloquenza al nord e al sud riportato in M. Casalinuovo, L’avvocato penale nel Novecento, Libreria Universitaria, 2000.

[8] E. H. Sutherland, White collars crimes, ed. Ita. La criminalità dei colletti bianchi a cura di A. Ceretti e I. Merzagora, Libreria Universitaria, 1986.

[9] Per crime control, secondo la definizione della politica legislativa nordamericana, deve intendersi il complesso di scelte legislative ed in parte giurisprudenziali volte alla repressione del delitto con l’intento di assicurare alla società maggiore sicurezza in ambiti particolarmente rilevanti del vivere della collettività.

[10] G. Bentini, vedi supra nota 7.

[11] Sul tema cfr. H. Puel, La cruna e il cammello, Torino, 1989.

[12] Per un’analisi sistematica ed una ricostruzione storica basica del delitto di riciclaggio cfr. L. D. Cerqua “Il delitto di riciclaggio dei proventi illeciti (art. 648-bis c.p.” in “Il Riciclaggio del denaro. Il fenomeno, il reato, le norme di contrasto” a cura di E. Cappa e L. D. Cerqua, Giuffré 2012.

[13] Il contrasto al riciclaggio per via bancaria è il tema decisivodi tutto l’impianto normativo volto a contrastare la circolazione dei proventi da reato. La banca è il destinatario principale dalla normativa giuridica in quanto, storicamente, è lo strumento più agevole mediante il quale ripulire il denaro sporco. Per questo è nata la disciplina antiriciclaggio che, attraverso la normativa attuativa delle Autorità di settore, prevede una serie di “indici di sospetto” (RECTIUS. “indici di anomalia”) e segnali di allarme in ragione dei quali l’operatore di banca deve essere indotto a ritenere che una certa operazione economica possa sottendere un riciclaggio. In tale circostanza l’operatore di banca deve segnalare “l’operazione sospetta”. La particolare importanza di questa disciplina (adottata per la prima volta in Italia con la Legge 5 luglio 1991, n. 197) va oltre la mera disciplina comportamentale dell’operatore di banca: risiede, infatti, nella sua trasposizione come elemento indiziario in merito alla violazione della norma penale di riciclaggio preveduta dall’art. 648-bis c.p. (la normativa antiriciclaggio impone la corretta identificazione del cliente, il divieto di transazioni in contanti oltre ad una certa soglia di valore – anche qualora queste operazioni siano parcellizzate in plurime transazioni rispettose del limite previsto, – oltre ad una serie di altri indici). La normativa antiriciclaggio vale anche per altri operatori economici e professionisti che si trovano a contatto, eventualmente quali “mediatori”, di operazioni finanziarie.

[14] Sugli obblighi antiriciclaggio in capo agli operatori bancari si veda E. Cappa, “La collaborazione attiva del sistema bancario” in Il riciclaggio cit.

[15] Si vedano le Direttive 91/308/CEE, 2001/97/CEE, 2005/60/CE, UE/2015/849, UE/2018/843,UE/2017/1371 (Dir. “PIF”) e la n. 2018/822/UE(“DAC 6”).

[16] Direttiva 2018 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 23.10.2018 sulla lotta al riciclaggio mediante il diritto penale.

[17] Cfr. NOTA n. 1.

[18] La giurisprudenza che ha inteso identificare il dolo eventuale di riciclaggio in virtù del mancato rispetto della normativa antiriciclaggio amministrativa si basa sulle motivazioni della decisione nr. 38343 del 24.4.2014 (sentenza Thyssen). La Corte di Cassazione ha stabilito quali sono gli indici sintomatici di tale componente volontaristica: 1. L’anomalia delle operazioni connotate da qualcosa di più del mero sospetto;2. La posizione di direttore ricoperta dall’agente (il presunto riciclatore; 3. Le competenze in materia bancaria e la violazione della normativa diretta ad evitare il riciclaggio di denaro. La giurisprudenza di legittimità ha stabilito (su tutte Corte di Cassazione, Sez. II, 14.1.2016 nr. 9472) “tali circostanze imponevano all’imputato, riconosciute le operazioni come anomale, di astenersi dal compierle sicché, la scelta attiva di autorizzarle, omettendo la segnalazione, ha costituito l’esito di un processo decisionale autonomo con accettazione del rischio che si attuasse il riciclaggio (con riferimento alle diverse modalità di riciclaggio bancario del denaro operato anche in via indiretta, cfr. Cassazione Sez. II 6.11.2009 Disilvio; Cass. Sez. II 13.11.2013 Vinciguerra; Cass. Sez. II 12.11.2010.

[19] Trattasi del D. L. 3 maggio 1991, n.143, recante provvedimenti urgenti per limitare l’uso del contante e dei titoli al portatore nelle transazioni e prevenire l’utilizzazione del sistema finanziario a scopo di riciclaggio.

[20] Direttiva 91/308/CEE del Consiglio, del 10 giugno 1991, relativa alla prevenzione dell’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività illecite.

[21] La disciplina delle SOS (acronimo che indica l’obbligo di segnalazione di operazioni sospette) impone la segnalazione dell’operazione sospetta ogniqualvolta l’operatore di banca o il professionista si trovino dinnanzi ad una serie di indici o tropi idonei ad attivare l’attenzione del soggetto coinvolto nell’operazione economica. Da notare che, con riferimento, al legale come destinatario della disciplina in parola, costui è chiamato a segnalare anche nel caso della consulenza legale ed altresì qualora questa venga rifiutata dal professionista. Questo ha fatto pensare ad un vero e proprio de profundis per la funzione dell’avvocato in questo campo operativo e ciò in quanto, anche per disposizione deontologica, l’avvocato dovrebbe comunque rappresentare un baluardo per il cliente che, come dinnanzi al ministro di culto, trovasi a confidarsi all’avvocato con il rischio-certezza che costui compia una segnalazione antiriciclaggio. A tale proposito resta ancora del tutto irrisolto il tema delle segnalazioni omesse e l’obbligo forzoso di sospetto di riciclaggio, presunto dalla giurisprudenza ma del tutto non individuabile in una reale voglia di riciclare.

[22] Inoltre verosimilmente sfida, come prospettato in premessa, perlomeno in taluni casi, il principio di specialità di cui all’art. 9 della Legge 24 novembre 1981 n. 689.

[23] Cfr., su tutte, Cass. Sez. VI, 24.2.2004 n. 21091 e conforme Cass. 10.8.10/2014, Cass. 6.3.2014.

[24] N. Mainieri, La direttiva UE n. 1673 sulla lotta al riciclaggio mediante il diritto penale: osservazioni sul recepimento, Diritto Bancario, 2021.

[25] Sulle ipotesi di concorso nel reato di riciclaggio, anche in relazione al concorso esterno nei reati di mafia si veda L. D. Cerqua, Il delitto di riciclaggio dei proventi illeciti, in “Il riciclaggio del denaro” cit.

[26] Si veda F. Di Vizio, Il riciclaggio nella prospettiva penale cit.

[27] Sul tema della logicità del procedimento penale, si veda L. D’Auria “Ivstitia. Storia di una morte annunciata”, Youcanprint, 2020.

[28] Così, Cass. Cass. Sez. V; conf. Cass. 17.1.2020, 17231.

[29] La normativa antiriciclaggio è valevole ERGA OMNES; tuttavia soltanto alcuni soggetti, costituenti un numerus clausus, sono destinatari degli obblighi di legge (consistenti, principalmente, nell’ adeguata verifica della clientela, la conservazione di documenti, dati e informazioni e la segnalazione delle operazioni sospette). detti destinatari sono tassativamente indicati dall’art. 3 del D. Lgs. n. 231/2007 e successive modifiche e integrazioni.

[30] Le banche costituiscono fra l’altro la categoria da sempre maggiormente avvezza a prestare la “collaborazione attiva” pretesa dalla legge e sono i soggetti maggiormente prolifici nell’effettuare segnalazioni di operazioni sospette di riciclaggio: per rendersene conto basta leggere le relazioni periodiche della UIF – Unità d’Informazione Finanziaria presso la Banca d’Italia, in www.bancaditalia.it.

[31] Le sentenze di cui alla NOTA n. 5 riguardano tutte casi di funzionari di banca imputati/talvolta condannati per riciclaggio essenzialmente per avere omesso segnalazioni di operazioni sospette.

[32] Si veda l’art. 25-octies del D. Lgs. 8 giugno 2001, n. 231.

[33] Sulla questione dell’accanimento sanzionatorio nei confronti dei funzionari di banca sia consentito richiamare E. Cappa, “I procedimenti amministrativi, civili e penali alla luce della riforma ad opera del D.lgs. n. 90/2017: le esperienze giudiziali Autovalutazione dei rischi per intermediari bancari, finanziari e non”(12.09.2019 – NETECH); “Le disposizioni della normativa secondaria e la loro incidenza sull’interrelazione fra il delitto di riciclaggio e la normativa speciale antiriciclaggio”(28.05.2019 – AICOM_NETECH); Il “bullismo di stato” nell’antiriciclaggio, in Risk & Compliance, 2 giugno 2019, www.riskcompliance.it

[34] Trattasi delle “Disposizioni in materia di organizzazione procedure e controlli interni volti a prevenire l’utilizzo degli intermediari a fini di riciclaggio e di finanziamento del terrorismo” in www.bancaditalia.it.

[35] Così le Disposizioni cit., Parte III, Sezione I, paragrafo 1.1.

[36] Si veda in proposito Trib. Milano, sez. III penale, 15.10.2020 nr. 10748/20 (inedita).

[37] Sino ad oggi l’interpretazione giurisprudenziale della legislazione afferente alla responsabilità penale-amministrativa delle persone giuridiche (D. Lgs. 231/01) non ha mai ritenuto imputabile l’organo di vigilanza per fatti dei vertici dell’ente. L’importante decisione così ha statuito: «…l’Organismo di Vigilanza – pur munito di penetranti poteri di iniziativa e controllo, ivi inclusa la facoltà di chiedere e acquisire informazioni da ogni livello e settore operativo della Banca, avvalendosi delle competenti funzioni dell’istituto (così il regolamento del luglio 2012) – ha sostanzialmente omesso i dovuti accertamenti (funzionali alla prevenzione dei reati, indisturbatamente reiterati), nonostante la rilevanza del tema contabile, già colto nelle ispezioni di Banca d’Italia (di cui l’OdV era a conoscenza) e persino assurto a contestazione giudiziaria, con l’incolpazione nei confronti di BMPS (circostanza che disvelava, per l’atteggiamento conservativo della Banca, il patente rischio di ulteriori addebiti, come poi avvenuto)».Inoltre, prosegue la sentenza«…l’organismo di vigilanza ha assistito inerte agli accadimenti, limitandosi a insignificanti prese d’atto, nella vorticosa spirale degli eventi (dalle allarmanti notizie di stampa sino alla débâcle giudiziaria) che un più accorto esercizio delle funzioni di controllo avrebbe certamente scongiurato. Così, purtroppo, non è stato e non resta che rilevare l’omessa (o almeno insufficiente) vigilanza da parte dell’organismo, che fonda la colpa di organizzazione di cui all’art. 6, d.lgs. n. 231/01» Tribunale di Milano, sez. III penale, cit.

 

 

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