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Editoriali

La diversity nell’autodisciplina: un intervento sufficiente?

20 Agosto 2018

Paola Schwizer

Professore Ordinario di Economia degli intermediari finanziari, Università di Parma; Presidente di Nedcommunity

Di cosa si parla in questo articolo

Fare “marcia indietro” sarebbe troppo pericoloso. Per evitare il rischio di vedere minati i positivi effetti della Legge Golfo-Mosca sulle quote di genere nei CdA, le modifiche al Codice di autodisciplina del luglio 2018, già descritte in dettaglio in questa sede[1], intervengono ai fini di rendere in qualche modo “permanente” il requisito della gender diversity nella composizione degli organi di amministrazione e controllo, anche una volta esaurita l’efficacia della Legge 120/2011.

La declinazione del principio si caratterizza per tre aspetti:

a) l’introduzione della stessa soglia quantitativa minima in termini di “genere meno rappresentato” prevista a regime dalla Legge 120 (un terzo del consiglio e del collegio, sia al momento della nomina sia nel corso del mandato, cfr. Criterio applicativo 2.C.3), anziché di un criterio generico di “adeguatezza”;

b) l’enfasi posta sulle diverse modalità con cui gli emittenti possono applicare il criterio di diversità, una volta venuto meno l’obbligo di legge. Il Codice suggerisce azioni e strumenti concreti, da modifiche statutarie all’adozione di politiche aziendali in materia di diversità, che si riflettano in orientamenti agli azionisti formulati dal CdA in occasione del rinnovo o nelle scelte di composizione della stessa lista presentata dal CdA ove previsto;

c) l’affermazione di un chiaro ordine di priorità nei requisiti di composizione degli organi, volto a convincere anche i più scettici verso il meccanismo delle quote: prima di tutto professionalità e competenza, richieste a tutti gli amministratori. In altre parole, diversità sì, ma a parità di competenze.

Il Codice contiene un esplicito riferimento agli effetti positivi della Legge 120/2011, in termini di rapido incremento della rappresentanza femminile negli organi (pari oggi al 35% dei Consigli e al 42% nei Collegi sindacali delle quotate[2]) e di contribuito alla sensibilizzazione di società e azionisti sul valore della “gender diversity” e sulla sua importanza ai fini di un efficace funzionamento degli organi stessi.

Al fine di non disperdere tali benefici, il Codice allinea quindi le best practice al dettato legislativo, ampliandone gli effetti nel tempo e cercando di evitare – pur in modo flessibile, applicandosi il principio del comply or explain –, che si verifichi un riposizionamento di pochi “eletti” di genere maschile sulle posizioni di potere. Si tratta di un rischio reale, in un contesto in cui una vera e propria cultura della diversità è ancora tutt’altro che consolidata.

Nonostante il plauso che, giustamente, ha ottenuto la nuova previsione del Codice, rimangono aperte tre ulteriori questioni di rilievo in tema di diversità di genere.

La prima riguarda il fatto che il Codice non può incidere là dove tale rischio è maggiore, ossia nelle società non-quotate controllate dallo Stato: anch’esse sono destinatarie della Golfo-Mosca, ma appaiono decisamente più indietro nel processo e non sempre compliant con le previsioni di legge, anche perché molto più difficili da mappare e controllare. Per questo gruppo di società, le donne rappresentano ancora solo il 26,2% nei CdA e il 32,1% nei collegi sindacali, sotto la media di quasi dieci punti (Profeta, 2018). E’ evidente, almeno alla luce di tali dati, che la legge è stata disattesa o non ha prodotto pienamente i propri effetti. Difficile immaginare che per queste società il problema si possa risolvere con il tempo, grazie alla spontanea diffusione di best practice promosse dall’autodisciplina delle quotate. Anche ai fini di perseguire obiettivi di sviluppo sostenibile, sarebbe quindi opportuno valutare, almeno per tale categoria di imprese, una proroga dell’obbligo normativo, una volta verificate le relative condizioni di fattibilità.

Un secondo elemento di criticità riguarda la valutazione delle performance degli organi aziendali. Al di là del copioso dibattito e della vasta letteratura, peraltro non risolutiva, sull’impatto della gender diversity sui risultati aziendali, vale il principio che una composizione eterogenea di profili, competenze e caratteristiche dei membri è condizione necessaria ai fini dell’efficacia del decision-making nell’ambito di organi collegiali investiti di potere decisionale. In questo senso, la normativa bancaria aveva già preso una posizione più decisa rispetto al Codice[3], e il nuovo Corporate Governance Code inglese[4], anch’esso recentemente rivisto, sottolinea come la “diversity of thought” – favorita da diversity of skills, background and personal strengthssia una condizione essenziale ai fini di garantire un dibattito “robusto” e “rompere la tendenza al groupthink”, limitando cioè il conformismo.

Tutto ciò implica che l’efficacia della composizione di un organo aziendale possa essere valutata solo alla luce delle decisioni che esso è in grado di prendere, del contributo di ciascuno dei suoi membri alla qualità di tali decisioni, della rilevanza e concretezza dei temi oggetto di dibattito e degli interventi individuali. Oltre ai requisiti formali di idoneità dei singoli membri – rilevati ex ante e auspicabilmente differenziati per garantire un mix ottimale rispetto alle esigenze del business, dei piani di sviluppo, della complessità anche prospettica del contesto competitivo – ciò che conta dunque è la condotta “sul campo”. In ultima istanza, ciò spesso si riflette in una capacità personale di incidere sui processi decisionali di gruppo, di esprimere una leadership di pensiero, di influenzare positivamente dinamiche e risultati. Si tratta di profili soft più che di competenze “hard”, che possono essere apprezzati solo da chi osserva direttamente i comportamenti e le dinamiche sociali, ossia dai membri stessi dell’organo di riferimento. A questo fine, il processo annuale di auto-valutazione è in grado di fornire più informazioni del processo di selezione e nomina dei candidati. In termini di board review, tuttavia, vi sono ancora ampi margini di miglioramento[5].

Infine, lo stesso Codice suggerisce che gli emittenti adottino misure per promuovere la parità di trattamento e di opportunità tra i generi all’interno dell’intera organizzazione aziendale, monitorandone la concreta attuazione. Si tratta di un obiettivo ancora più importante di quello della presenza femminile nei CdA, perché coinvolge l’essenza stessa delle organizzazioni e un numero di persone molto più elevato. Ha inoltre ricadute di portata decisamente più ampia sull’economia e sulla società. Le società maggiori (con oltre 500 dipendenti) sono già obbligate a rendicontare in merito alle proprie politiche di genere ai sensi del d.lgs. 254/2016 e l’Agenda ONU 2030 impone sicuramente misure più decise ai fini della riduzione dei gender gap, con riferimento ai numeri, ai percorsi di carriera e alla parità salariale. Il richiamo del Codice è, indirettamente, forse quello di invitare le donne entrate in CdA grazie alla Legge 120 ad occuparsi direttamente del problema, chiedendo informazioni, sollecitando politiche e decisioni e pretendendo un monitoraggio costante dei relativi risultati da parte degli organi. Maggiore trasparenza su obiettivi di genere e traguardi raggiunti possono certamente favorire un dialogo più produttivo con gli stakeholder interni ed esterni. Politiche di genere più equilibrate aumentano però anche l’attrattività dell’impresa, tra l’altro, nei confronti dei giovani talenti, fino a rappresentare un verso e proprio elemento di vantaggio competitivo.

In definitiva, la gender diversity è ben altro che un mero tema di compliance e merita una attenzione seria e diffusa, perché può e deve entrare a pieno titolo nei driver della creazione di valore sostenibile per tutte le categorie di imprese in una prospettiva di lungo periodo.

 


[1] http://www.dirittobancario.it/news/corporate-governance/la-board-diversity-nella-nuova-edizione-del-codice-di-autodisciplina; http://www.dirittobancario.it/news/corporate-governance/diversita-di-genere-nelle-quotate-nuove-raccomandazioni-del-codice-di-autodisciplina

[2] Ferrari, G., Ferraro, V., Profeta, P., Pronzato, C. (2018), “Do Board Gender Quotas Matter? Selection, Performance and Stock Market Effects”. IZA Discussion Paper No. 11462.

[3] “Un adeguato grado di diversificazione, anche in termini di età, genere e provenienza geografica, favorisce tra l’altro la pluralità di approcci e prospettive nell’analisi dei problemi e nell’assunzione delle decisioni, evitando il rischio di comportamenti di mero allineamento a posizioni prevalenti, interne o esterne alla banca.” Banca d’Italia, Circolare 285/2013, 1° aggiornamento.

[4] https://www.frc.org.uk/getattachment/88bd8c45-50ea-4841-95b0-d2f4f48069a2/2018-UK-Corporate-Governance-Code-FINAL.pdf

[5] Soana, M. G., & Crisci, G. (2017). “Board evaluation process in Italy: How far is it from the UK standard?” Corporate Board: role, duties and composition, 13(3), 6-18; Schwizer, P. (2017). “Gli esami non finiscono mai. Il nuovo Fit & Proper Test per gli amministratori bancari alla prova della fattibilità”, in Bancaria, 3, pp.2-13.

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