La suprema Corte cassa, con rinvio al Tribunale di Roma, il decreto con il quale si respingeva un’opposizione avverso la mancata ammissione (privilegiata) allo stato passivo di credito pignoratizio concesso a garanzia di un finanziamento ottenuto in ragione di un piano attestato di risanamento. In particolare, il Tribunale di Roma accoglieva la revocatoria incidentale proposta dal curatore, ritenendo che non si potesse applicare l’esenzione di cui all’art. 67, comma 3°, lett.d. sulla base del fatto che non era stato versato in atti l’atto di integrazione del piano, che risultava dalla relazione dell’attestatore.
I giudici di legittimità ricordano che il piano attestato di risanamentodi cui all’art. 6, lett. d) l.f. appartiene al genus delle convenzioni stragiudiziali adottate dall’imprenditore per rimediare alla situazione di crisi d’impresa ed è sintomatico della volontà del legislatore di incentivare il riacquisto della capacità di stare sul mercato.
La suprema Corte si è già espressa (cass., VI-1, n. 13719 del 2016) in ordine alla qualifica di atto esecutivo del piano attestato al fine di escluderne la falcidia revocatoria ed ha affermato che per effettuare tale valutazione l’autorità giudicante dovrà compiere un giudizio ex ante mirato alla manifesta attitudine all’attuazione del piano di risanamento del quale l’atto oggetto di revocatoria costituisce uno strumento attuativo.
I giudici di legittimità concludono, pertanto, che la semplice assenza agli atti di un documento integrativo non permette di affermare l’inesistenza del piano ma che sarà necessario ottenere tutti i chiarimenti necessari anche dal punto di vista delle integrazioni documentali.