L’indicazione del TAEG/ISC non ha alcuna funzione o valore di “regola di validità” tanto meno essenziale, del contratto poiché è un mero indicatore sintetico del costo complessivo del contratto e non incide sul contenuto della prestazione a carico del cliente ovvero sulla determinatezza o determinabilità dell’oggetto contrattuale, definita dalla pattuizione scritta di tutte le voci di costo negoziali.
In altri termini, quale mero indicatore del costo complessivo del contratto, a sostanziale finalità informativa in termini di trasparenza ha semmai valenza di regola di comportamento, comportante una mera obbligazione restitutoria a titolo di responsabilità precontrattuale.
Tali conclusioni sono avvalorate dalla stessa disciplina della Banca d’Italia, che – sia nella originaria circolare del 2003, sia in quella del 2009 e successive modifiche – regola l’ISC nell’ambito delle rispettive “II Sezione”, dedicate, per l’appunto, alla “pubblicità e informazione contrattuale”, con totale pretermissione di ogni riferimento ad esso nell’apposita Sezione III, disciplinante i “requisiti di forma e contenuto minimo dei contratti”. Ciò a dimostrazione che tale disciplina non è stata evidentemente emessa in esecuzione dei poteri attribuiti alla Banca d’Italia dall’art. 117, 8° comma, TUB, che si riferisce espressamente solo al “contenuto tipico determinato” del contratto.
E tale conclusione è ulteriormente confermata dalla disciplina, certamente non innovativa, del 2009, in forza della quale l’indicazione del TAEG/ISC è prevista unicamente nel foglio informativo e nel documento di sintesi e non nel contratto (e, in base al par. 7 della medesima Sez. II, il documento di sintesi costituisce solo il frontespizio del contratto e ne è parte integrante solo in presenza di un accordo delle parti in tal senso): ciò che, unitamente a quanto in premessa, destituisce di ogni valenza interpretativa contraria la circostanza che la disciplina del 2003 imponesse l’indicazione dell’ISC anche nel contratto.