Nella sentenza in esame il Supremo Collegio si è espresso in merito alla natura elusiva della fusione.
In particolare, la Corte di Cassazione ha ribadito che il fenomeno elusivo si verifica nell’ipotesi in cui il contribuente ponga in essere talune operazioni allo scopo esclusivo di ottenere benefici fiscali indebiti, ovverosia qualora vi sia un utilizzo distorto di figure negoziali previste dall’ordinamento giuridico, realizzate per il perseguimento di finalità economiche diverse da quelle tipiche.
Tuttavia, l’ordinamento tributario prevede la facoltà di scegliere l’operazione negoziale fiscalmente meno gravosa, ciò che non appare sufficiente ad integrare una condotta elusiva, essendo necessario il conseguimento di un indebito vantaggio fiscale, contrario allo scopo delle norme tributario. In altri termini, per integrare la fattispecie elusiva, si richiede che il conseguimento di detto vantaggio indebito rappresenti la causa in concreto del negozio giuridico posto in essere (come sottolineato altresì dalla Cass. Sez. V, sentenza 14 gennaio 2015, n. 405).
Ne consegue, dunque, che la scelta di un’operazione fiscalmente più vantaggiosa non integra, di per sé, una condotta elusiva, qualora l’ordinamento tributario preveda tale facoltà e sempre che ciò non si traduca in un uso distorto della figura negoziale prescelta.
Nel caso di specie, la Società contribuente, in seguito ad una fusione per incorporazione, aveva provveduto a svalutare (con imputazione al conto economico del 1986) il valore della partecipazione dalla stessa detenuta nella Società incorporanda (controllata al 100%), in ragione delle perdite effettive di quest’ultima, per poi riportare a nuovo nell’esercizio 1987, a seguito della fusione avvenuta il 18 dicembre 1986, le perdite maturate dall’incorporata. Tale operazione era stata ritenuta elusiva dall’Amministrazione Finanziaria.
L’Ufficio ricorreva avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale – con cui il giudice di seconda istanza aveva ritenuto non adeguatamente provata la natura indebita del risparmio fiscale conseguito dalla Società incorporante in seguito alla fusione – affermando la violazione dell’art. 17, D.P.R. n. 598/1973, disciplinante il riporto delle perdite e applicabile ratione temporis, in forza del quale “in caso di fusione le perdite delle società che partecipano alla fusione, compresa la società incorporante, non possono essere portate in diminuzione del reddito della società risultante dalla fusione o incorporate per la parte del loro ammontare che eccede quello del rispettivo patrimonio netto quale risulta dalla situazione patrimoniale di cui all’art. 2502, c.c., senza tenere conto dei conferimenti e versamenti fatti negli ultimi diciotto mesi”.
Al secondo comma, il medesimo articolo prevedeva che tale limitazione non si applica alle incorporazioni, con atto di fusione anteriore al 1° gennaio 1988, di società che alla data dell’atto medesimo risultino controllate dalla società incorporante nonché alle fusioni che abbiano luogo entro il termine indicato fra società che risultino controllate e per il periodo indicato da una medesima società o da un medesimo ente.
Mentre il giudice di seconda istanza aveva ritenuto legittima la fusione contestata, l’Ufficio aveva contestato la natura elusiva dell’operazione, sostenendo che l’abuso da parte della società contribuente sarebbe consistito nell’utilizzo della possibilità prevista dall’art. 17, comma 2, cit., il quale sarebbe stato applicato non per realizzare la sua finalità economica ma solo per riconoscere la deduzione fiscale che esso consente, del tutto prescindendo dalla sussistenza o persistenza dei presupposti economici giustificanti tale beneficio.
Orbene, posto che nel caso di specie ricorrevano i presupposti per l’applicabilità del secondo comma del citato art. 17, la Suprema Corte, facendo riferimento al proprio consolidato orientamento in materia, ha rigettato il ricorso dell’Amministrazione Finanziaria, non ravvisando alcuna finalità elusiva nell’operazione realizzata dalla società ricorrente.