1. I fatti di causa
Con la sentenza in commento, le Sezioni Unite si pronunciano sulla controversa questione relativa alla natura del rapporto intercorrente tra la società e i propri amministratori e, quindi, se tale rapporto sia qualificabile come rapporto di lavoro autonomo, parasubordinato ovvero diversamente abbia natura di rapporto societario.
Nel merito, i fatti di causa riguardano il procedimento di espropriazione presso terzi promosso da una banca nei confronti del proprio debitore, nonché delle società presso le quali il medesimo rivestiva la carica di amministratore. Al fine di soddisfare le proprie pretese creditizie, la banca domandava l’assegnazione delle somme accantonate, dovute a titolo di compensi in ragione della carica di amministratore.
Il quesito di diritto che la Suprema Corte è chiamata ad affrontare riguarda quindi l’applicazione dei limiti di pignorabilità degli stipendi, di cui all’art. 545 c.p.c., anche ai compensi dovuti all’amministratore. Tale norma dispone che “le somme dovute da privati a titolo di stipendio, di salario […] possono essere pignorate nella misura di un quinto” e trova applicazione nei rapporti di lavoro di cui all’art. 409, comma 1, n. 3), c.p.c., che ricomprende, tra l’altro, i cosiddetti rapporti di parasubordinazione cioè gli “altri rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione di opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato”.
Come correttamente rileva la Suprema Corte, l’applicazione dei suddetti limiti di pignorabilità dipende dalla qualificazione del rapporto di amministrazione e, pertanto, là ove lo stesso possa essere ricompreso tra quelli di parasubordinazione, il compenso dovuto dall’amministratore potrà essere pignorato solo nella misura di un quinto, così come previsto dal richiamato art. 545 c.p.c. Contrariamente, qualora il rapporto di amministrazione non sia qualificabile tra quelli di cui al citato art. 409 c.p.c., il compenso potrebbe essere pignorato per l’intero.
La qualificazione del rapporto amministrativo è stata oggetto di costante dibattito giurisprudenziale sin da primi anni ‘50 del secolo scorso. Come di seguito si avrà modo di ricordare, oltre alla pronuncia in commento, si erano già espresse le Sezioni Unite nel 1994. Ciononostante, la dottrina e la giurisprudenza, anche di legittimità, hanno continuato ad esprimere un orientamento non unitario sino ad arrivare, oggi, a ricostruire il rapporto amministrativo secondo una categoria giuridica diversa rispetto al passato, ossia riconoscendo l’esistenza del cosiddetto rapporto societario.
2. Brevi cenni sulle teorie del rapporto di amministrazione
In dottrina possono distinguersi essenzialmente due orientamenti: il primo ritiene che il rapporto tra la società e l’amministratore abbia natura “organica”[1], e il secondo, invece, reputa che tale rapporto abbia natura “contrattuale”[2].
I sostenitori della teoria organica ritengono che gli amministratori siano un organo necessario della società e, come tale, non ne rappresenterebbero un centro d’interessi diverso. Non esisterebbe una dualità di soggetti in quanto l’amministratore è l’unico organo che rappresenta la società e ne esprime la volontà.
La parte di giurisprudenza di legittimità, che ha fatto propria questa teoria, ha altresì escluso che il rapporto di amministrazione possa essere ricondotto al rapporto contrattuale di lavoro subordinato o parasubordinato[3].
Invece, secondo la teoria contrattuale, l’incontro della volontà assembleare (tramite l’atto di nomina) e della volontà dell’amministratore (manifestata tramite l’accettazione) darebbe luogo ad un vero e proprio contratto consensuale e bilaterale, che avrebbe ad oggetto la prestazione da parte dell’amministratore di servizi e attività in favore della società in cambio della corresponsione di un compenso.
Il riconoscimento della natura contrattuale del rapporto di amministrazione però ha posto l’esigenza di qualificarlo. A tal riguardo, la parte più risalente della dottrina, come noto, lo ha ricondotto al contratto di mandato[4].
Superata la teoria del mandato, il rapporto di amministrazione è stato alternativamente ricondotto all’interno della cornice del contratto di lavoro subordinato, autonomoe, da ultimo, parasubordinato.
Una parte minoritaria e risalente della dottrina[5] ha ritenuto che l’amministratore presenterebbe tutti i caratteri propri della subordinazione[6]. L’amministratore, infatti, sarebbe un collaboratore dell’impresa che presta la propria attività lavorativa alle dipendenze e sotto la direzione dell’assemblea, la quale detiene – ai sensi dell’art. 2364 c.c. – il relativo potere di nomina e revoca.
D’altra parte, negli anni a seguire, si è ritenuto che il contratto di amministrazione fosse riconducibile al rapporto di lavoro autonomo, di cui all’art. 2222 c.c., in quanto concernente l’esercizio di prestazione d’opera professionale priva – per l’appunto – del requisito della subordinazione[7]. L’assemblea non avrebbe poteri direttivi o disciplinari e, comunque, non sarebbe in grado di manifestare una posizione di supremazia datoriale. Oltretutto, l’attività del lavoratore subordinato – a differenza di quella prestata dall’amministratore – non potrebbe essere offerta a titolo gratuito, così come sancito dall’art. 36 Cost.[8].
Parallelamente, le esigenze del mercato del lavoro hanno favorito, anche in altri ambiti professionali, l’emersione di nuove forme di prestazione lavorativa non riconducibili né al lavoro subordinato né al lavoro autonomo.
Ne conseguiva, agli inizi degli anni ‘70[9], un riconoscimento legislativo del cosiddetto rapporto di lavoro parasubordinato ovvero quel rapporto, ricompreso all’interno del lavoro autonomo, ma caratterizzato da una situazione di debolezza socioeconomica equiparabile a quella del lavoratore dipendente. Tale situazione di debolezza giustificava l’estensione delle tutele – sostanziali e processuali – previste dall’ordinamento per il lavoratore dipendente[10].
Infatti, il legislatore, con il citato art. 409 c.p.c.[11], estende l’applicabilità del rito del lavoro anche ai rapporti di parasubordinazione ossia “ai rapporti di agenzia e di rappresentanza commerciale e a tutti gli altri rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione d’opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato”.
Le prestazioni contrattuali dei rapporti di parasubordinazione non sono tipizzate dal legislatore nevvero è quello il fine dell’art. 409 c.p.c. che esclusivamente individua – non un nuovo tipo contrattuale – ma solo gli elementi essenziali del rapporto[12]. Dalla corretta interpretazione della norma si evince che gli elementi della parasubordinazione sono tre: la continuità, la coordinazione ed il carattere prevalentemente personale dell’opera prestata[13].
La continuità ricorre sia quando la prestazione è di lunga durata, sia quando non abbia carattere episodico o occasionale, come ad esempio quando si tratti di un’unica prestazione, richiedente un’attività prolungata[14]. Inoltre, secondo la giurisprudenza, non è necessario che la continuità sia stata convenzionalmente pattuita dalle parti, giacché ben potrebbe essere accertata ex post e nei fatti, in caso di reiterazione della prestazione[15].
Quanto al carattere della coordinazione, deve potersi riscontrare nel rapporto di lavoro un collegamento funzionale e operativo che deve concorrere al raggiungimento degli scopi del beneficiario della prestazione[16]. Detto collegamento negoziale, è stato chiarito dalla più recente dottrina, deve intendersi in senso verticistico in una soggezione del prestatore di lavoro alle direttive del preponente[17].
Infine, l’attività prestata, per essere compresa nella parasubordinazione, deve avere una natura prevalentemente personale ossia l’attività del prestatore dell’attività lavorativa deve prevalere sull’opera svolta dai suoi collaboratori[18]. Ne deriva che, secondo le più recenti pronunce delle corti di legittimità, non deve essere intesa quale parasubordinazione l’attività prestata in forma societaria[19] o l’attività prestata da un soggetto persona fisica ma parte di una complessa e rilevante organizzazione con la stabile collaborazione di una pluralità di operatori[20].
3. Le Sezioni Unite del 1994: un tentativo di nomofilachia
La questione circa la natura del rapporto tra amministrazione e società rileva innanzitutto ai fini dell’applicazione del rito ordinario o speciale alle controversie insorte tra le parti: infatti, solo la qualificazione di tale rapporto in termini di parasubordinazione comporta l’applicazione del citato art. 409 c.p.c. e, pertanto, del rito del lavoro.
La difficoltà di trovare una soluzione condivisa ha portato ad una notevole mole di pronunce giurisprudenziali, sia di legittimità che di merito, spesso anche in contrasto tra loro; nel 1994 le Sezioni Unite, con una celebre sentenza, hanno provato (ma senza successo) a dirimere tali contrasti.
In particolare, con la sentenza del 14 dicembre 1994 n. 10680, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione si sono favorevolmente espresse a favore della tesi che distingue due profili di rilevanza nel rapporto tra amministratore e società: un profilo esterno ed uno interno.
Il primo profilo – quello esterno – riguarda gli atti giuridici posti in essere dagli amministratori nell’esercizio delle relative funzioni gestorie e, quindi, direttamente imputabili alla società. Il primo profilo, evidentemente, trae origine dalla teoria organica e asserisce l’esistenza di un’immedesimazione organica tra la società e l’amministratore che la rappresenta.
Il secondo profilo, invece, attiene al rapporto obbligatorio che vincola direttamente l’amministratore e la società. In tale contesto emerge una necessaria dualità soggettiva tra l’amministratore e la società, i quali sono portatori di interessi divergenti e, pertanto, titolari di reciproci obblighi e diritti.
La diversità dei profili implicherebbe una diversità del rito applicabile a seconda della materia del contendere. Ne conseguirebbe che, ove la lite attenesse al profilo interno, troverebbero applicazione le norme per le controversie in materia di lavoro e, ai sensi dell’art. 413 c.p.c., sarebbe competente il tribunale in funzione di giudice del lavoro. Invece, le controversie attinenti al profilo esterno, non trovando applicazione l’art. 409 c.p.c., sarebbero di competenza del giudice ordinario.
Ai fini della propria opera interpretativa, gli argomenti utilizzati dalla Suprema Corte possono sintetizzarsi nei termini che seguono.
Innanzitutto, a dire della Suprema Corte, la qualificazione del rapporto amministrativo come parasubordinato non presuppone necessariamente una debolezza socioeconomica dell’amministratore rispetto alla società, giacché il legislatore non ha previsto espressamente tale elemento per la qualificazione dei rapporti di parasubordinazione. La Suprema Corte inoltre precisa che comunque la debolezza contrattuale – avendo un contenuto incerto e di natura sociologica – non potrebbe comunque essere considerata come presupposto per l’applicabilità del citato art. 409 c.p.c.
Nondimeno, l’esistenza di un’immedesimazione organica, tra amministratore e società, non ostacola l’instaurarsi di un rapporto di parasubordinazione poiché l’assenza di dualità soggettiva rileverebbe, come detto, soltanto nei confronti dei terzi. Il rapporto interno, invece, avrebbe “ad oggetto, da un lato, la prestazione di opera e, dall’altro lato, la corresponsione di un compenso” nonché i “risarcimenti, o [gli] indennizzi casualmente collegati alla detta prestazione”.
La Suprema Corte, inoltre, afferma – seppure in maniera apodittica – che le prestazioni dell’amministratore siano innegabilmente caratterizzate – ex art. 409, comma 1, n. 3), c.p.c. – dalla continuità, coordinazione e personalità.
In ragione dei suesposti argomenti, per quanto in questa sede rileva, viene espresso il principio per cui nei confronti dei terzi, tra amministrazione e società, esiste un’immedesimazione organica; tuttavia, internamente, ben sono configurabili rapporti di credito inerenti all’attività prestata dall’amministratore che deve ritenersi essere continua, coordinata e prevalentemente personale.
Tale pronuncia ha subito le più incisive critiche soprattutto in seguito al mutato assetto normativo di diritto societario di cui al d. lgs. 17 gennaio 2003, n. 6. Non si può quindi prescindere da un’analisi, nei suoi principi, di tale riforma.
4. La riforma del diritto societario e il ruolo dell’organo amministrativo
La riforma del 2003 ha profondamente innovato la disciplina del governo delle società di capitali rafforzando la centralità dell’organo amministrativo[21]. La scelta del legislatore di porre l’organo amministrativo al centro dell’organizzazione societaria trova la sua ratio nella volontà di contrastare l’eccessiva ingerenza dei soci di controllo nella gestione delle società soprattutto in un mercato, come quello italiano, caratterizzato da un’alta concentrazione del controllo[22]. La volontà dei soci di maggioranza trovava nei fatti voce sia sull’individuazione delle linee strategiche, sia sulla gestione ordinaria della società.
In aggiunta, è bene ricordare come il d.lgs. n. 168/2003 ha istituito le sezioni specializzate alle quali, per effetto delle modifiche legislative successive[23], sono state attribuite le cause e i procedimenti relativi a “rapporti societari, ivi compresi quelli concernenti l’accertamento, la costituzione, la modificazione o l’estinzione di un rapporto societario”.
Limitando l’oggetto della presente analisi al solo modello di amministrazione tradizionale[24], è opportuno far presente che la riforma ha, da un lato, abrogato alcuni riferimenti normativi (cfr. precedente art. 2364, n. 4, c.c.) che consentivano all’assemblea di deliberare su temi di gestione[25] e, dall’altro, stabilito il principio imperativo di esclusiva competenza gestionale dell’organo amministrativo[26].
Tale principio sembra essere “ridimensionato” nel contesto della disciplina della società a responsabilità limitata e dell’attività di direzione e coordinamento.
Più nello specifico, nella società a responsabilità limitata, i soci assumono un rilievo centrale all’interno dell’organizzazione societaria, pronunciandosi anche in merito al compimento di atti tipicamente gestionali[27]. Non è un caso, infatti, che sia prevista un’ipotesi di responsabilità dei soci che hanno intenzionalmente deciso o autorizzato il compimento di atti dannosi (cfr. art. 2476, comma 7, c.c.).
Il legislatore ha inteso dare ampia autonomia statutaria nell’attribuzione delle competenze e nella suddivisione dei ruoli all’interno della società a responsabilità limitata[28], fino ad ammettere, secondo alcuni autori[29], la possibilità per i soci di impartire direttive vincolanti o istruzioni. Tuttavia, si ritiene che l’organo amministrativo potrebbe (e anzi dovrebbe) non dare seguito alle decisioni dei soci, qualora le stesse siano contra legem[30]. In tali casi, non verrebbe meno, infatti, la responsabilità dell’organo amministrativo per gli atti gestionali eventualmente compiuti[31].
A ciò si aggiunga che la disciplina di direzione e coordinamento è stata introdotta allo scopo di regolare il fenomeno dei gruppi di società, prevedendo particolari ipotesi di responsabilità della capogruppo nel caso di abusivo esercizio del potere di direzione e coordinamento. Tale potere viene ricondotto all’”esercizio di una pluralità sistematica e costante di atti di indirizzo”[32], il cui scopo (perseguito dalla capogruppo) è quello di assicurare l’unità degli indirizzi gestionali tra le varie società eterodirette, al fine di realizzare le finalità del gruppo.
La direzione e coordinamento, comunque, non potrebbe implicare una privazione dell’autonomia gestionale delle società eterodirette[33], in quanto non viene meno il principio “cardine della distinta soggettività e della formale indipendenza giuridica delle società del gruppo”[34]. Ciò, tuttavia, non esonera l’organo amministrativo della società soggetta a direzione e coordinamento di dover tener conto delle direttive della capogruppo e dell’interesse di gruppo e addirittura di poter incorrere in responsabilità qualora non sia dato seguito alla direttiva ricevuta[35].
5. Le Sezione Unite del 2017 e la teoria del rapporto societario
Nonostante l’intervento (apparentemente) chiarificatore delle Sezioni Unite del 1994 la successiva giurisprudenza ha respinto la qualificazione del rapporto amministrativo quale rapporto di lavoro parasubordinato[36]; in particolare, una parte della giurisprudenza di legittimità ha recentemente ricondotto, anche alla luce della riforma del diritto societario del 2003, tale rapporto ad una nuova tipologia, quella del cosiddetto rapporto societario[37].
Preme innanzitutto precisare come la sentenza delle Sezioni Unite del 2017, in continuità con il precedente intervento, non esclude – anzi ribadisce – la coesistenza dei summenzionati profili (esterno ed interno) nel rapporto tra amministratore e società.
Differentemente da quanto espresso nel 1994, tuttavia, la Suprema Corte esclude con forza che il requisito della coordinazione (previsto dal citato art. 409 c.p.c.) possa essere ravvisabile nel rapporto amministrativo.
A tali conclusioni la Suprema Corte giunge in considerazione della riforma del 2003, e in particolare alla luce del già menzionato principio di esclusiva competenza nella gestione dell’impresa da parte dell’organo amministrativo.
Come si è già precisato, infatti, è stato innovato l’assetto di governo delle società, per via di una rigida e specifica distribuzione delle competenze, che ha visto compiutamente riconosciuta la centralità dell’amministratore quale unico titolare della gestione dell’impresa e “vero egemone dell’ente sociale”. L’amministratore – in tal senso – non potrebbe più subire l’ingerenza e direzione dell’assemblea negli atti di gestione elemento che da solo avrebbe consentito di ricostruire il rapporto amministrativo in termini di parasubordinazione.
Infine, la Suprema Corte critica l’argomento (sostenuto dal precedente arresto) per il quale la debolezza contrattuale non è, di per sé, un elemento della parasubordinazione. La Suprema Corte ritiene anzi che la debolezza contrattuale (rectius, soggezione economica) anche se non espressamente prevista dalla legge, riflette la vera ratio dell’estensione ai rapporti parasubordinati delle tutele del lavoro subordinato[38].
Non potendosi pertanto ricondurre – per le suddette ragioni – il rapporto amministratore-società al rapporto di parasubordinazione, resta alla Suprema Corte l’onere di individuare la corretta qualificazione del medesimo.
Ed è su questo punto che più si coglie il (netto) cambio di rotta.
Sotto questo punto di vista, infatti, le Sezioni Unite fanno propria una recente pronuncia della sesta sezione della Corte di Cassazione[39], che già aveva interpretato in maniera estensiva la nozione di rapporti societari (di cui all’art. 3 del d.lgs. 168/2003) ricomprendendo tutte le controversie che vedevano coinvolti i rapporti fra l’amministratore e la società “senza poter distinguere fra le controversie che riguardino l’agire degli amministratori nell’espletamento del rapporto organico ed i diritti che sulla base dell’eventuale contratto che la società e l’amministratore abbiano stipulato siano stati riconosciuti a titolo di compenso”.
Il rapporto tra amministratore e società, secondo il ragionamento della Suprema Corte, è già di per sé considerabile un autonomo rapporto che non necessita di riqualificazione in termini di subordinazione, parasubordinazione o di lavoro autonomo.
In sintesi, secondo la Suprema Corte, il rapporto amministrativo “è rapporto di società, perché serve ad assicurare l’agire della società”.
6. Alcune riflessioni conclusive a margine della Sezioni Unite del 2017
Le Sezioni Unite concludono, come detto, affermando che il rapporto amministrativo è di tipo societario. Le ragioni per cui non può dirsi che vi sia un rapporto di parasubordinazione – secondo la pronuncia in commento – sono, per un verso, l’esistenza di un’immedesimazione organica tra la persona fisica e l’ente e, per l’altro, l’assenza del requisito della coordinazione. Con riferimento al quesito di diritto posto, pertanto, è stato sancito il principio per cui “i compensi spettanti [agli amministratori] per le funzioni svolte in ambito societario sono pignorabili senza i limiti previsti dall’art. 545, comma quarto, c.p.c.”.
La pronuncia in commento lascia pochi dubbi in merito alla natura del rapporto tra amministratore e società. Tuttavia, ciò non esime dal sollevare – già in questa sede – alcune preliminari osservazioni.
Innanzitutto, sembra potersi ritenere che la sentenza in commento indirettamente si esprima in materia di competenza sulle controversie sorte tra gli amministratori e le società. Infatti, quale conseguenza alla pronuncia in commento, può ritenersi sancito il principio per cui le controversie inerenti al rapporto amministrativo di diritto societario non possono essere soggette al rito del lavoro ai sensi dell’all’art. 409, comma 1, n. 3), c.p.c. ma devono essere soggette al rito ordinario e devolute alle sezioni specializzate in materia di impresa ai sensi dell’art. 3 del d.lgs. 168/2003.
Inoltre, con precipuo riferimento all’assenza di coordinazione dell’assemblea nei confronti dell’organo amministrativo, si può osservare che certamente la riforma del diritto societario ha affermato il principio per il quale la gestione è di esclusiva competenza degli amministratori; d’altra parte, tuttavia, è stata riconosciuta la possibilità che la gestione sia influenzata o per lo meno influenzabile da altri soggetti (basti pensare alla rilevanza dei soci nelle società a responsabilità limitata).
Si deve tenere ulteriormente conto che il socio di controllo nelle società di medio-piccole dimensioni, ampiamente diffuse nel mercato italiano, assume in concreto una posizione di sensibile rilevanza nell’attività di impresa. L’amministratore si potrebbe quindi trovare così in una posizione di soggezione nei confronti dello stesso.
Conseguentemente, come autorevole dottrina ha rilevato[40], al rapporto formale tra la proprietà e l’organo amministrativo si potrebbe affiancare un informale rapporto fiduciario che si manifesterebbe in direttive confidenziali cui l’amministratore si adegua anche perché soggetto al potere di revoca dell’assemblea.
A tal riguardo, non si può escludere che tali direttive abbiano ad oggetto sia materie di gestione sia mansioni o attività generalmente attribuite ai dirigenti alle dipendenze della società.
In considerazione di quanto detto, soprattutto nelle realtà societarie dove nei fatti vi sia una confusione tra funzioni gestorie e attività tipicamente dirigenziali, potrebbe essere ravvisato il requisito della coordinazione. Sotto questo punto di vista è la stessa sentenza che riconosce la possibilità che sia costituito a latere del rapporto di amministrazione “un autonomo, parallelo e diverso rapporto che assuma, secondo accertamento esclusivo del giudice di merito, le caratteristiche di un rapporto subordinato, parasubordinato o d’opera”.
Infine, nonostante il fondato iter logico seguito dalle Sezioni Unite, la disciplina applicabile al rapporto societario rimane dubbia in quanto il richiamo all’art. 3 del d.lgs. 168/2003 non può ritenersi soddisfacente. Pertanto, sarà compito dell’interprete individuare quali possano essere le norme applicabili.
La conclusione per cui il rapporto amministrativo sia di tipo societario non deve, a parer di chi scrive, comportare l’inapplicabilità assoluta delle norme generali sul contratto al rapporto tra amministratore e società; fermo restando comunque che la prestazione tipica del rapporto amministrativo relativa all’attività gestoria troverà la sua fonte nella legge. Ciò non osta, tuttavia, all’applicazione in via sussidiaria delle norme sul contratto ad esempio quando le parti – società e amministratore – siano vincolate dai patti conosciuti e diffusi nella prassi come accordi di management,ossia quei patti tra la società e l’amministratore aventi ad oggetto la prestazione dell’attività amministrativa e le pattuizioni di dettaglio inerenti agli obblighi applicabili in concomitanza del rapporto amministrativo nonché al cessare della carica.
Il ruolo che la prassi ha riconosciuto agli accordi di management è di evidente importanza. Si consideri come, generalmente, mediante tali accordi sia disciplinata, inter alia, la nomina e la conferma alla scadenza del mandato dell’amministratore, le ipotesi di giusta causa di revoca, gli obblighi di non concorrenza e confidenzialità dell’amministratore, la durata e il corrispettivo di tali ultimi obblighi nonché ipotesi di piani di remunerazione parametrati al raggiungimento degli obiettivi. Gli accordi di management – così come i patti parasociali già espressamente previsti dagli artt. 2341 bis e 2341 ter c.c. – potrebbero considerarsi soggetti alla disciplina generale del contratto, nei limiti di compatibilità con le rilevanti norme societarie. Si potrebbe infatti distinguere tra gli aspetti del rapporto societario, così come individuato dalla Suprema Corte, e quelli inerenti gli elementi accessori e ancillari dello stesso.
Per concludere, a seguito della sentenza delle Sezioni Unite, sarà senz’altro necessario interrogarsi sulla validità degli accordi di management, i quali, a parer di chi scrive, potrebbero comunque conservare, in virtù del principio di autonomia contrattuale di cui all’art. 1322 c.c., una utilità e validità almeno per quanto concerne gli elementi ancillari del rapporto tra amministratore e società. Anzi, in termini strettamente economici e non giuridici, la relativa diffusione, dovrebbe essere favorita in quanto potrebbe apportare anche evidenti benefici. A tale ultimo riguardo, si consideri a titolo esemplificativo come si sia assistito negli ultimi anni a valorizzare nel contesto delle società quotate e di alcuni soggetti vigilati l’importanza della corresponsione di compensi parametrati al raggiungimento di obiettivi di business determinati, e ciò sul presupposto che tali sistemi comportino una maggiore efficienza nella gestione in un’ottica di lungo periodo.
[1] Ferri, Le società, in Trattato Vassalli, Torino, 1987, 674; Figone, Sub 2389, in Codice commentato delle nuove società,(a cura di) Bonfante – Corapi – Marziale – Rordorf – Salafia, Milano, 2004, 425; Franzoni, Sub 2380 bis, Dell’amministrazione e del controllo, in Commentario del Codice Civile Scialoja – Branca, (a cura di) Galgano, Bologna – Roma, 2008, 9; Galgano, Trattato di diritto civile, Padova, 2014, 423 ss.
[2] Minervini, Gli amministratori di società per azioni, Milano, 1956, 71 ss.; Di Sabato, Manuale delle Società, Torino, 1999, 271; Toffoletto, Amministrazione e controlli, in Diritto delle società di capitali, 2003, 131; Jaeger – Denozza – Toffoletto,Appunti di diritto commerciale, Impresa e Società, Milano, 2010, 379; Spada, Preposizione e assunzione dell’amministratore di società per azioni, in La remunerazione degli amministratori nelle società di capitali, (a cura di) Amatucci, Milano,2010, 60.
[3] Con specifico riferimento all’amministratore delegato e all’amministratore unico v. Cass. Civ., 23 agosto 1991, n. 9076; Cass. Civ., 13 aprile 1991, n. 3980; Cass. Civ., 19 settembre 1991, n. 9788. Più in generale, in tema di amministratore di società cooperativa a responsabilità limitata v. Cass. Civ., 26 febbraio 2002, n. 2861. Nel senso che il rapporto tra amministratore e società non può essere ricondotto – in ragione della immedesimazione organica – al contratto d’opera, intellettuale o non intellettuale v. Cass. Civ., 17 ottobre 2014, n. 22046; Cass. Civ., 11 febbraio 2016, n. 2759.
[4] La concezione del rapporto di amministrazione come mandato ha trovato il suo primo fondamento nel codice di commercio del 1882, sia per espressa previsione letterale, sia per le limitazioni imposte all’agire degli amministratori e per la riflessa sovranità dell’assemblea. Cfr. De Santis, Remunerazione degli amministratori e governance della società per azioni, Padova, 2011, 9, il quale richiama Santoro Passarelli, Il lavoro «parasubordinato», Milano, 1979, 154. Tale teoria sembrava essere stata recepita dal legislatore del ‘42 nel codice civile all’art. 2392, ai sensi del quale “gli amministratori devono adempiere i doveri ad essi imposti […]con la diligenza del mandatario”. Successivamente, tale teoria è stata definitivamente abbondonata anche alla luce della riforma del diritto delle società del 2003, che ha sostituito il criterio della diligenza del mandatario con il criterio della “diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze”. Contro la possibilità di ricondurre il rapporto di amministrazione al contratto di mandato in quanto costituirebbe un rapporto tipico non riconducibile in alcun diverso tipo contrattuale v. Campobasso, Diritto Commerciale, vol. 2, Diritto delle Società, Milano, 2015, 356; Jaeger – Denozza – Toffoletto,op. cit. (nt. 1), 351; De Santis, op. cit., (nt. 4), 26.
[5] Si tratta di una concezione risalente nel tempo ad Ascarelli, Appunti di diritto commerciale, Società e associazioni commerciali, Roma, 1936, 150 ss. In tal senso cfr. anche Caiafa, Ancora sull’applicabilità della legge 11 agosto 1973 n. 533 agli amministratori di società, in Giurisprudenza di merito, 1979, 842 ss.
[6] Si riporta per comodità l’art. 2094 c.c., ove si individua la nozione di lavoratore subordinato in colui che: “si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore”.
[7] V. in tal senso Cass. Civ., 26 febbraio 2002, n. 2861; Cass. Civ., 1º aprile 2009, n. 7961; Cass. Civ., 13 novembre 2012,n. 19714.
[8] De Santis, op. cit. (nt. 4), 17.
[9] V. per una ricostruzione del tema Carinci – Tamajo – Tosi – Treu, Diritto del Lavoro, Il rapporto di lavoro subordinato, vol. 2, Torino, 2005, 31. Per approfondimenti si veda De Angelis, Sub art. 409, in Commentario Breve al Codice di Procedura Civile, (a cura di) Carpi – Taruffo, Padova, 2015, 1587 ss.
[10] Perulli, Il lavoro autonomo, in Trattato di Diritto Civile e Commerciale, (diretto da) Cicu – Messineo – Mengoni, Milano, 1996, 215.
[11] L’art. 409, comma 1, n. 3) c.p.c. è stato introdotto dalla Legge 11 agosto 1973, n. 533 di riforma del processo del lavoro. Oggi, la fattispecie delle collaborazioni coordinate e continuative non è più prevista esclusivamente dall’art. 409, comma 1, n. 3) c.p.c. ma è stata oggetto di diversi interventi legislativi di natura fiscale e previdenziale v. Carinci – Tamajo – Tosi – Treu, (nt. 9), 31.
[12] Santoro – Passarelli, I rapporti di collaborazione organizzati dal committente e le collaborazioni continuative e coordinate ex art. 409, n. 3, cod. proc. civ., in Argomenti di Diritto del Lavoro, 2015, 6, 1133.
[13] Cass. Civ., 9 febbraio 2009, n. 3113.
[14] Cass. Civ., 9 marzo 2001, n. 3485; Cass. Civ., 19 aprile 2002, n. 5698. Nel senso che la prestazione può anche essere unica, purché richiedente un’attività prolungata che comporti una relazione tra le parti ulteriore rispetto al momento di accettazione dell’opera e di versamento del corrispettivo v. Cass. Civ., 30 dicembre 1999, n. 14722.
[15] Cass. Civ., 23 dicembre 2004, n. 23897.
[16] Cass. Civ., 22 novembre 1985, n. 5805; Cass. Civ., 15 ottobre 1986, n. 6053; Cass. Civ., 30 dicembre 1999, n. 14722; Cass. Civ., 19 aprile 2002, n. 5698; Cass. Civ., 06 maggio 2004, n. 8598.
[17] Luiso, Il processo del lavoro, Torino, 1992, 22; Proto Pisani, Controversie individuali di lavoro, Torino, 1993, 39; Vullo, Sub art. 409, in Commentario al codice di procedura civile, (a cura di) Comoglio – Consolo – Sassani – Vaccarella, Torino, 2014, 302.
[18] Cass. Civ., 7 dicembre 1984, n. 6456; Cass. Civ., 22 aprile 1986, n. 2843; Cass. Civ., 9 settembre 1995, n. 9550; Cass. Civ., 9 marzo 2001, n. 3485; Cass. Civ., 19 aprile 2002, n. 5698.
[19] Cass. Civ., 28 dicembre 2006, n. 27576; Cass. Civ., 21 aprile 2011, n. 9273. In tema di contratto di agenzia v. Cass. Civ., 11 febbraio 1982 n. 836.
[20] Vullo, op. cit. (nt. 17), 302, ove viene richiamato il principio espresso da Cass. Civ., 29 novembre 2002, n. 16993.
[21] La stessa legge delega all’art. 4, comma 8, prevedeva che le competenze dell’organo amministrativo sarebbero state definite con riferimento all’esclusiva responsabilità di gestione dell’impresa sociale.
[22] Cfr. in tal senso Malberti – Ghezzi – Ventoruzzo, Sub art.2380, in Commentario alla riforma delle società, (diretto da) Marchetti – Bianchi – Ghezzi – Notari, Milano, 2005, 9.
[23] V. D.L. 24 gennaio 2012 n. 1, convertito in L. 24 marzo 2012 n. 27.
[24] L’utilizzo dei sistemi di amministrazione dualistico e monistico è stato molto limitato tanto nelle società quotate quanto in quelle non quotate; per i dati statistici v. Alvaro – Eramo – Gasparri, Quaderni giuridici Consob, Modelli di amministrazione e controllo nelle società quotate, n. 7, 2015. Le ragioni di tale “rifiuto” sono da un lato riconducibili a ragioni culturali del nostro paese (gli Autori fanno riferimento ad “un generale atteggiamento di prudenza dell’imprenditore (oltre che una sorta di resistenza culturale), tale per cui lo stesso, prima di adottare “nuovi” modelli di governance, sarebbe stato indotto ad attenderne l’adozione da parte di altri prima di lui”) e, dall’altro, ad una mancanza di un corpus normativo ben delineato, che è infatti caratterizzato più che altro da numerosi rinvii al sistema tradizionale.
[25] Cass. Civ., 25 febbraio 1992, n. 2330, in vigenza della vecchia normativa, si esprimeva nei seguenti termini sui poteri dell’assemblea: “l’assemblea dei soci […] può eccezionalmente deliberare in ordine ai singoli atti di gestione, oltre che quando ciò sia espressamente stabilito nell’atto costitutivo […], anche nelle ipotesi in cui l’organo amministrativo devolva spontaneamente ad essa ogni decisione su questi atti”. Il nuovo art. 2364, comma 1, n. 5, c.c. prevede soltanto che l’assemblea può essere chiamata “a deliberare sulle autorizzazioni eventualmente richieste dallo statuto per il compimento di atti degli amministratori”; in questo senso parla di una deminutio dei poteri dell’assemblea rispetto alla normativa previgente Bertolotti, Le competenze, in Diritto Commerciale, Assemblee e amministratori, (a cura di) Cavalli – Bertolotti – Spiotta, Torino, 2013, 4 ss., anche se, secondo l’Autore, l’assemblea conserva anche oggi il ruolo di decisore di ultima istanza, almeno quando sia presente una salda maggioranza di controllo, “tale da consentire di fatto ai soci di condizionare in modo netto la gestione”.
[26] Campobasso, op. cit. (nt. 4), 356 ss.; rimandando a studi approfonditi sul tema (cfr. Pinto, Sub art. 2380 – bis, in Le Società per Azioni, (diretto da) Abbadessa – Portale, Milano, 2016, 1167 ss., ove ampia bibliografia), ci si limita in questa sede a rilevare che già il nuovo art. 2380 bis c.c. letteralmente prevede che: “la gestione dell’impresa spetta esclusivamente agli amministratori […]”. Inoltre, l’art. 2384, comma 1, c.c., stabilisce che “il potere di rappresentanza attribuito agli amministratori dallo statuto o dalla deliberazione di nomina è generale”.
[27] L’art. 2479, comma 1, c.c. prevede che “i soci decidono sulle materie riservate alla loro competenza dall’atto costitutivo, nonché sugli argomenti [sottoposti] alla loro approvazione”. Al comma 2, n. 5), del medesimo articolo, è inoltre attribuito in via inderogabile ai soci “la decisione di compiere operazioni che comportano una sostanziale modificazione dell’oggetto sociale determinato nell’atto costitutivo o una rilevante modificazione dei diritti dei soci”. La rilevanza dei soci, anche su profili prettamente gestionali si ricava inoltre a contrario dall’art. 2475, comma 5, c.c. che riserva esclusivamente all’organo amministrativo la redazione del progetto di bilancio e dei progetti di fusione e scissione, nonché le decisioni di aumento del capitale.
[28] La stessa legge delega all’art. 3, comma 2, lett. e), prevedeva il riconoscimento di un’ampia “autonomia statutaria riguardo alle strutture organizzative, ai procedimenti decisionali della società e agli strumenti di tutela degli interessi dei soci, con particolare riferimento alle azioni di responsabilità”.
[29] Zanarone, Introduzione alla nuova società a responsabilità limitata, in Rivista delle Società, 2003, 58 ss.; cfr. inoltre Morandi, Sub art. 2475, in Commentario Breve al Diritto delle Società, (diretto da) Maffei Alberti, Padova, 2016, 1350, ove più ampia bibliografia.
[30] Cfr. De Paoli, Sub art. 2479, in Commentario alla riforma delle società, (diretto da) Marchetti – Bianchi – Ghezzi – Notari, Milano, 2005, 9; per una sintesi sul dibattito v. Meli, Commento a Tribunale Salerno del 9 marzo 2010, in Le Società, 2010, 1460 ss., ove più ampia bibliografia.
[31] Cfr. Massima I.C.5. del Comitato Interregionale dei Consigli Notarili del Triveneto: “Ai sensi dell’art. 2479 c.c. è possibile che l’atto costitutivo riservi alla competenza dei soci tanto il potere di dare autorizzazioni all’organo amministrativo per il compimento di atti di amministrazione, quanto quello di adottare direttamente decisioni riguardanti l’amministrazione. In quest’ultimo caso è opportuno che la clausola che attribuisce tale competenza preveda espressamente il diritto degli amministratori di manifestare il loro eventuale dissenso rispetto alla decisione, al fine di evitare la responsabilità solidale ex art. 2476, comma 7, c.c., nonché la facoltà di non eseguirla qualora il dissenso sia manifestato non da singoli amministratori ma dall’organo amministrativo”. Nello stesso senso in giurisprudenza v. Tribunale Milano, 9 ottobre 2008. Cfr. inoltre Meli, (nt. 30), 1462: “[…] agli amministratori non potrebbe essere negato un potere-dovere di rifiutare l’esecuzione delle delibere che essi ritengano potenziale fonte di loro responsabilità” e ciò in ragione del fatto che “la responsabilità dei soci è costruita come accessoria a quella degli amministratori e non può, dunque, che intervenire laddove emerga un profilo di responsabilità di questi ultimi”.
[32] Montalenti, Direzione e coordinamento nei gruppi societari: principi e problemi, in Rivista delle Società, 2007, 317. Santagata, Autonomia privata e formazione dei gruppi nelle società di capitali, in Il nuovo diritto delle società, Liber amicorum Campobasso, (diretto da) Abbadessa – Portale, Tomo III, Torino, 2007, 799 ss. Per una visione generale si veda Valzer, Sub art. 2497, in Le Società per Azioni (diretto da) Portale – Abbadessa, Milano, 2016, 3011. V. anche Tribunale di Milano, 23 aprile 2008, in Le Società, 2009, 78 ss., con commento di Fico: “il nuovo art. 2497 c.c. […]mostra di fare riferimento ad un esercizio attivo di funzioni di direzione e coordinamento, secondo condotta intenzionalmente orientata (nell’interesse proprio o altrui), all’interno di uno schema che prevede dunque una “influenza” attiva sulla vita della controllata consapevolmente esercitata dalla capogruppo”.
[33] Dal Soglio, Sub art. 2497, in Commentario Breve al Diritto delle Società, (diretto da) Maffei Alberti, Padova, 2016, 1546. Cfr. inoltre Sbisà, Sub art. 2497, commi 1-2, inCommentario alla riforma delle società, (diretto da) Marchetti – Bianchi – Ghezzi – Notari, Milano, 2005, 14, ove più ampia bibliografia e giurisprudenza. È stato tuttavia autorevolmente sostenuto che la capogruppo possa “ingerirsi nella gestione ordinaria della controllata”, cfr. Tombari, Poteri e doveri dell’organo amministrativo di una s.p.a. di gruppo tra disciplina legale e autonomia privata, in Rivista delle Società, 2009, 122 ss.
[34] La citazione letterale è di Campobasso, op. cit. (nt. 4), 295.
[35] Valzer, Il potere di direzione e coordinamento di società tra fatto e contratto, in Il nuovo diritto delle società, Liber amicorum Gian Franco Campobasso, (diretto da) Abbadessa – Portale, Tomo III, Torino, 2007, 833. Tale affermazione è stata recentemente ribadita dallo stesso Autore, cfr. (nt. 32), 3011.
[36] È stata escluso il rapporto di subordinazione nel caso in cui il consiglio abbia delegato in via generale uno specifico amministratore, anche con particolare riferimento alla gestione del personale, cosicché l’amministratore delegato “eserciti in concreto i poteri di controllo, comando o disciplina tipici del datore di lavoro” (v. Cass. Civ. 6 aprile 1998, n. 3527); si veda inoltre Collia, Natura del rapporto tra amministratore delegato e società, commento a Tribunale Bologna, 4 luglio 2002, in Le Società, 2003, 1140 ss; in commento alla stessa sentenza si veda Navilli, Amministratore e Società di capitali, in Il Lavoro nella giurisprudenza, 2003, 860 ss. Si rinvia per una dettagliata rassegna giurisprudenziale ad Abriani – Montalenti, L’amministrazione: vicende del rapporto, poteri, deleghe e invalidità delle deliberazioni, in Trattato di Diritto Commerciale, (diretto da) Cottino, Vol. IV, Padova, 2010, 577; è stata altresì esclusa la subordinazione tra amministratore e società nel caso di amministratore unico (Cass. Civ., 29 maggio 1998, n. 5352) oppure nel caso di un Presidente del Consiglio di Amministrazione investito di tutti i poteri di ordinaria e straordinaria amministrazione (Cass. Civ., 19 maggio 2008, n. 12630) e ciò in quanto non poteva configurarsi alcuna subordinazione nel caso in cui venga attribuito il potere esclusivo della gestione della società, in quanto verrebbero meno l’elemento del coordinamento, cioè dell’assoggettamento all’altrui potere direttivo.
[37] Cass. Civ., 9 luglio 2015, n. 14369, ove viene rilevato che: “La formulazione del D.Lgs. n. 168 del 2003, art. 3, comma 2, lett. a), là dove fa riferimento all’esistenza della competenza delle Sezioni Specializzate in materia di impresa sulle cause e i procedimenti relativi a rapporti societari ivi compresi quelli concernenti l’accertamento, la costituzione, la modificazione o l’estinzione di un rapporto societario, con l’ampio riferimento ai rapporti societari si presta tipicamente a ricomprendere, quale specie di questi, il rapporto fra l’amministratore e la società”. La sentenza è stata commentata da Farina, in Le Società, 2016, 599 ss.
[38] V. in generale De Angelis, (nt. 9), 1597.
[39] Cfr. (nt. 37).
[40] Galgano, Il gruppo nei rapporti interni, in Trattato di Diritto Civile, Vol. IV, Padova, 2014, 860.