1. Sulle novità della sentenza della Corte
Con la sentenza 21 marzo 2019, n. 63, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’articolo 6, comma 2, del D.lgs. n. 72 del 2015, nella parte in cui esclude l’applicazione retroattiva delle modifiche apportate dal comma 3 dello stesso articolo 6 alle sanzioni amministrative previste per l’illecito di cui all’art. 187-bis del D.lgs. n. 58 del 1998. Con detta sentenza, la Consulta ha sancito l’applicabilità del principio del favor rei, di matrice penalistica, anche alle sanzioni amministrative di natura “punitiva”, quali quelle previste per l’abuso di informazioni privilegiate nel settore finanziario.
La sentenza in esame segna un cambio di passo forse decisivo nel riconoscimento della garanzia della retroattività favorevoleanche alle sanzioni amministrative considerate sostanzialmente penali in base ai principi della CEDU. Seguendo un iter logico condivisibile, la Consulta ha superato l’orientamento precedente, restio ad estendere le tutele dell’ordinamento penale anche alla materia amministrativa; orientamento seguito costantemente anche dalla Suprema Corte, in particolare con riferimento agli illeciti finanziari.
2. Sulle ragioni del rinvio alla Corte
La vicenda trae origine dall’ordinanza della Corte d’Appello di Milano del 19 marzo 2017, n. 87, nell’ambito di un giudizio di opposizione a sanzione amministrativa comminata da Consob in forza dell’art. 187-bis del TUF e pari ad Euro 100.000. In particolare, il ricorrente – sanzionato per comunicazione illecita di informazioni privilegiate – aveva dedotto, tra le altre, la violazione da parte di Consob dell’art. 6, comma 3, del D.lgs. n. 72/2015, che esclude la quintuplicazione delle sanzioni contemplate dal TUF in forza dell’art. 39, comma 3, della L. 28 dicembre 2005, n. 262: l’applicazione della normativa più recente, infatti, avrebbe condotto all’irrogazione della sanzione di Euro 20.000, in luogo della sanzione quintuplicata di Euro 100.000 effettivamente irrogata dall’Autorità di Vigilanza e ciò nonostanteil comma 2 dello stesso art. 6, in tema di diritto transitorio, avesse escluso l’operatività del successivo comma 3in relazione alle violazioni commesse prima dell’emanazione dei regolamenti che Banca d’Italia e Consob avrebbero dovuto adottare in attuazione dello stesso D.lgs.
Dopo una lucida analisi circa la natura sostanzialmente penale della sanzione portata dall’art. 187-bis del TUF in forza dell’applicazione alla fattispecie concreta dei c.d. “Criteri Engel” e un puntuale richiamo alla giurisprudenza più rilevante della Corte EDU, la Corte d’Appello ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, del D.lgs. 72/2015, nella parte in cui esclude la retroattività della normativa più favorevole prevista dal successivo comma 3, in riferimento agli artt. 3 e 117, comma 1° della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 7 CEDU.
3. La giurisprudenza precedente
Prima di passare all’analisi della sentenza, è opportuno soffermarsi, pur brevemente, sul quadro giurisprudenziale in cui essa si inserisce e sulla evoluzione dello stesso in tema di retroattività in mitius.
Punto di partenza della giurisprudenza costituzionale in tale materia è consistito nella distinzione tra principio di retroattività della legge penale più favorevole e principio di irretroattività delle norme incriminatrici e, in generale, delle norme penali più severe. Più precisamente, la Consulta ha più volte chiarito come il principio di irretroattività della legge penale si ponga come garanzia essenziale contro i potenziali arbitri del legislatore, richiedendo che le conseguenze giuridiche della condotta dell’individuo vengano lasciate alla consapevole autodeterminazione dello stesso. In base a tale principio, che trova espressa positivizzazione nell’art. 25, secondo comma, della Costituzione, la tutela del singolo non si estende unicamente all’ipotesi di nuova fattispecie incriminatrice, ma anche a quella della modifica peggiorativa del trattamento sanzionatorio già comminato. In questi termini, il principio di irretroattività assume valore assoluto e non derogabile[1].
D’altro canto, la Consulta ha escluso che il principio di retroattività della disposizione penale più favorevole al reo, di cui all’art. 2, secondo, terzo e quarto comma, del codice penale, rientri nella tutela di cui all’art. 25 Cost. poiché, sopravvenendo la lex mitior alla commissione del fatto e dunque alla libera scelta dell’individuo, il principio non attiene alla libertà di autodeterminazione[2].
Ciononostante, l’orientamento del Giudice delle leggi è stato quello di sancire comunque il fondamento costituzionale della regola della retroattività della lex mitior, pur avendo essa rango diverso dal principio d’irretroattività della norma incriminatrice[3]. Tale fondamento è stato individuato nel principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., per cui gli stessi fatti devono essere sanzionati allo stesso modo, a prescindere dalla circostanza che essi siano stati commessi prima o dopo l’entrata in vigore della norma che ha disposto l’abolitio criminis o la modifica in bonam partem della norma. Infatti, non sarebbe ragionevole punire (o continuare a punire più gravemente) una persona per un fatto che, secondo la legge posteriore, chiunque altro può impunemente commettere (o per il quale è prevista una pena più lieve), ciò salvo che non ricorra, nel caso concreto, una sufficiente ragione giustificativa, tale da consentire la deroga al principio del trattamento più favorevole[4]. In questo senso, la giurisprudenza di legittimità ha individuato un limite ragionevole al principio della retroattività in mitius in quelle deroghe (disposte anche mediante legge ordinaria) sorrette dalla necessità di preservare interessi di rilievo costituzionale[5].
Il riconoscimento di rango costituzionale al principio di retroattività della lex mitior è poi passato anche per il riferimento al diritto internazionale e comunitario, trovando ulteriore tutela nell’art. 117, primo comma, Cost. La Consulta, dapprima con la sentenza n. 393 del 2006[6] e, poi, con la n. 236 del 2011, ha ribadito la tutela del principio di retroattività della lex mitior nel nostro ordinamento facendolo proprio in seguito al riferimento a norme e giurisprudenza internazionali. In particolare, la sentenza da ultimo citata ha preso atto del mutato orientamento della giurisprudenza della Corte EDU in seguito alla sentenza del 17 settembre 2009[7], con cui la Corte di Strasburgo ha ammesso che l’art. 7 della CEDU non si limita a sancire il principio della irretroattività delle leggi penali più severe, ma comporta, quale corollario, anche il principio della retroattività della legge penale meno severa[8]. Da tale nuova presa di posizione della giurisprudenza EDU si è quindi prevista la tutela del principio della lex mitior anche in forza dell’art. 117, primo comma, Cost., assumendo, quale norma interposta, l’art. 7 della CEDU, così come interpretato dalla Corte di Strasburgo e, comunque, nei limiti già espressi dalla Consulta in tema di ragionevolezza della deroga[9].
Prima della sentenza in esame, la Corte Costituzionale si era pronunciata prevalentemente sull’applicabilità del principio della lex mitior alle sanzioni penali in senso stretto, di contro, l’estensione di detto principio alle sanzioni amministrative era stata posta all’attenzione della Corte in rare occasioni, di cui solo una di particolare rilievo in tema di sanzioni amministrative emanate ai sensi del TUF. Con la sentenza n. 193 del 20 luglio 2016 il Giudice delle leggi ha escluso l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della L. 24 novembre 1981, n. 689 nella parte in cui non prevede l’applicazione della legge più favorevole agli autori degli illeciti amministrativi. Tale sentenza ha negato l’applicabilità della lex mitior al sistema delle sanzioni amministrative complessivamente considerato, pur ammettendone l’operatività per singole e specifiche discipline sanzionatorie, considerabili “punitive” alla luce dell’ordinamento della CEDU.D’altra parte, sempre secondo la Corte, la previsione di una regola generale di applicazione della legge successiva più favorevole agli autori degli illeciti amministrativi avrebbe finito per «disattendere la necessità della preventiva valutazione della singola sanzione (qualificata “amministrativa” dal diritto interno) come “convenzionalmente penale”, alla luce dei cosiddetti criteri Engel».
La giurisprudenza della Suprema Corte con la sentenza della Consulta n. 193 del 2016 – che pure non esclude la possibilità che le tutele tipicamente previste per le sanzioni penali, quale quella della lex mitior, possano applicarsi anche a singole fattispecie sanzionatorie formalmente amministrative – ha trovato ulteriore giustificazione nel mantenere un orientamento poco aperto all’accoglimento delle istanze di tutela dei soggetti sanzionati. In particolare, fino a questo momento, la Corte di Cassazione ha sempre negato la possibilità di applicare analogicamente alle sanzioni amministrative di natura finanziaria il principio della lex mitior e ciò sulla base dell’assunto per cui, non essendo possibile trasporre l’intero sistema di tutele penalistiche al corpus delle sanzioni amministrative ed essendosi pronunciata la Corte EDU circa la natura sostanzialmente penale solo della sanzione comminata in materia di manipolazione del mercato ai sensi dell’art. 187-ter[10], si deve escludere l’applicabilità di dette tutele a sanzioni relative ad altri illeciti caratterizzati da minore afflittività. Più nello specifico, l’attuale orientamento della Suprema Corte escludela natura sostanzialmente penale delle sanzioni emanate ai sensi del TUF valutandone il carattere afflittivo non in senso assoluto e nel caso concreto, ma assumendo quale tertium comparationis le sanzioni ex art. 187-ter: La Corte, in sostanza, ha voluto leggere la pronuncia della Corte Europea, emessa in relazione ad una fattispecie dalle caratteristiche ben individuate, come se dettasse una regola generale ed astratta, in modo tale, dunque, da escludere la natura sostanzialmente penale di una sanzione amministrativa ogni qual volta non si incontrassero quei medesimi caratteri di afflittività riscontrati dal giudice europeo in un diverso caso concretoe per una fattispecie diversa[11].
4. Le argomentazioni della Corte
Premesso il doveroso richiamo alla giurisprudenza espressasi in tema di applicabilità della lex mitior, si deve ora passare all’analisi della sentenza qui in esame e, più specificamente, alle argomentazioni che hanno portato alla censura dell’art. 6, comma 2 del D.lgs. n. 72/2015 per violazione degli artt. 3 e 117 Cost.
In primo luogo, riprendendo un orientamento di legittimità oramai consolidato, la Consulta, fermo il vaglio di ragionevolezza circa eventuali deroghe all’applicabilità di detto principio, ha ribadito il fondamento costituzionale dell’applicazione retroattiva della lex mitior in materia penale sulla base degli artt. 3[12] e 117[13] Cost. identificando la ratio della garanzia nel «diritto dell’autore del reato a essere giudicato, e se del caso punito, in base all’apprezzamento attuale dell’ordinamento relativo al disvalore del fatto da lui realizzato».
Nel secondo passaggio argomentativo la Corte passa a valutare l’applicabilità del principio della retroattività della lex mitior alle sanzioni amministrative. Partendo dalla precedente sentenza n. 193 del 2016 e dall’infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 24 novembre 1981, n. 689 sostenuta in quella sede, il giudice ad quem ha ammesso l’applicabilità del principio della legge successiva più favorevole a singole sanzioni amministrative che abbiano natura e finalità “punitiva”. Tale soluzione risulta coerente sia con la precedente sentenza della Corte, che aveva escluso l’applicabilità del principio all’intero impianto sanzionatorio amministrativo, sia rispetto alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, per cui l’applicazione delle tutele penalistiche deve essere valutata in concreto, mediante l’applicazione dei criteri elaborati dalla Corte EDU, non già procedendosi ad un’assimilazione indifferenziata delle sanzioni amministrative alle sanzioni penali.
A tale ragionamento, la Consulta aggiunge, poi, una precisazione non priva di rilevanza sistematica.
In particolare, sostiene il Giudice delle leggi, l’assenza di precedenti specifici nella giurisprudenza della Corte EDU non esime l’interprete dall’applicare i principi della Convenzione così come interpretati dalla stessa Corte di Strasburgo.
Di tale assunto può darsi duplice lettura: da una parte, quello della Consulta sembra un invito ai giudici nazionali ad applicare anche quei principi fondamentali della CEDU che non siano ancora stati oggetto di espressa pronuncia della Corte di Strasburgo, dall’altra, la Corte sembra anche richiedere ai giudici nazionali una valutazione della natura sostanzialmente penale delle sanzioni amministrative autonoma e non limitata dalla mancanza di pronunce espresse sul punto della Corte EDU[14]. In tale contesto, allora, perderebbe di persuasività il descritto orientamento della Corte di Cassazione, ancorata nel valutare la natura sostanzialmente penale delle sanzioni ad essa sottoposte in relazione al tertium comparationis dato dalle sanzioni amministrative già considerate sostanzialmente penali dalla Corte di Strasburgo[15].
L’iter argomentativo della Consulta prosegue nel valutare la natura sostanzialmente penale della sanzione ex art. 187-bis del TUF[16]. Tale sanzione viene pacificamente considerata sostanzialmente penale e ciò tenuto conto dall’elevatissimo ammontare della stessa[17], destinata ad eccedere il valore del profitto in concreto conseguito dall’autore e quindi ad avere un carattere e un fine propriamente afflittivi, non meramente ripristinatori o preventivi[18].
Infine, in ossequio all’orientamento ormai consolidato in seno alla stessa Corte Costituzionale, quest’ultima è passata a valutare la ragionevolezza della deroga al principio di retroattività in mitius previsto dall’art. 6, comma 2, del D.lgs. 72/2015, guardando alle ragioni della deroga indicate nella Relazione illustrativa allo schema del decreto legislativo[19]. In particolare, pur considerando «il favor rei come un principio di civiltà giuridica» il legislatore ne ha previsto la deroga per due distinte ragioni: da una parte, perché la delega consentiva l’applicazione di detto principio solo per alcune disposizioni in vigore; dall’altra, perché il principio sarebbe risultato applicabile a tutti i procedimenti sanzionatori ancora sub iudice con ripercussioni negative sui procedimenti sanzionatori in corso.
Tali motivazioni sono state considerate dalla Consulta prive di quella ragionevolezza giustificata dalla necessità di tutelare interessi di rango costituzionale analoghi a quelli tutelati dal principio della lex mitior. Per quanto riguarda il primo motivo, si è osservato che ad essere irragionevole non sarebbe tanto la limitazione dell’applicabilità del principio solo a determinate disposizioni, quanto la mancata estensione dello stesso a tutte le disposizioni potenzialmente interessate. Per quanto riguarda il secondo, invece, si è osservato che le ripercussioni dell’applicazione della lex mitior sui procedimenti ancora in corso sono conseguenza normale e, anzi, necessaria della tutela da questo garantita, non rilevando, d’altra parte, la necessità di posticipare l’entrata in vigore della normativa più favorevole a dopo l’adozionedelle nuove disposizioni regolamentari di Banca d’Italia e Consob: tali regolamenti, infatti, hanno ad oggetto la disciplina del procedimento sanzionatorio e non influiscono sulla configurazione dell’illecito.
Alla luce delle ragioni sopra riproposte, la Corte ha sancito l’illegittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, del D.lgs. n. 72 del 2015, nella parte in cui esclude l’applicazione retroattiva delle modifiche apportate dal comma 3 dello stesso art. 6 alle sanzioni amministrative previste per l’illecito disciplinato dall’art. 187-bis del TUF.
5. Conclusioni
Alla sentenza della Corte Costituzionale n. 63 del 2019 si deve il riconoscimento della validità del principio della lex mitior per tutte le sanzioni amministrative dalla colorazione penale. L’iter argomentativo seguito dalla Corte, infatti, risulta valido e convincente anche in relazione a fattispecie diverse da quella prevista dall’art. 187-bis del TUF e dal regime intertemporale previsto dall’art. 6, comma 2, del D.lgs. 72/2015.
La sentenza in esame, tuttavia, assume rilievo anche per la (ri)valorizzazione della figura del giudice “dei tre cappelli”[20] con l’affermazione del principio per cui l’interprete non deve rimanere ancorato ai casi puntualmente decisi dalla Corte EDU, essendo chiamato ad applicare in autonomia i principi della Convenzione anche quando questi non siano stati oggetto di specifica pronuncia della Corte di Strasburgo, e anche in relazione al carattere effettivamente “punitivo” della sanzione[21]. Tuttavia, solo le prossime pronunce potranno dire se tale invito sarà effettivamente accolto dalla giurisprudenza nazionale, e in particolare dalla Corte di Cassazione – fino a questo momento piuttosto restia ad applicare autonomamente i parametri CEDU in tema di qualificazione della sanazione amministrativa in senso sostanzialmente penale –, o se rimarrà inascoltato.
[1] Così, Corte Cost., sent. 23 novembre 2006, n. 394. Per un lucido commento vedasi Pulitanò, Retroattività favorevole e scrutinio di ragionevolezza, in Giur. cost., 2/2008, p. 948.
[2] V., ex plurimis, Corte Cost., sentt. 18 giugno 2008, n. 215; 23 novembre 2006, n. 393; 6 marzo 1995, n. 80; 20 maggio 1980, n. 74. Per la dottrina in tema di art. 25 Cost. e principi da esso evincibili in tema di sanzioni amministrative si veda Paliero, Travi, La sanzione amministrativa, profili sistematici, Milano, 1988, pp. 175 e ss.
[3] Così, Corte Cost., sent. 18 giugno 2008, n. 215.
[4] Così, Corte Cost., sentt. 23 novembre 2006 nn. 393 e 394; 6 marzo 1995, n. 80; 20 maggio 1980, n. 74; 16 gennaio 1978, n. 6; 6 giugno 1974, n. 164.
[5] V., ex multis, ancora Corte Cost., sentt. 18 giugno 2008, n. 215; 23 novembre 2006, n. 394; 20 maggio 1980, n. 74; e 16 gennaio 1978, n. 6.
[6] In tale occasione la Corte ha rilevato che il principio di retroattività della legge penale più favorevole trova riconoscimento anche nel diritto internazionale e comunitario, in particolare nell’art. 15, primo comma, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottato a New York il 16 dicembre 1966 e nell’art. 49, comma 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, successivamente recepita dal Trattato di Lisbona.
[7] Si tratta della sentenza Scoppola c. Italia. A conferma del nuovo orientamento della Corte EDU si vedano anche le sentenzeRuban c. Ucraina, 12 luglio 2016; Gouarré Patte c. Andorra, 12 gennaio 2016; Mihai Toma c. Romania, 24 gennaio 2012; Morabito c. Italia, 27 aprile 2010.
[8] Quello del trarre nuovi diritti fondamentali da semplici corollari della legalità individuati da dottrina e giurisprudenza, anche di ordinamenti diversi, è un processo ormai acquisito nel dialogo creatosi tra Corte Costituzionale e Corti europee, così Manes,Common Law-isation del diritto penale? Trasformazioni del nullum crimen e sfide prossime future, in Ambrosetti (a cura di), Studi in onore di M. Ronco, Torino, 2017, p. 15.
[9] In verità, numerosi dubbi ha lasciato la lettura della sentenza della Corte EDU data dalla Consulta al fine di legittimare la derogabilità del principio della lex mitior già da tempo configurata nell’ordinamento interno. Sul punto vedasi Pinelli, Retroattività della legge penale più favorevole fra CEDU e diritto nazionale, in Giur. cost., 4/2011, p. 3047.
[10] Il riferimento è alla sentenza Grande Stevens c. Italia, 4 marzo 2014.
[11] Vedasi, ex multis, Cass. civ., sez. I, 30 giugno 2016, n. 13433; Cass. civ., sez. I, 2 marzo 2016, n. 4114; Cass. civ., sez. II, 30 dicembre 2015, n. 26131. D’altro lato, in un numero di sentenze che ad oggi può dirsi ormai significativo, la Corte di Cassazione ha evidenziato come l’attribuzione della natura sostanzialmente penale alle sanzioni in materia di market abuse da parte della Corte EDU sia stata effettuata ai soli fini dell’applicazione dell’art. 6 della Convenzione EDU, che si limita ad enunciare il principio dell’equo processo, e non ai fini dell’art. 7 della medesima Convenzione che sancisce il principio di irretroattività della norma sfavorevole o a fini ulteriori (Cass. civ., sez. II, 7 aprile 2017, n. 9126; Cass. civ., sez. II, 24 novembre 2015, n. 23912; Cass. civ., sez. II, 5 ottobre 2015, n. 19865).
[12] Il riferimento è ancora a Corte Cost., sent. 23 novembre 2006, n. 394.
[13] Si tratta della già citata Corte Cost., sent. 22 luglio 2011, n. 236.
[14] Per una corposa e puntuale indicazione delle pronunce di Corte di giustizia e Corte europea dei diritti dell’uomo in materia di criteri Engel vedasi lo scritto di Pantalone in Allena, Cimini (a cura di),Il potere sanzionatorio della autorità amministrative indipendenti. Raccolta di lavori scientifici, in giustamm.it, 3/2014.
[15] Gli esempi sono numerosi. La Suprema Corte giustifica spesso l’esclusione della natura penale delle sanzioni amministrative sottoposte al proprio giudizio sulla base dell’assunto per cui quest’ultime «non sono equiparabili quanto a tipologia, severità, incidenza patrimoniale e personale, a quelle irrogate da Consob ai sensi dell’art. 187 ter TUF per manipolazione del mercato, sicché esse non hanno la natura sostanzialmente penale che appartiene a queste ultime». C.f.r. Cass. civ., sez. II, 9 agosto 2018, n. 20689; Cass. civ., sez. II, 5 aprile 2017, n. 8855; Cass. civ., sez. II, 24 febbraio 2016, n. 3656. D’altra parte, da tempo in dottrina si sostiene il carattere sostanzialmente penale di molte delle sanzioni irrogabili da Consob, in particolare con riferimento a quelle di cui al capo V del TUF: si veda in questo senso Troise Mangoni, Procedimento sanzionatorio condotto dalla Consob e garanzia del contraddittorio: profili evolutivi anche alla luce della recente giurisprudenza interna e sovranazionale, in Diritto Processuale Amministrativo, 2/2015, p. 597.
[16] Preme ricordare che la natura sostanzialmente penale delle sanzioni amministrative si fonda su criteri ormai consolidati in sede alla Corte EDU a partire dalla sentenza 8 giugno 1976, Engel e A. c. Paesi Bassi. Nella sentenza in questione i giudici di Strasburgo hanno individuato tre criteri generali e alternativi tra loro in base ai quali è possibile determinare la natura penale di una certa sanzione, ossia: a) la qualificazione formale e nominale della disposizione sanzionatoria nell’ordinamento di appartenenza; b) la reale natura sostanziale dell’illecito; c) il grado di severità della sanzione potenzialmente irrogabile. Il primo criterio formale ha dunque notevole importanza quale punto di partenza per la valutazione della Corte, ma non è decisivo e anzi assume valore relativo rispetto agli altri due criteri sostanziali. Ben più importante è il secondo criterio – la natura dell’illecito – la cui valutazione è passata, nel corso della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, per la valutazione di ulteriori e specifiche circostanze ossia: il fatto che la norma violata sia rivolta a un gruppo specifico di soggetti, o abbia portata coattiva generale; l’istituzione del procedimento da parte di un’autorità pubblica in grado di imporre sanzioni; il fine punitivo-dissuasivo della sanzione; il dipendere l’imposizione della sanzione da un certo grado di colpevolezza; la classificazione di procedure simili negli altri stati contraenti; il fatto che la violazione venga considerata come precedente penale (fatto che potrebbe essere rilevante, ma ritenuto in ogni caso non decisivo). Il terzo criterio stabilito nel caso Engel, infine, si può prestare a interpretazioni diverse, mancando dei canoni specifici che consentano di definire quando una sanzione amministrativa possa considerarsi talmente grave da poterne parlare nel senso di sanzione sostanzialmente penale. Allo stato, non è possibile individuare un discrimine esplicito, nel quantum sanzionatorio irrogabile, che consenta di individuare con certezza quando, oltre una certa soglia, la sanzione amministrativa possa considerarsi sostanzialmente penale. La scelta della Corte di Strasburgo di non quantificare detto limite appare condivisibile: la quantificazione di soglie tali da consentire un’individuazione certa della colorazione penale della sanzione farebbe perdere di significato la valutazione degli altri criteri, lasciando ai singoli legislatori nazionali la possibilità di “aggirare” il limite prevedendo sanzioni pecuniarie elevate, ma di poco inferiori alla soglia, eventualmente abbinate ad ulteriori sanzioni accessorie di rilievo. A tale proposito si deve ricordare che nemmeno è necessaria l’esistenza di una sanzione pecuniaria perché possa parlarsi di sanzione sostanzialmente penale; vedasi in questo senso la giurisprudenza della Corte EDU in tema di confisca, 28 giugno 2018, G.I.E.M. e A. c. Italia; 29 ottobre 2013, Varvara c. Italia; 10 maggio 2012, Sud Fondi e A. c. Italia.
[17] La sanzione prevista arriva, nel suo massimo, fino a cinque milioni di euro, a loro volta elevabili sino al triplo ovvero al maggior importo pari fino a dieci volte il profitto conseguito o le perdite evitate.
[18] La Corte, nel proprio ragionamento, rinvia alla stessa Corte di giustizia UE che ha recentemente affermato la natura penale ai sensi dell’art. 50 CDFUE delle sanzioni comminate ai sensi dell’art. 187-bis alla luce della loro finalità repressiva e del loro elevato carico di severità. C.f.r., CGUE, 20 marzo 2018, Di Puma e altri, in cause C-596/16 e C-596/16, paragrafo 38.
[19] Si veda sul punto la Relazione illustrativa reperibile all’indirizzo http://www.camera.it/leg17/682?atto=147&tipoAtto=Atto&leg=17&tab=2, pp. 4 e ss.
[20] Si tratta di una felice metafora dottrinale che fa riferimento al ruolo del giudice nazionale inteso come interprete del diritto interno conformemente: alla Costituzione, alle norme dell’Unione e alla CEDU. Si veda in particolare Conti, Il principio di effettività della tutela giurisdizionale ed il ruolo del giudice: l’interpretazione conforme, in politica del diritto, 3/2007, p. 377.
[21] Sull’individuazione del carattere afflittivo delle sanzioni c.d. “para-penali” si veda Manes, Profili e confini dell’illecito para-penale, in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, 3/2017, p. 988.