[*]SOMMARIO: Mentre si guarda al futuro del Testo Unico Bancario, occorre ricordare che esso rappresenta l’esito della complessa evoluzione dell’ordinamento del credito, costituendo il frutto di un’opera di razionalizzazione di una vasta congerie di testi normativi stratificatisi nel tempo. Le indagini intorno alle ragioni che ne animano la disciplina speciale paiono non poter prescindere dalla preliminare disamina di fatti e contesto che hanno concorso a determinare l’odierna configurazione delle regole proprie dell’attività bancaria e degli enti che la esercitano. Il presente contributo si propone di tracciare una sintetica ricostruzione dell’evoluzione storica dell’apparato normativo – per come nel tempo interpretato da dottrina e giurisprudenza – del sistema bancario italiano e in special modo dell’evoluzione della nozione di banca, in guisa di appendice alle riflessioni sul suo avvenire, rinvenendosi nelle pieghe della storia le ragioni ed i principi (in senso e logico e cronologico) dell’assetto attuale dell’ordinamento bancario. La storia concorre invero a definire il rapporto intercorrente tra attività bancaria e statuto speciale dell’impresa bancaria, e lo studio della stessa appare funzionale a una consapevole impostazione dei problemi interpretativi tuttora aperti, tra cui quello di vertice relativo all’inquadramento della natura dell’attività bancaria, pur a fronte della testuale predicazione del carattere d’impresa della medesima.
ABSTRACT: As we look to the future of the Consolidated Banking Act, it should be recalled that it represents the outcome of the complex evolution of the credit system, constituting the result of a rationalisation of a vast assortment of regulatory texts stratified over time. Studies on the reasons that inspire the special banking legislation cannot prescind from a preliminary examination of the facts and context that have contributed to determining the actual configuration of the rules governing banking activity and the entities that exercise it. The purpose of this contribution is to synthetically reconstruct the historical evolution of the regulations of the Italian banking system, and in particular the evolution of the notion of bank, as an appendix to the discussions on its future, finding in history the reasons and principles of the current structure of the banking system. Indeed, history contributes to defining the relationship between banking activity and the special regulations of the banking enterprise, and the study of history appears to be functional to a conscious formulation of the interpretative problems that are still open, including the key one concerning the nature of banking activity.
1. Premessa
Nel celebrare il trentennale dell’emanazione del t.u.b. lo sguardo di molti studiosi si è protratto al futuro dell’ordinamento bancario, al cospetto, in particolare, dell’evolvere del processo d’integrazione europea, degli sviluppi dell’innovazione tecnologica e dell’avanzata della normazione in tema di sostenibilità e di ESG[1]; nell’occasione non si è comunque mancato di rimarcare la «semplificazione normativa senza precedenti» determinata dal t.u.b.[2], un’opera di razionalizzazione di una vasta congerie di testi normativi stratificatisi nel tempo il cui calibro è restituito all’art. 161 t.u.b., ove si enumerano tutti i provvedimenti abrogati dal Testo unico stesso.
Se oggi il Testo unico rappresenta un punto di partenza, esso rimane infatti a un tempo l’esito della complessa evoluzione dell’ordinamento del credito, sì che ogni indagine intorno alle ragioni che ne animano la disciplina speciale pare non poter prescindere dalla preliminare disamina di fatti e contesto che hanno concorso a determinare l’odierna configurazione delle regole proprie dell’attività bancaria e degli enti che la esercitano.
L’intento delle pagine che seguono è di tracciare una sintetica ricostruzione dell’evoluzione storica dell’apparato normativo – per come nel tempo interpretato da dottrina e giurisprudenza – del sistema bancario italiano[3] e in special modo dell’evoluzione della nozione di banca, in guisa di appendice alle riflessioni sul suo avvenire, rinvenendosi nelle pieghe della storia le ragioni ed i principi (in senso e logico e cronologico) dell’assetto attuale dell’ordinamento bancario. La storia concorre invero a definire il rapporto intercorrente tra attività bancaria e statuto speciale dell’impresa bancaria, e lo studio della stessa appare funzionale a una consapevole impostazione dei problemi interpretativi tuttora aperti, tra cui quello di vertice relativo all’inquadramento della natura dell’attività bancaria, pur a fronte della testuale predicazione del carattere d’impresa della medesima.
L’excursus dei rilevanti referenti normativi della legislazione bancaria verrà sezionato[4] in quattro periodi contrassegnati ciascuno dal vigore di una diversa regolamentazione di sistema: i) la prima fase abbraccia il finire dell’Ottocento e i primi due decenni del Novecento, e ha sullo sfondo la vigenza del Codice di commercio del 1882 e di discipline organiche speciali di determinate categorie di soggetti bancari; ii) il secondo periodo è segnato dai “Provvedimenti per la tutela del risparmio” del 1926, formanti il primo corpus normativo organico dedicato al sistema bancario; iii) il terzo periodo ha inizio con l’emanazione della legge bancaria del 1936-1938, e corrisponde a un arco temporale di circa mezzo secolo in cui l’ordinamento bancario italiano è principalmente impiantato sulla predetta legge; iv) la quarta fase prende avvio a metà degli anni Ottanta, col recepimento della prima direttiva comunitaria in materia bancaria, e vede il suo culmine con l’emanazione del t.u.b.
Può anticiparsi sin d’ora che dall’analisi storica emerge come l’impulso alla produzione normativa nel settore dell’intermediazione creditizia provenga sovente dal manifestarsi di eventi (o periodi) di crisi, riguardanti singoli enti creditizi ovvero il sistema bancario nel suo complesso[5]; se momenti congiunturali di crisi hanno occasionato più d’una riorganizzazione sistematica della disciplina bancaria, non sorprende che una consistente parte delle riforme in parola sia dedicata alla prevenzione e gestione degli eventi di default. Peraltro, il legame intercorrente fra crisi e regolazione dell’impresa bancaria, ponendosi storicamente alla base di molteplici rilevanti opzioni normative di settore, può per ciò stesso costituire elemento utile a meglio comporre un canone ermeneutico delle medesime, che tenga in debita considerazione l’intentio legislatoris quale ratio storica della regola.
2. L’attività bancaria quale ordinaria attività d’impresa nel Codice di commercio del 1882
Sul finire dell’Ottocento e durante il primo quarto del Ventesimo secolo quella esercitata dai banchieri veniva considerata dal legislatore alla stregua di una “ordinaria” attività commerciale, rientrante nel novero delle attività d’impresa di diritto comune, con conseguente assoggettamento dei banchieri medesimi alla disciplina applicabile a tutti gli imprenditori.
Nell’ambito di un sistema eminentemente liberale, aderente a teorie economiche essenzialmente liberistiche e dunque tendente a limitare al minimo l’ingerenza statale nei confronti degli esercenti attività commerciali e finanziarie, qual era quello italiano[6], le imprese bancarie, lungi dall’essere assoggettate ad uno statuto speciale – fatte salve le pur rilevanti eccezioni di cui si dirà infra –, erano disciplinate nel Codice di commercio del 1882, che, peraltro, specificamente a quelle imprese dedicava sparute disposizioni, quali, segnatamente:
i) l’art. 3 (di apertura del Titolo II, dedicato agli “atti di commercio”), comma 1, n. 10, giusta il laconico disposto del quale “le operazioni di Banca” venivano qualificate come “atti di commercio”[7];
ii) l’art. 176, ai cui sensi le società aventi «per principale oggetto l’esercizio del credito» erano tenute a compilare e depositare presso il Tribunale di commercio le loro situazioni mensili, esposte secondo un modello predisposto dal Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio.
Tale ultima prescrizione, di rafforzata trasparenza in ordine alla contabilità, rappresentava l’unico obbligo ulteriore rispetto a quelli gravanti sulle imprese esercenti altre attività, difettando una speciale regolazione dell’attività bancaria quando non esercitata in concomitanza con l’attività di emissione di biglietti di banca, non avendo lo Stato competenze autorizzatorie in ordine alla costituzione delle banche[8] né poteri di vigilanza sulle medesime, come chiarito dal Consiglio di Stato[9].
Dal combinato del primo dei menzionati disposti con quello di cui all’art. 7 del medesimo Codice – in forza del quale ultimo venivano considerati commercianti, oltre alle società commerciali, coloro che esercitavano atti di commercio per professione abituale – discendeva la qualifica di commerciante “di diritto comune” in capo al soggetto esercente per professione abituale operazioni di banca[10], con conseguente applicazione del relativo statuto configurato dal Codice di commercio stesso.
Occorre, tuttavia, precisare che l’ordinamento delle banche non si esauriva nelle esigue disposizioni testé menzionate; esso era, piuttosto, caratterizzato da pluralismo e segmentazione, risultanti da un’articolata varietà di discipline organiche speciali di determinate categorie di soggetti bancari, differenziate tra loro in ragione a) del rispettivo modulo operativo, e, in specie, dell’esercizio di particolari attività e/o del peculiare tipo di credito erogato, o b) delle pertinenti caratteristiche soggettive sub specie di qualificazione istituzionale correlata al modello statutario adottato.
Senza volere in questa sede ricostruire un’esauriente tassonomia analitica degli enti de quibus e del relativo statuto speciale, merita comunque, ai fini della comprensione del contesto ordinamentale d’insieme, passare in agile rassegna i tratti fondamentali dei principali tra essi.
In base al criterio differenziale del tipo di credito erogato, dalle banche “ordinarie” si distinguevano a) le banche e gli istituti di credito agrario[11], b) gli istituti di credito fondiario[12], c) il Consorzio di credito per le opere pubbliche[13], d) l’Istituto di credito per le imprese di pubblica utilità[14], ed e) il Consorzio per sovvenzioni su valori industriali[15]: le normative speciali emanate in relazione ai summenzionati enti, complessivamente considerate e al netto delle peculiari sfaccettature di ciascuna, miravano a conciliare l’interesse dei risparmiatori con quello dei richiedenti finanziamenti a medio-lungo termine, e a tal fine condividevano alcuni tratti essenziali derogatori del diritto comune, volti in sostanza ad assicurare stabilità e liquidità dell’ente, quali, segnatamente, la previsione di assetti organizzativi tesi a ridurre il rischio per i risparmiatori, la fissazione di limiti in ordine alle attività esercitabili da parte degli istituti medesimi (i.e. delimitazione dell’ambito settoriale e/o territoriale degli impieghi), l’attribuzione di privilegi (e sostanziali e processuali) funzionali alla miglior tutela e soddisfazione dei crediti degli enti[16]. Vale anche segnalare che gli istituti menzionati erano, in gran parte, enti pubblici imprenditori, soggetti ad autorizzazione e controllo sulla gestione da parte dell’autorità governativa.
Quelli appena indicati rappresentano elementi di speciale interesse, dacché testimoniano come, già in tempi risalenti, il regolatore avvertisse, a tutela d’interessi alieni rispetto a quelli propri degli enti bancari individualmente considerati, le esigenze, da un lato, di scongiurare il dissesto di alcune tipologie di banche (con l’imposizione di speciali requisiti di liquidità degli attivi e con la sottoposizione ad autorizzazione e controllo sulla gestione) e, dall’altro lato, di funzionalizzarne l’attività, indirizzandola al sostegno di specifici comparti dell’economia (emblematici, in tal senso, sono gli esempi dell’Istituto di credito per le imprese di pubblica utilità e del Consorzio per sovvenzioni su valori industriali).
Esaminando il panorama degli enti creditizi alla stregua del criterio discretivo dell’esercizio di particolari attività, viene anzitutto in rilievo l’art. 170, comma 3, del Codice del 1882, ai sensi del quale l’emissione di biglietti di banca, o di titoli equivalenti, era regolata da leggi speciali, disciplinanti i cc.dd. “Istituti (o banche) di emissione”.
Nel periodo che va dall’Unità sino al 1936, ad alcune imprese bancarie[17] era stata dall’esecutivo accordata (o confermata, ove già concessa dagli Stati preunitari) l’autorizzazione ad emettere biglietti di banca (anche detti “banconote” o “cartamoneta”), ossia titoli di credito al portatore nei quali era incorporato il diritto di riscuotere l’ammontare di moneta avente corso legale indicato sui biglietti medesimi. Ai biglietti emessi da talune banche venne poi attribuito corso forzoso[18].
In considerazione e della delicatezza degli interessi coinvolti dall’attività in questione e della rilevante entità rivestita dal fenomeno dal punto di vista macroeconomico[19], gli Istituti di emissione vennero sin dall’origine assoggettati ad un controllo governativo esplicantesi sull’intera attività d’impresa svolta dagli Istituti e al rispetto di determinati requisiti che – per servirsi della nomenclatura odierna – potrebbero definirsi come coefficienti prudenziali di patrimonializzazione[20]. Norme tese, in buona sostanza, a garantire la solvibilità delle banche di emissione e, dunque, la fiducia del pubblico nel sistema dei pagamenti.
Sebbene l’assoggettamento degli Istituti di emissione al rispetto di determinati requisiti di patrimonializzazione e a controlli sulla gestione possa oggi apparire regime in certa misura scontato e (se non obbligato, quantomeno) senz’altro legittimo, deve tenersi presente che – perlomeno nel periodo antecedente all’introduzione del corso forzoso di alcuni biglietti – le scelte normative in parola erano al centro di dispute accademiche e di contrasti politici. Nella specie, il regime de quo veniva censurato proprio in raffronto con la libertà che invece connotava l’ordinamento delle “ordinarie” imprese bancarie, sul presupposto per cui l’emissione di cartamoneta non sarebbe stata attività sostanzialmente diversa dalla raccolta dei depositi, dacché il portatore, all’atto della richiesta di conversione in denaro, si sarebbe in effetti trovato nella medesima situazione del depositante all’atto del ritiro del proprio denaro[21]; occorre, sul punto, immettersi nell’ottica liberistica della seconda metà dell’Ottocento onde comprendere l’avviso dell’autorevole dottrina economica che, muovendo dal presupposto per cui «la miglior guarentigia che aver si possa del buon andamento degli affari di credito risiede appunto nella libera concorrenza», ravvisava incongruenze nel diverso trattamento riservato alle banche di emissione rispetto a quello dei banchieri privati, e caldeggiava l’eliminazione dello statuto vincolistico dettato per le prime[22].
Su distinto ma collegato versante, sorse nel tardo Ottocento un altro dibattito politico, giuridico ed economico, noto come “questione bancaria”, in ordine alla efficienza di un sistema in cui l’attività di emissione risultava affidata a più soggetti: semplificando, ai sostenitori dell’opportunità di addivenire all’“unificazione” degli Istituti di emissione – mediante istituzione di una banca di emissione unica, ai fini, tra gli altri, di garantire un efficace controllo monetario e di scongiurare l’imminente pericolo di crisi, naturalmente acuito dalla presenza di una pluralità di operatori, nonché di agevolare gli affari attraverso la circolazione di un biglietto d’unico tipo – si contrapponeva la scuola di pensiero liberista, storicamente tendente al laissez faire nel mercato del credito, perorante il principio di libertà di costituzione di banche al riparo da ingerenze di sorta del potere pubblico[23].
Più che l’adesione all’una piuttosto che all’altra visione, furono contingenze storiche (segnatamente, eventi di dissesti bancari che sul finire del secolo diciannovesimo colpirono anche alcuni di quegli Istituti[24]) a condurre all’accentramento del potere di emettere biglietti di banca, che nel 1926 divenne (e, sino all’entrata in vigore dell’ordinamento monetario dell’Unione europea, rimase) appannaggio esclusivo della Banca d’Italia[25].
Tra gli enti creditizi sottoposti a pubblici controlli si debbono poi ricordare le Casse di risparmio, istituzioni regolate da apposita legge organica speciale[26], chiamate alla tutela, in ottica previdenziale, delle classi meno abbienti[27].
Sebbene dal quadro d’insieme appena lumeggiato emerga che alcuni importanti operatori del sistema bancario italiano soggiacevano a controlli pubblici, tali imprese bancarie “a statuto speciale” rappresentavano pur sempre l’eccezione, la regola essendo quella della libertà di costituzione e di esercizio della relativa attività. Sicché, nell’ultimo decennio dell’Ottocento e nei primi due del Novecento, l’assenza sia di barriere giuridiche all’ingresso nel mercato dell’intermediazione creditizia sia di un apparato di generale vigilanza pubblica sull’attività concorsero a generare un sistema bancario sovraffollato, gremito di imprese in numero[28] sproporzionato rispetto a dimensioni ed esigenze dell’economia reale ed animate da intenti principalmente speculativi[29], nonché sprovviste della solidità necessaria a garantire una gestione sana e prudente delle rispettive iniziative economiche[30].
Gli eventi di dissesto di enti creditizi (dovuti a congiunture economiche sfavorevoli ovvero a semplice mala gestio) e i conseguenti scandali ebbero a moltiplicarsi[31]. Crisi profonde colpirono anche primari istituti che avevano fornito i capitali necessari per alimentare lo sforzo bellico del primo conflitto mondiale: a fronte dello stretto legame tra quelle banche e le imprese dei settori meccanico e siderurgico instauratosi attraverso la costituzione in garanzia dei pacchetti azionari delle imprese finanziate, una volta cessato il conflitto e in conseguenza del passaggio da una economia di guerra ad una economia di pace, gli istituti dovettero affrontare la secca alternativa tra il continuare a sostenere, nella fase di riconversione, imprese sorte per l’evento bellico e sprovviste di solide basi, e la conversione dei loro immobilizzi in ingenti perdite[32]. Nelle parole di un illustre Autore, «una situazione bancaria di vero marasma»[33].
Ciò che, nei primi due decenni del secolo ventesimo – sulla scorta del progressivo affermarsi di concezioni favorevoli all’intervento dello Stato nell’economia e, in specie, nella pianificazione amministrativa di settore[34] – accelerò il mutamento di prospettiva in atto sull’esigenza di particolare protezione giuridica degli interessi coinvolti nello svolgimento dell’attività bancaria[35], e dunque sulla necessità di sottoposizione degli esercenti quest’ultima attività a controllo pubblico, come testimonia il florilegio di progetti di legge presentati in quel periodo, che, principalmente a tutela dei depositanti, si proponevano di configurare uno statuto speciale per le imprese bancarie, assistito da meccanismi di supervisione sull’attività da esse espletata[36].
3. La legge bancaria del 1926: il riconoscimento delle banche quali imprese a statuto speciale
Nel contesto tratteggiato, una svolta cruciale si ebbe a metà degli anni Venti, quando il r.d.l. 7 settembre 1926, n. 1511, e il r.d.l. 6 novembre 1926, n. 1830, recanti, rispettivamente, “Provvedimenti per la tutela del risparmio” e “Norme regolamentari per la tutela del risparmio”, introdussero il primo corpus normativo organico dedicato al sistema bancario. Tale riforma sancì nei riguardi delle imprese (“società, enti e ditte bancarie”) esercenti l’attività di raccolta di depositi – designate con la denominazione generica di “aziende di credito” (art. 1 r.d.l. n. 1830/1926) – una serie di norme speciali, importanti, tra l’altro, la sottoposizione a controlli pubblici.
Quello in discorso fu il primo corpus normativo organico che, riconoscendo la specialità dell’impresa bancaria, dettava norme specifiche che superavano il Codice di commercio del 1882, e segnatamente norme di stampo prudenziale, tese al consolidamento del sistema creditizio a tutela dei risparmiatori[37].
Tra le principali novità venne attribuito al Ministero delle finanze il potere di accordare alle nuove aziende di credito l’«autorizzazione» a «iniziare» le operazioni, con decreto da emanare di concerto col Ministro dell’economia nazionale e sentito il parere dell’Istituto di emissione (i.e. Banca d’Italia[38]); consimile autorizzazione era altresì richiesta ai fini dell’apertura di nuove filiali o sedi, nonché per la fusione con altre aziende[39].
Tutte le aziende che esercitavano la raccolta dei depositi erano poi tenute ad iscriversi presso uno speciale albo tenuto dal Ministero delle finanze[40]: certa dottrina ha ravvisato in tale obbligo la consacrazione del principio per cui «la raccolta dei depositi e l’esercizio del credito costituiscono un pubblico servizio soggetto a concessione, subordinata al possesso di determinati requisiti»[41]. Sul punto s’avrà modo di tornare funditus infra; tuttavia, l’ossequio alla lettera del testo normativo impone forse di ridimensionare sin d’ora l’avviso appena riportato: se è vero che il riordino sistematico della materia era preordinato alla tutela di una serie di interessi collettivi[42], tanto non pare sufficiente a tecnicamente qualificare l’attività bancaria in termini di “pubblico servizio”, così come il semplice obbligo di iscrizione presso un albo – seppure a fronte di una autorizzazione che, pur accordata al ricorrere di determinati requisiti predefiniti dal legislatore, poteva essere revocata in caso di violazioni ritenute “a giudizio insindacabile del Ministro, di eccezionale gravità”[43]– pare non valere di per sé solo a fondare un regime “concessorio”; verosimilmente le opinioni surriferite, in quanto espresse oltre trent’anni dopo la emanazione della legge bancaria del 1926 e, soprattutto, nel vigore della legge bancaria del 1936, risentivano delle prassi e delle teorie formatesi con specifico riguardo a quest’ultima legge.
Il complesso normativo del 1926 istituì poi, per la prima volta, un apparato di (sia pur limitata) vigilanza generale sulle aziende di credito, incentrato sull’Istituto di emissione quale organo tecnico cui era deferita la funzione di monitoraggio sull’attività degli enti creditizi. In particolare, le aziende di credito erano tenute (a pena di sanzione pecuniaria[44]) a trasmettere all’Istituto le situazioni periodiche e i bilanci annuali[45], e a detto Istituto vennero conferiti poteri di vigilanza e di ispezione in ordine alla osservanza, da parte delle aziende, delle norme poste dai regi decreti[46]. Nondimeno, i controlli cui le aziende di credito venivano assoggettate non erano penetranti al punto da intaccarne l’autonomia organizzativa interna, sostanziandosi detti controlli in limiti preventivi e nella verifica ex post circa il rispetto dei precetti[47].
Né la generica “tutela del risparmio” avrebbe potuto legittimamente fondare ingerenze della Banca d’Italia o del Ministero tese a comprimere detta sfera di autonomia: la vigilanza dell’Istituto veniva infatti circoscritta dall’art. 5 del r.d.l. n. 1511/1926 alla «osservanza delle norme contenute nel presente decreto e di quelle che saranno contemplate nel relativo regolamento», e nessuna delle norme de quibus assegnava competenze alla Banca d’Italia o al Ministero delle finanze in ordine al sindacato sull’ordinamento interno (i.e. statuti, deliberazioni, gestione interna) delle imprese bancarie, come expressis verbis affermato nel 1933 dal Tribunale di Roma[48].
Insomma, l’impresa bancaria, quantunque soggetta a vigilanza, permaneva impresa privata; del resto, la stessa legge, nel sancire alcune norme di carattere «eccezionale»[49], riaffermava la soggezione di società e ditte bancarie al diritto comune, ossia al Codice di commercio (art. 1 r.d.l. n. 1511/1926).
Di rilievo altresì l’introduzione di norme di stampo prudenziale, quali la fissazione di un rapporto fra patrimonio e depositi[50] nonché il limite alla concentrazione di affidamenti posto dal divieto di concedere ad un medesimo cliente un fido superiore al quinto del capitale versato e delle riserve (art. 16 r.d.l. n. 1830/1926)[51]: all’evidenza il legislatore, per evitare concentrazioni di rischio, sceglieva di sacrificare quote di autonomia gestoria dell’impresa sull’altare della stabilità degli operatori del settore e dunque di garanzia della fiducia del pubblico dei risparmiatori. Finalità essenziale della “legge del ‘26” era infatti quella di «ridare fiducia (…) a coloro che tenevano il loro risparmio depositato presso aziende di credito ordinario»[52]; in sostanza, la riforma si proponeva di tutelare i depositanti, essendo ormai acquisito che la sicurezza dei depositi e dei conti correnti bancari non poteva (più) considerarsi alla stregua di un «affare privato»: per ragioni ulteriori rispetto a considerazioni di ordine “quantitativo” – tali per cui la larga estensione assunta da un interesse privato finisce per trasformarlo in un vero e proprio interesse collettivo – si addiveniva a riconoscere, infatti, come a pieno titolo rientrante tra i compiti dello Stato l’imposizione di presidi a garanzia della sana organizzazione delle banche[53].
Ciò nondimeno, pur essendo la legge in discorso espressione di quell’indirizzo ideologico che guardava con favore all’intervento dello Stato nelle attività economiche – ingerenza consolidatasi con l’avvento del fascismo, anche in ragione della più stretta compenetrazione tra capitale finanziario e Stato – essa non dettava ancora regole per il «governo del credito», per le quali si sarebbe dovuto attendere la successiva legge bancaria del 1936-1938: la normativa introdotta nel 1926, risultando principalmente indirizzata al risanamento bancario, «perseguiva una funzione non di governo ma di “polizia del credito” e costituiva un intervento moderatore e regolatore del mercato bancario»[54].
4. La specialità dell’attività (e dell’impresa) bancaria nella legge bancaria del 1936-1938. Cenni generali in ordine alla legge bancaria del 1936-1938
Come visto, l’impianto della legge bancaria del 1926, in ragione delle sopra evidenziate finalità perseguite, guardava alle aziende di credito prevalentemente in ragione dello svolgimento dell’attività di raccolta del risparmio[55], al punto da far sorgere l’interrogativo (forse, però, meramente retorico) su fino a che punto la normativa speciale del ‘26 avesse accolto la nozione di banca basata sul concetto di intermediazione[56]; che l’accento fosse in allora stato posto sulle operazioni di raccolta è peraltro testimoniato dall’esigenza avvertita successivamente dal legislatore – in occasione della riforma organica della materia seguita alla grande crisi del 1929[57] – di disciplinare l’esercizio del credito (anche) attraverso la vigilanza sull’impiego del credito[58].
Si fa riferimento al corpus normativo generalmente noto come “legge bancaria del 1936-1938”[59] (o, più semplicemente, “legge bancaria”), che ha segnato un’epoca di circa mezzo secolo, in cui l’ordinamento bancario italiano è stato principalmente impiantato sulla legge in parola. Essa, diversamente dalla legge del 1926, non era semplicemente indirizzata al risanamento del sistema bancario, quanto piuttosto a disciplinare integralmente la struttura di quel sistema e l’organizzazione e gestione delle imprese che vi operavano[60]. La legge bancaria del 1936-1938 non si limitava a stabilire divieti e cautele soggettive ed oggettive (le cc.dd. misure di “polizia economica”[61]), adottando piuttosto un registro regolamentare teso a dettare l’indirizzo, il governo e il controllo dell’attività bancaria[62], con correlativa compressione dell’autonomia degli enti creditizi. La dottrina del tempo era infatti concorde nel ravvisare alla base della riforma del ‘36 l’accentuarsi dell’interesse dello Stato al settore del credito, e in particolare l’affermazione dell’interesse pubblico primario all’ottimale impiego del risparmio attraverso l’esercizio del credito[63]. Significativo in tal senso il disposto originario dell’art. 13 della legge del ‘36, ai cui sensi il Comitato dei Ministri doveva fissare le direttive per l’azione da svolgere dall’Ispettorato «al fine di adeguare le esigenze per lo sviluppo della economia della Nazione e della vita dello Stato alla formazione del risparmio ed alle possibilità di credito del Paese»; coerentemente, la dottrina economica giustificava l’introduzione nel rinnovato sistema di un più pregnante intervento dell’autorità pubblica proprio in considerazione della insufficienza della normativa del 1926 «a convogliare il risparmio in investimenti rispondenti all’esigenza di un’adeguata crescita della produzione nazionale»[64].
Nutrita fu la serie di profili involti dalla nuova, capillare, normativa[65].
Le limitate finalità del presente lavoro impongono di sgomberare il campo di osservazione da molti dei problemi agitati dalla riforma, isolando adesso, quale questione di specifico interesse, quella relativa all’inquadramento dell’attività bancaria, nel vigore della legge bancaria, in termini di attività di impresa ovvero di pubblico servizio, questione peraltro sollecitata già dallo stesso articolo di apertura della legge de qua, per cui la raccolta del risparmio fra il pubblico sotto ogni forma e l’esercizio del credito costituivano «funzioni di pubblico interesse» e il cui esercizio formava oggetto di riserva di attività a favore dei soggetti individuati dalla legge medesima.
5. Il problema dell’attività bancaria quale “funzione di interesse pubblico”
La disposizione d’esordio della legge bancaria individuava quali elementi fondamentali di fattispecie “la raccolta del risparmio tra il pubblico” e “l’esercizio del credito”: in tali termini, non giuridici ma piuttosto tecnico-economici[66], veniva (e viene tuttora, ai sensi dell’art. 10 t.u.b.) identificata l’essenza dell’attività bancaria.
Sul piano sistematico, l’espressa considerazione non soltanto della raccolta del risparmio tra il pubblico, ma anche (e quale attività strutturalmente connessa alla prima) dell’esercizio del credito, testimonia e consacra il recepimento normativo del paradigma dell’attività bancaria imperniato sull’intermediazione nel credito[67], e cioè sul collegamento teleologico fra raccolta e impiego[68], con ciò definitivamente superandosi l’approccio ottocentesco che individuava la nozione di banchiere a partire dalle singole operazioni bancarie poste in essere, in favore dell’attribuzione di rilievo alla complessiva attività svolta[69].
In prospettiva storica non può non riconoscersi che il regime fascista abbracciasse un modello di organizzazione dell’economia fortemente accentrato e che la realizzazione dello Stato corporativo richiedesse «il ripudio della teoria dell’impresa-diritto e l’adozione della concezione dell’impresa come impresa-funzione»[70], la cui gestione imprenditoriale fosse piegata al perseguimento di finalità pubbliche[71], per come definite dall’autorità governativa. Deve sul punto porsi subito mente al fatto che frattanto, nel 1942, si assistette alla unificazione dei due codici (civile e commerciale)[72], e, come noto, con l’entrata in vigore del codice civile si ebbe un importante mutamento di prospettiva[73]: il sistema oggettivo, incentrato sulla fattispecie dell’(anche isolato[74]) atto di commercio, su cui s’incardinava il Codice di commercio del 1882, cedette il passo ad un impianto normativo imperniato sul referente soggettivo dell’imprenditore, e dunque sull’esercizio in forma imprenditoriale delle attività economiche[75]. Per quanto qui specificamente rileva, come noto l’art. 2195, comma 1, n. 4, c.c. sancì espressamente la inclusione di quella bancaria tra le attività d’impresa: da una prima piana lettura di sintesi di tale disposizione con la formula di cui all’art. 1 della legge bancaria potrebbe inferirsi un’attività – quella bancaria – costituente attività di impresa tipica, pur essendo soggetta ad un pubblico controllo per via degli interessi generali che in essa sono coinvolti; un’attività d’impresa che tale permane quale che siano la natura e la forma giuridica del soggetto che la svolge[76].
Per quanto nella disciplina dell’economia dell’epoca fossero piuttosto ricorrenti “etichette verbali” consimili all’espressione “funzione di pubblico interesse” – ciò che potrebbe sconsigliare di costruirvi sopra particolari illazioni[77] – il disposto ha molto “affaticato” gli interpreti[78]: al netto delle intenzioni del legislatore del 1936 e dell’inclusione dell’attività bancaria tra le attività d’impresa di cui all’art. 2195 c.c., nel mezzo secolo di vigenza della legge bancaria si dipanò un dibattito in letteratura intorno al problema della funzionalizzazione dell’impresa bancaria a fini di politica economica, in ordine al grado di pubblicizzazione dell’attività bancaria, allo scopo istituzionale dell’ente creditizio, e quindi al maggiore o minore peso da riconoscere al momento pubblicistico, ovvero al paradigma imprenditoriale, nell’ambito dell’ordinamento del credito.
La restituzione della complessità del problema esorbita dai limitati fini del presente lavoro[79]; può qui comunque sinteticamente darsi conto delle principali posizioni su cui si attestava la dottrina, posto che proprio l’enunciazione dell’interesse pubblico relativo all’esercizio bancario costituisce al contempo la premessa e la “giustificazione” della specialità dell’ordinamento bancario, e quindi della compressione della libertà di iniziativa economica sancita ex art. 41 della Costituzione[80].
In una prima linea teorica si rimarcavano gli aspetti pubblicistici della legislazione bancaria, ponendo l’accento sulle finalità di politica monetaria, di tutela dei risparmiatori, di difesa “integrale” del risparmio[81], e di indirizzo, «governo», del credito verso finalità di politica economica[82]. In quest’ordine di idee, si evidenziava la pubblicizzazione soggettiva del settore del credito, al cospetto del moltiplicarsi delle banche pubbliche[83], e si affermava la pubblicizzazione oggettiva della funzione creditizia, in ragione della speciale regolamentazione della materia, pervenendo financo a ravvisare un indirizzamento del settore verso la collettivizzazione[84].
L’origine di tale linea teorica può farsi risalire ad uno scritto del 1949 di autorevole amministrativista che proponeva inediti inquadramenti e dell’attività bancaria e dell’ordinamento creditizio[85]. Quanto alla prima, e in particolare in ordine al problema della individuazione della natura giuridica dell’attività creditizia, l’analisi muoveva appunto dall’interpretazione sistematica della formula “funzione di interesse pubblico”, per addivenire, da un lato, a negare l’inquadramento dell’attività bancaria in termini di “pubblico servizio”[86], e, dall’altro lato, ad affermare che l’attività svolta dagli enti creditizi dovesse essere «denominata» “servizio di interesse pubblico” e «qualificata» come attività privata assoggettata ad un regime speciale[87]. Per quel che concerne l’ordinamento creditizio considerato nel suo complesso, la Dottrina in parola ravvisava in esso una specie di organizzazione a sé, quella dell’ordinamento giuridico sezionale (o settoriale)[88]: il legislatore avrebbe cioè instaurato, per il settore bancario, un ordinamento giuridico a sé, di cui ricorrevano i tre tipici elementi dell’ordinamento autonomo, vale a dire la plurisoggettività[89], l’organizzazione[90] e la normazione[91].
L’intonazione pubblicistica dell’ordinamento bancario, in una con la teoria dell’ordinamento sezionale, venivano successivamente accolte nella riflessione giuspubblicistica specificamente dedicata al tema della natura dell’attività creditizia[92], che tuttavia perveniva a negarne l’inquadramento in termini di “funzione”, propendendo per la categoria concettuale del “servizio in senso tecnico” sostanzialmente pubblico[93]: un servizio, cioè, originariamente attribuito all’ordinamento del credito al fine di evitare l’appesantimento che avrebbe gravato lo Stato in caso di esercizio diretto di una attività a carattere spiccatamente tecnico e tradizionalmente privata qual è quella creditizia[94]. Interessante la notazione secondo cui l’impostazione pubblicistica del servizio del credito sarebbe sovente stata riconosciuta dagli stessi esponenti della categoria delle aziende di credito, che affermavano come «la funzione della raccolta del risparmio e quella correlativa del suo impiego in forma creditizia, si intessono di tali e tanti rapporti fiduciari e di così delicate e complesse valutazioni generali e particolari che anche l’impresa privata è indotta ad orientarsi e ad agire con criteri intimamente pubblicistici, conferendosi ai vari soggetti operatori un abito mentale che trascende la limitata visione del proprio particolare interesse contingente»[95].
Emblematiche nel senso della funzionalizzazione le parole della dottrina economica coeva ai giuristi menzionati, di censura del fine lucrativo perseguito dalle aziende di credito, tanto se private («le banche private possono svolgere utilissime funzioni, a patto tuttavia che concordino sulla necessità di bandire la legge del profitto dal settore bancario»[96]), quanto se pubbliche[97].
Ad ogni modo, neanche chi attribuiva natura di pubblico servizio oggettivamente considerato all’attività bancaria, e sottolineava il valore della riserva in esclusiva in capo alle banche, si spingeva sino a negare la libertà contrattuale degli enti creditizi nei rapporti coi clienti, ritenendosi insussistente l’obbligo in capo all’impresa bancaria di fornire le prestazioni formanti oggetto della propria attività, e quindi di aderire alle richieste di compiere determinate operazioni provenienti da singole controparti contrattuali[98].
Merita infine segnalare, anche per la rilevante eco conseguita nella successiva ed anche recente letteratura giuspubblicistica[99], lo studio dedicato ai profili pubblicistici del credito secondo cui era dato ravvisare nell’ordinamento creditizio un marcato indirizzo dirigistico, articolato in tre «moduli organizzativi di pubblicizzazione»: un primo modulo consistente nella “pubblicizzazione oggettiva”, ossia nella sottoposizione dell’attività creditizia al complesso sistema di controllo di cui alla normativa del 1936-1938 e della legislazione sui crediti speciali; un secondo modulo, di “pubblicizzazione soggettiva”, risultante dalla erogazione del credito da parte di organi direttamente statali e dall’attribuzione di natura pubblica a soggetti esercenti il credito; infine il terzo modulo, di “pubblicizzazione formale”, evincibile nella particolareggiata disciplina delle varie operazioni creditizie[100].
Su opposto versante si attestava chi riteneva che la legge avesse inteso recepire e valorizzare proprio il modello imprenditoriale, quale mezzo allo scopo della sana gestione bancaria, modello che accomunava enti creditizi pubblici e privati, ambedue esercitando attività d’impresa. In tale ordine di idee, si considerava che l’impresa assurgesse a strumento di garanzia della buona amministrazione del risparmio raccolto, essendo un modello organizzativo «contraddistinto da iniziativa, rischio, competitività, sia pure nell’ambito di controlli e coordinamenti, [che] permette di contemperare la duplice finalità di controllo dell’attività e di agilità e produttività della gestione»[101].
Merita poi ricordare la ricostruzione proposta da autorevole giuscommercialista, limitrofa a quella appena riferita, secondo cui la disciplina dell’ordinamento del credito poneva sì dei limiti alla iniziativa economica privata, a tutela di interessi e generali e particolari[102], ma tali limiti non valevano a trasformare le banche in strumenti della politica creditizia dello Stato[103], e di “pubblico servizio” e “ordinamento sezionale o settoriale” si sarebbe al più potuto discorrere in senso meramente descrittivo e privo di implicazioni giuridiche, nel senso di un’attività che per certi aspetti ha riverberi sotto il profilo pubblicistico. Tale impostazione si poneva in senso fortemente critico nei confronti delle teorie dell’ordinamento sezionale e dell’impresa bancaria come esercente pubblico servizio, ritenendo fallace la premessa di fondo delle medesime: l’erronea equiparazione tra la “funzione di pubblico interesse” e la “funzione pubblica”[104]. Deve, nondimeno, rammentarsi che il medesimo Autore, in un successivo contributo[105], non mancava di precisare che seppure l’espressione “funzione di interesse pubblico” non significasse “funzione pubblica”, essa neppure equivaleva a «funzione esclusivamente privata e come tale nella piena disponibilità dei soci»: la società bancaria veniva allora più precisamente inquadrata come una organizzazione avente uno scopo «complesso», una funzione ulteriore rispetto al puro interesse economico, tal che la componente pubblicistica che animava le rilevanti disposizioni penetrava all’interno della struttura organizzativa, condizionando le posizioni dei soci, qualificabili non già come di diritto soggettivo, ma piuttosto come di interesse legittimo, per poi addivenire alla affermazione secondo cui l’interesse sociale nella società impresa bancaria rappresentava «un interesse ipostatizzato (…) è l’interesse della impresa in sé considerata nella sua funzione, che peraltro non riguarda esclusivamente i soci, ma riguarda anche la categoria dei risparmiatori e l’interesse pubblico»[106]; tra gli argomenti a supporto dell’opinione appena sintetizzata si adduceva che l’esercizio del credito abbisogna di capitali raccolti tra il pubblico dei risparmiatori, non già di capitali propri della banca, i quali ultimi «servono soltanto alla costituzione di un fondo di garanzia»[107].
Con riferimento alla disciplina del credito ordinario (scil. a breve), v’era poi chi efficacemente affermava che «l’attività di controllo e di indirizzo (…) ha come oggetto un’attività d’impresa. I destinatari di questa normativa sono dunque degli imprenditori. E dell’impresa l’ordinamento riporta i contrassegni essenziali: la responsabilità patrimoniale, sia pure articolata in sistemi procedurali speciali; l’iniziativa, nel suo nucleo insuperabile, del merito delle scelte»[108]. A fondamento della conclusione si sottolineava, tra l’altro, la facoltà che l’art. 35 della legge bancaria riconosceva in capo all’Autorità di vigilanza[109] di ordinare la convocazione delle assemblee, dei consigli di amministrazione e di altri organi amministrativi, per sottoporre all’esame di tali organi i provvedimenti ritenuti utili alle aziende, e di provvedere direttamente a tali convocazioni in caso di inottemperanza degli organi competenti: tale disposizione rappresentava al contempo il punto massimo e il limite della penetrazione all’interno della struttura amministrativa dell’impresa; in effetti, il potere sostituivo dell’Autorità non poteva spingersi oltre l’attivazione dell’organo della banca, impregiudicata rimanendo la titolarità in capo a quest’ultimo del potere di formare la propria volontà decisionale[110]. Peraltro, la disposizione in discorso configurava un ulteriore limite, di ordine sostanziale, alla ingerenza sostitutiva dell’Autorità: come visto, i provvedimenti che legittimavano consimile intervento erano quelli “ritenuti utili alle aziende”, ciò che suggerisce che l’interesse da tutelare fosse appunto quello alla sana gestione dell’azienda, non già al conseguimento di finalità esterne[111]. Coerentemente, nel senso della conservazione in capo alla impresa bancaria di una cospicua autonomia in ordine alle scelte del merito della gestione, la dottrina economica rilevava che «nessuno contesta naturalmente che essi [gli istituti di credito, n.d.r.] debbano restare i giudici esclusivi, tanto della solvibilità delle varie aziende che richiedono credito, quanto della possibilità tecnica di concludere determinate operazioni: anche i più convinti dirigisti ammettono che il controllo qualitativo non possa essere spinto all’indagine dei singoli prestiti»[112].
Di là dalle formule teoriche, non può però non convenirsi sul fatto che la normativa introdotta nel 1936-1938 presentasse molteplici indici di compressione dell’autonomia privata degli enti creditizi, impingenti sia sulla struttura organizzativa degli operatori di settore, sia sulla loro concreta operatività.
Per un verso, le banche erano infatti sottoposte, a monte, al vincolo di specializzazione temporale, e alle correlate limitazioni conseguenti all’abbandono dello schema della banca mista in favore dell’adozione del modello di banca pura, e dunque alle restrizioni della imposta separatezza tra banca e industria.
Per altro verso, le banche soggiacevano sin dalla loro costituzione a costanti e penetranti poteri (di controllo, d’intervento e regolamentari) dell’autorità, connotati peraltro da ampi margini di discrezionalità, quali ad esempio: l’autorizzazione all’esercizio del credito (art. 28), che poteva, tra l’altro, essere subordinata a requisiti in punto di fondo di dotazione e capitale; l’autorizzazione per l’apertura di nuove sedi e filiali (art. 28), e preme sul punto segnalare che l’autorizzazione all’apertura di nuovi sportelli veniva in effetti negata dalla Banca d’Italia là dove riteneva già satura una determinata piazza[113], ciò che per un verso rende evidente la discrezionalità insita nell’esercizio del contemperamento delle istanze della singola impresa bancaria con l’interesse economico generale (per come interpretato dall’Autorità stessa), e che per altro verso mostra il carattere recessivo che in allora veniva riconosciuto, in subiecta materia, al valore della libera concorrenza[114]; il potere del Comitato interministeriale di ordinare la chiusura di sedi o filiali a fronte di violazioni di legge, irregolarità di gestione o insufficienza di fondi (art. 34); l’autorizzazione della Banca d’Italia per ogni emissione di azioni, obbligazioni e valori mobiliari in genere, nonché per l’ammissione dei titoli in borsa (art. 2); la supra ricordata soggezione al potere dell’autorità di convocazione dell’assemblea dei soci o di riunioni di altri organi (art. 35); i poteri sostitutivi dell’autorità, di scioglimento degli organi direttivi e di sottoposizione ad amministrazione straordinaria (artt. 57 ss.)[115]; la revoca dell’autorizzazione e la messa in liquidazione in ipotesi di irregolarità o violazioni di norme legali o statutarie o di perdite di patrimonio di eccezionale gravità, ovvero su istanza del titolare delle aziende individuali o degli organi amministrativi delle aziende (art. 67). Tale ultima previsione, oltre ad avere dato la stura al sollevamento di dubbi e questioni di costituzionalità[116], vale a riconfermare l’attenzione del legislatore, sin da tempi risalenti, all’aspetto della istituzione di procedure speciali di regolazione della crisi degli enti creditizi. Ed è appunto argomentando (anche) da tale peculiare regime che la giurisprudenza penale di legittimità pervenne nel 1981 all’affermazione della natura di pubblico servizio propria dell’attività bancaria[117], salvo poi, sei anni più tardi, ritornare sui propri passi, espressamente negando che l’intervento dei pubblici poteri nelle forme dell’amministrazione straordinaria e della liquidazione coatta amministrativa potessero assumere valore sintomatico di una collocazione delle banche nell’area del “pubblico”[118].
In aggiunta all’ampiezza del catalogo di poteri d’intervento attribuiti all’autorità, occorre poi considerare un altro elemento d’incompatibilità con il libero esercizio dell’attività d’impresa da parte delle banche: la mancanza, nella legge bancaria del 1936-1938, della determinazione delle finalità cui l’esercizio dei poteri amministrativi era preordinato: in buona sostanza, «i poteri attribuiti alle autorità creditizie erano a latitudine pressoché indefinita»[119]. Può allora convenirsi con l’affermazione secondo cui «non era tanto quindi l’ambigua formula dell’attività bancaria come funzione di interesse pubblico a indur[re] a ritenere che, in principio, quella legge consentisse di piegare i diritti d’impresa, e quindi degli azionisti delle società bancarie, agli interessi pubblici, così funzionalizzando l’interesse sociale (…), quanto l’ampiezza dei poteri assegnati alle autorità pubbliche di controllo sul settore»[120].
6. Dalla riaffermazione, negli anni Ottanta, del carattere di impresa proprio dell’attività bancaria all’attuale configurazione normativa dell’attività medesima
Nel vigore della legge bancaria del 1936-1938, struttura e articolazione del sistema creditizio italiano permasero sostanzialmente invariate[121], fin quando, a metà degli anni Ottanta, prese avvio un’epoca in cui divennero sempre più evanescenti quelli che erano stati ritenuti gli indici rivelatori della natura pubblica dell’attività bancaria.
In recepimento delle istanze provenienti dalla CEE di istituzione di un regime concorrenziale tra le imprese bancarie degli Stati membri [122], venne emanato il d.P.R. 27 giugno 1985 n. 350[123], che sancì espressamente che «l’attività di raccolta del risparmio fra il pubblico sotto ogni forma e di esercizio del credito ha carattere di impresa, indipendentemente dalla natura pubblica o privata degli enti che la esercitano» (art. 1). All’evidenza il legislatore, nel riproporre alla lettera gli elementi di fattispecie di cui all’art. 1 della legge bancaria, alla locuzione “funzioni di interesse pubblico” sostituì la predicazione del carattere d’impresa dell’attività bancaria.
Tale presa di posizione legislativa conseguiva, peraltro, ad alcuni eventi contingenti che avevano interessato il mondo bancario e che avevano acceso dispute sull’applicabilità della disciplina penalistica dell’uso del denaro pubblico, in particolare quella del peculato e della malversazione ai casi di sconsiderata erogazione di credito, dispute peraltro alimentate dal fatto che in allora le banche erano in gran numero enti pubblici[124].
In particolare, a partire dagli anni Sessanta si era affermato un orientamento giurisprudenziale che riconosceva in capo agli esponenti bancari di istituti di credito di diritto pubblico la qualifica di pubblici ufficiali o di incaricati di pubblico servizio, per loro ascrivere i reati di peculato, falsità in atti pubblici e omissione di atti d’ufficio[125], peraltro con disparità di trattamento fra esponenti di istituti di credito di diritto pubblico ed esponenti di aziende di credito di diritto privato, soggetti in effetti esercenti la medesima attività. Sicché, nel 1981 la Cassazione penale a Sezioni Unite[126], sulla scorta di una approfondita «analisi dei dati normativi che accreditano la tesi della oggettiva pubblicizzazione dei servizi bancari»[127], risolse il problema di tale discriminazione, riconoscendo l’oggettiva qualità pubblica dell’attività bancaria anche se esercitata da enti privati[128], dunque ritenendo applicabile la disciplina penalistica degli incaricati di pubblico servizio anche agli esponenti di enti creditizi privati[129].
Come anticipato, il d.P.R. 350/1985 fissò con chiarezza il paradigma imprenditoriale alla base dell’attività bancaria, indipendentemente dal fatto che ad esercitarla fossero enti privati o pubblici; in linea con lo spirito che animava il complesso degli interventi normativi di riforma del sistema e con le critiche della dottrina nei confronti degli arresti giurisprudenziali surriferiti[130], concorse a segnare il tramonto della concezione della banca-funzione un radicale revirement della giurisprudenza di legittimità penale, che, facendo perno sulle innovazioni legislative, nel 1987 a Sezioni Unite negò che potesse attribuirsi natura di pubblico servizio all’attività bancaria e agli operatori creditizi la qualifica di incaricati di pubblici servizi o di pubblici ufficiali, anche se appartenenti a enti creditizi pubblici[131].
Sempre nel solco dell’obliterazione degli indici della natura pubblica dell’attività bancaria si poneva l’art. 1, comma 2, d.P.R. 350/1985, ai cui sensi l’autorizzazione all’esercizio dell’attività stessa «è rilasciata» dalla Banca d’Italia al ricorrere di determinate condizioni, sub specie di requisiti dell’ente richiedente[132]; la direttiva n. 77/780/CEE aveva infatti stabilito, all’art. 3 a), che le varie autorità creditizie non potessero (più) tener conto delle esigenze del mercato all’atto della valutazione delle domande di autorizzazione all’inizio di attività creditizia.
Ciò segnò un radicale mutamento delle regole di accesso al comparto bancario: con la determinazione in via generale dei requisiti obiettivi condizionanti il rilascio dell’autorizzazione si pose fine a quell’esercizio marcatamente discrezionale dei poteri di vigilanza che «rendeva difficile riconoscere la natura imprenditoriale dell’attività bancaria»[133].
In effetti, la legge bancaria del 1936-1938 aveva introdotto all’art. 28 un filtro a maglia stretta all’ingresso sul mercato di nuove aziende di credito: alla Banca d’Italia veniva deferito un controllo tanto quantitativo (sul numero dei soggetti e sulla loro propagazione sul territorio) quanto qualitativo (sulle caratteristiche dei soggetti, per come risultanti dagli statuti)[134], e, ad acuire il problema del rapporto tra libertà d’impresa e controllo, si poneva il parametro delle “esigenze economiche del mercato”, che la Banca d’Italia applicava all’atto del vaglio autorizzatorio, effettuando infine un giudizio dell’impatto della nuova costituzione o dell’apertura di un nuovo sportello sull’assetto di mercato preesistente[135]. A ridosso dell’emanazione delle riforme in questione, v’era chi riteneva che l’apertura di uno sportello bancario non dovesse essere valutata soltanto in relazione agli interessi specifici dell’azienda di credito, dovendosi superare tale visione microeconomica ed aziendalistica, completandola con una valutazione di interesse generale, pervenendo a chiosare: «in un’economia che dovrebbe essere programmata, con precise scale di priorità, solo un sistema organico e razionale dovrebbe presiedere alla creazione di nuovi sportelli bancari ed alla loro distribuzione fra le diverse categorie di aziende di credito, in conformità di ben individuate necessità settoriali e territoriali di sviluppo»[136]. In buona sostanza, un regime, se non sostanzialmente concessorio[137], di assoluta e praticamente incontrollabile discrezionalità[138].
Quantunque ebbe a suo tempo a discutersi, in dottrina e in giurisprudenza, se l’autorizzazione de qua fosse condizione imprescindibile ai fini dell’attribuzione della qualificazione di ente creditizio in capo al soggetto esercente la relativa attività, e dunque dell’assoggettamento del medesimo alla legge bancaria e ai poteri d’intervento dell’autorità (i problemi della configurabilità di una banca di fatto, dell’assoggettabilità della stessa alla liquidazione coatta amministrativa, e della possibilità di ravvisare in ordine alla medesima il reato di abusivismo bancario, si posero all’attenzione generale in relazione a casi, che negli anni Sessanta ebbero vasta eco mediatica, di raccolta del risparmio effettuata in difetto della prescritta autorizzazione[139]), non può non rammentarsi che nel 1981 la Suprema Corte ancora affermava, sia pur in obiter dictum, che l’autorizzazione all’accesso all’attività bancaria presentava profili funzionali che si spingevano ben oltre lo schema dell’atto autorizzatorio puramente abilitativo o di rimozione di limiti posti all’esercizio di un diritto, ed assumeva carattere di «ammissione all’esercizio di un’attività controllata dallo Stato in ragione dell’interesse pubblico ad essa connaturata»[140].
Se si tengono presenti le parole dianzi riportate, appare ancor più netto il mutamento d’avviso cui sul punto, seppure ancora in obiter, le stesse Sezioni Unite penali pervennero sei anni dopo[141] (ossia all’alba della entrata in vigore del d.P.R. 350/1985): nel prendere atto della profonda innovatività rispetto alla legge bancaria del 1936-1938 del d.P.R. 350/1985 in punto di accesso all’attività creditizia, le Ss. Uu. rimarcarono come la relativa autorizzazione dovesse essere concessa dalla Banca d’Italia all’esito della mera ricognizione della esistenza delle condizioni richieste dalla legge, senza potere avere riguardo alle esigenze economiche di mercato, chiarendo expressis verbis che all’ampia discrezionalità un tempo riservata alla Banca d’Italia nel momento genetico dell’attività creditizia, si era ormai sostituito un atto dovuto, subordinato alla sola alla verifica del ricorrere di condizioni soggettive ed oggettive normativamente predeterminate e riferibili esclusivamente alla funzionalità imprenditoriale del costituendo ente: «l’autorizzazione dell’autorità di vigilanza assume i connotati tipici dell’atto amministrativo rimozionale degli ostacoli giuridici frapposti al libero esercizio di un diritto soggettivo, che, nella specie, è quello di iniziativa economica, garantito dall’art. 41 Cost. Tale natura autorizzatoria è confermata dalla tutela che la legge accorda alla posizione giuridica dei promotori della costituzione di nuovi enti creditizi, disponendo che il provvedimento di diniego sia motivato e prevedendo anche la formazione del silenzio rifiuto (art. 9 d.p.r. 350/85)»[142]. In definitiva, il d.P.R. 350/1985, per come anche valorizzato dalla giurisprudenza, trasformando l’autorizzazione in un atto dovuto all’esito di un controllo di mero accertamento circa la ricorrenza di requisiti obiettivi fissati per legge[143], contrassegnò il passaggio ad un regime autorizzatorio in senso proprio, privo cioè di qualsivoglia funzione traslativa e volto a rimuovere un ostacolo giuridico alla produzione di un determinato risultato da parte di un soggetto che ha la capacità di produrlo[144].
Dunque, anche la modificazione delle regole sull’accesso al settore bancario risulta eminentemente significativa del generale mutamento di prospettiva – anzitutto normativa – che stava progressivamente interessando la concezione degli enti creditizi: l’abbandono della concezione dell’impresa bancaria quale impresa-funzione, in favore dell’impresa-diritto[145].
Una ulteriore conferma di tale ideale percorso perviene dalla l. 30 luglio 1990, n. 218 (c.d. “Legge Amato”), che diede avvio al processo di ristrutturazione degli enti pubblici creditizi, conducendo all’assunzione generalizzata, da parte dei medesimi, della forma della società per azioni[146].
La gran parte delle operazioni avvenne mediante conferimento dell’azienda bancaria ad una S.p.A. il cui pacchetto di controllo rimaneva nella titolarità dell’ente pubblico conferente (c.d. fondazione bancaria)[147]. Il processo di privatizzazione propriamente intesa ebbe poi inizio con la l. 30 luglio 1994, n. 474, proseguì con il D. Lgs. 17 maggio 1999, n. 153, che sancì l’obbligo per gli enti pubblici conferenti di dismettere, entro un determinato termine, le partecipazioni di controllo degli enti creditizi, e condusse alla pressoché totale privatizzazione del settore.
Già a monte, l’imposizione dell’adozione della forma societaria azionaria per l’esercizio dell’attività bancaria[148] marca, rispetto agli altri tipi societari, una prima separazione tra i “contraenti” e l’“attività esercitata in comune” – e mette conto notare, per incidens, che la joint stock company nacque e venne utilizzata precipuamente per imprese in settori di interesse pubblicistico, o comunque generale, quali i trasporti e appunto le banche[149] – ma nell’ordinamento bancario il distanziamento è poi acuito in ragione di prescrizioni – per lo più di contenimento del rischio – tese a tutelare interessi che addirittura travalicano gli stakeholders dell’impresa (i quali, in ipotesi, potrebbero di per sé considerarsi sufficientemente tutelati dalla posizione di residual claimant dei soci)[150]. Interessante notare come il D. Lgs. 20 novembre 1990, n. 356, recante disposizioni per la ristrutturazione e per la disciplina del gruppo creditizio, al fine di intensificare la (già tipica del modello societario azionario) separazione tra proprietà e gestione, impedì la nomina nella S.p.A. esercente impresa bancaria di componenti degli organi amministrativi che fossero al contempo membri degli organi della fondazione bancaria[151].
Nell’avviso della Banca d’Italia, la Legge Amato, pur non realizzando la immediata privatizzazione del settore, ma (soltanto) la modificazione della forma giuridica di enti il cui controllo permase in mano pubblica, segnò per gli enti creditizi, e in particolare con riguardo agli aspetti organizzativi degli stessi, il passaggio «dal diritto pubblico al diritto comune»[152].
Altra fondamentale tappa del percorso che ha condotto all’attuale configurazione normativa dell’impresa bancaria è rappresentata dalla direttiva CEE del 15 dicembre 1989, n. 89/646/CEE[153], che sancì i principi del mutuo riconoscimento e della equivalenza delle licenze bancarie, e dell’home country control[154], ciò che comportò l’instaurazione di un regime di concorrenza tra ordinamenti bancari dei Paesi membri. Detta direttiva fu attuata, dapprima, con D. Lgs. 14 dicembre 1992, n. 481[155], che, definitivamente superando i vincoli di specializzazione temporale e settoriale, diede ingresso nel nostro ordinamento al modello di “banca (rectius, ente creditizio[156]) universale”[157], e poi, con quello che costituisce il culmine del ciclo di riforme in discorso, il D. Lgs. 1° settembre 1993, n. 385[158], testo unico che, in quanto tale, ricondusse ad unità un complesso normativo assai complicato, razionalizzando, coordinando e armonizzando gli oltre cento provvedimenti normativi susseguitisi nel corso del secolo passato, e segnando il passaggio a quella che può considerarsi l’attuale configurazione normativa dell’attività bancaria.
[*] Il presente contributo è frutto della riflessione comune degli autori; possono nondimeno attribuirsi al prof. Michele Salvatore Desario i §§ 4 e 5 e al dott. Raffaele Croce i §§ da 1 a 3 e 6.
[1] Aa.Vv., A 30 anni dal Testo unico bancario (1993-2023): The Test of Time, Atti del convegno, Banca d’Italia – ADDE, Roma, 11-12 dicembre 2023, raccolta degli scritti a cura di M. Perassi, M. Rabitti, F. Sartori e V. Troiano, in Quaderni di Ricerca Giuridica della Consulenza Legale di Banca d’Italia, Roma, 2024, n. 100.
[2] F. Panetta, Il Testo unico bancario, trent’anni dopo, in A 30 anni dal Testo unico, cit., p. 15.
[3] Il campo d’osservazione è limitato all’ordinamento italiano, nella consapevolezza della correlazione che intercorre fra struttura dei sistemi finanziari e modelli di banca; come infatti evidenzia C. Brescia Morra, Il diritto delle banche. Le regole dell’attività, Bologna, 2020, pp. 23 ss., spec. 25 s., nella gran parte dei casi, nei sistemi banco-centrici tende a prevalere il modello di “banca universale” o “mista”, e la Germania ne costituisce un esempio, mentre nei sistemi mercato-centrici tendono a prevalere le “banche specializzate” o “commerciali”, com’è avvenuto nel Regno Unito. Sull’argomento, v. anche F. Giorgianni – C.M. Tardivo, Il nuovo diritto delle banche e degli intermediari finanziari in Italia e in Europa, Torino, 2021, pp. 11 ss., e altresì R. Levine, Bank-Based or Market-Based Financial Systems: Which Is Better?, in Journal of Financial Intermediation, 2002, Vol. 11, pp. 398 ss., nonché, per un’analisi di opportunità e rischi connessi al modello banco-centrico, con specifico riferimento al caso italiano, v. M. Fornasari, La banca, la borsa, lo Stato. Una storia della finanza (secoli XIII-XXI), Torino, 2017, pp. 123 ss. Costituisce, del resto, constatazione ricorrente in letteratura quella per cui i caratteri dei settori bancari, ed anche i relativi ordinamenti giuridici, sono profondamente, in misura maggiore rispetto ad altri settori, influenzati dalle vicende complessive della economia in cui si collocano, e v. R. Costi, L’ordinamento bancario, Bologna, 2012, pp. 23 s., nonché, di recente, G. Boccuzzi, Il settore bancario tra crisi sistemiche e regolamentazione. Le nuove sfide della complessità nella dimensione europea, in I battelli del Reno, 2022, pp. 6 s., il quale, chiarisce che a seconda delle connotazioni strutturali del sistema finanziario (in termini di orientamento al mercato o agli intermediari) varia il meccanismo secondo il quale il settore finanziario alloca le risorse tra settori in avanzo finanziario e settori in disavanzo finanziario, e nota che lo sviluppo delle tecnologie e la digitalizzazione stanno sempre più modificando non solo i confini tra economia reale e finanza, ma anche i parametri tradizionali secondo cui tali due comparti interagiscono tra loro: «il sistema finanziario italiano, storicamente orientato agli intermediari (intermediary oriented) e, in particolare, alle banche, è in profonda trasformazione, nel senso che si vanno affermando in maniera sempre più marcata elementi di passaggio a un assetto che guarda con interesse crescente al mercato come modalità di intermediazione delle risorse finanziarie, in coerenza con l’evoluzione registrata nell’ultimo decennio dalla struttura finanziaria delle imprese. Quest’ultima, peraltro, nonostante i miglioramenti registrati, è ancora troppo caratterizzata da un’elevata incidenza del debito rispetto al capitale di rischio e dalla dipendenza dal credito bancario, in stretta connessione con la struttura produttiva italiana, caratterizzata dalla presenza preponderante di imprese di piccole dimensioni».
[4] Nella consapevolezza del margine d’approssimazione che implica il rigido frazionamento in fasi d’ogni periodo storico, opzione espositiva nondimeno tradizionalmente adottata (e v., e.g., R. Costi, L’ordinamento bancario, cit., pp. 25 ss.).
[5] Alcuni dei principali arresti della produzione normativa bancaria emanata dalla fine dell’Ottocento sino ai giorni nostri rispondevano a finalità di reazione agli stati di crisi che ciclicamente hanno colpito il comparto bancario, e v. F. Belli – S. Maccarone, Le crisi bancarie: il caso del Banco Ambrosiano, Milano 1985, pp. VII ss., ove il rilievo per cui «la patologia bancaria, piuttosto che la fisiologia, ha finito per scandire, con regolarità impressionante, le tappe essenziali di quello che è stato definito (…) il “processo di riorganizzazione a sistema” dell’attività e delle imprese bancarie»; nonché E. Galanti, Introduzione, in E. Galanti – R. D’Ambrosio – A. V. Guccione, Storia della legislazione bancaria, finanziaria e assicurativa. Dall’Unità d’Italia al 2011, Venezia, 2012, p. XIV s., il quale nota altresì che il tratto di reazione ad uno stato di crisi difetti unicamente nella produzione normativa di cui ai testi unici bancario e finanziario, frutto di altro “motore” della legislazione di settore, ovverosia il diritto dell’Unione europea; di tenore consonante la considerazione di G. Felloni, Moneta, credito e banche in Europa: un millennio di storia, Genova, 1999, p. 177 per cui «la ricostruzione delle crisi creditizie e degli scandali bancari in un’ottica non limitata alla congiuntura del momento od agli aspetti aziendali, ma estesa ai risvolti istituzionali, autorizza una considerazione di portata generale: se crisi e scandali finanziari hanno effetti devastanti sulla fiducia pubblica, unico terreno su cui il credito può prosperare, è anche vero – almeno alla luce dell’esperienza italiana – che la devastazione stimola sovente un intervento statale allo scopo di riparare i guasti e ritoccare la legislazione affinché non si rinnovino in futuro. Crisi e scandali, oltre a conseguenze deleterie sul mercato finanziario, hanno quindi effetti positivi de iure condendo, sicché la loro storia è anche quella dell’evolversi stesso delle istituzioni creditizie»; così anche N. Garrone, Il controllo delle banche di depositi, in Giornale degli Economisti e Rivista di Statistica, febbraio 1930, p. 107, il quale rinveniva già in esperienze medievali esempi del fatto che la legislazione regolatrice della «attività del banchiere» ha da sempre tratto origine ed impulso dai dissesti; L. Torchia, Il sistema di vigilanza multi-livello e le istituzioni bancarie europee, in A 30 anni dal Testo unico bancario, cit., p. 34 rimarca come la stessa Unione bancaria sia frutto della crisi finanziaria del 2007/2008.
[6] In consimili termini, v. G. Ruta, Il sistema della legislazione bancaria, Roma, 1979, p. 67. Significativa, in tal senso, si rivela la stessa rubrica di un disegno di legge (seppur mai discusso) proposto nel 1870 dalla Destra piemontese, nelle persone di Quintino Sella e del Ministro dell’Agricoltura Stefano Castagnola, che giustappunto recava “sulla libertà delle banche”, e sui cui contenuti v. L. Conte, L’ordinamento del credito, in L’Unificazione (2011), voce dell’Enciclopedia Treccani, il quale rileva che «obiettivo ultimo del disegno di legge Sella-Castagnola era dunque quello di favorire la riforma dell’ordinamento del credito in modo indiretto, dando libertà di azione agli operatori nella promozione dell’offerta di servizi e al pubblico nella scelta dell’operatore a cui rivolgersi».
[7] Vale sottolineare la distanza intercorrente fra il modo d’intendere l’attività dei banchieri desumibile dalla lettera dell’articolo in parola e la prospettiva, suggerita da autorevole dottrina dei giorni nostri al fine di dare compiuto inquadramento dell’attività bancaria, secondo cui occorre «individuare i termini economici complessivi dell’operazione, superando la visuale limitata alla natura ed efficacia dei singoli atti che possono comporla», P. Ferro-Luzzi, Nozione di attività bancaria, in La nuova legge bancaria. Il Testo Unico delle leggi sulla intermediazione bancaria e creditizia e le disposizioni di attuazione. Commentario, a cura di Id. e G. Castaldi, I, Milano, 1996, p. 226. E v. altresì G. Artale – L. Criscuolo – P. Panico, Le attività, i soggetti, i collaboratori esterni, in Diritto delle banche e degli intermediari finanziari, Padova, 2006, p. 307, ove il rilievo per cui «un approfondimento merita innanzitutto il concetto di attività utilizzato dal legislatore. Posto che con tale locuzione ci si intende riferire a qualcosa di ulteriore rispetto al singolo atto, potendo quindi ritenersi irrilevante un’unica condotta astrattamente rientrante nel concetto di raccolta presso il pubblico, si sostiene che l’attività non richiede solo una serie di atti cementati da un nesso eziologico ma anche una valutazione delle modalità adoperate dall’agente e dall’efficienza dei mezzi impiegati rispetto al raggiungimento del risultato prefisso»; in termini sostanzialmente analoghi, G. Desiderio, L’attività bancaria. Fattispecie ed evoluzione, Milano, 2004, p. 50.
[8] La dottrina del tempo indirizzava censure avverso «le leggi attuali di quasi tutti i paesi d’Europa che vietano che sorga una banca senza una previa autorizzazione dello Stato, che può rifiutare o concedere la sua sanzione», caldeggiando piuttosto, in ossequio al principio di libertà delle banche, l’opposta soluzione, nella convinzione che «il sindacato della concorrenza le governa meglio che la sorveglianza dello Stato», così L. Luzzatti, La diffusione del credito e le banche popolari, a cura di P. Pecorari, Venezia, 1997, p. 131; sul punto, v. anche M. Pipitone, La Cassa rurale cattolica in un dibattito congressuale di fine Ottocento, in Dir. della banca e del mercato fin., 2015, p. 390 s., nt. 4.
[9] Cons. Stato, Sez. IV, decisione 24 aprile 1896, in Foro it., 1896, III, c. 57, resa in sede di annullamento per eccesso di potere e violazione di legge di un provvedimento ministeriale che ordinava un’ispezione a carico di una banca popolare: muovendo dalla premessa per cui «risulta[va] letteralmente dallo statuto sociale costitutivo della Banca di San Benedetto del Tronto, che essa [fosse] un Istituto di credito investito del carattere di società anonima cooperativa, governata dal codice di commercio», il Consiglio di Stato riteneva che «basta[sse] ciò per concludere che essa [fosse] per ciò solo sottratta dalla ingerenza governativa»; tale conclusione poggiava sul presupposto, spiegato in parte motiva, per cui il «codice di commercio non solo non contiene tra le sue disposizioni intorno al regime delle società per azioni alcun precetto che autorizzi sopra tali enti collettivi la vigilanza governativa in qualsiasi delle forme in cui può esplicarsi, ma formula invece un complesso di prescrizioni le quali fanno manifesto che a siffatta vigilanza, che si esercita secondo le discipline anteriori, ha sostituito un sistema assolutamente diverso, quello cioè della sorveglianza degli interessati, i quali la traducono in atto, promuovendo nei termini di legge l’azione dell’autorità giudiziaria, alla quale solamente è dato di ordinare nei congrui casi le ispezioni opportune (art. 153 cod. comm.)».
[10] Cfr. A. Arcangeli, La natura commerciale delle operazioni di banca, in Riv. dir. comm., 1904, I, pp. 23 ss.; I. La Lumia, Materia bancaria e diritto bancario, in Riv. dir. comm., 1921, I, pp. 121 ss.
[11] La disciplina speciale di tali istituti è stata dettata dapprima dalla l. 21 giugno 1869, n. 5160, poi dalla l. 23 giugno 1887, n. 4276, e da ultimo dal Testo unico del 9 aprile 1922, n. 932.
[12] Regolati dalla risalente legge 14 giugno 1866, n. 2983, e poi dal Testo unico del 16 luglio 1905, n. 646.
[13] Normato dal r.d.l. 2 settembre 1919, n. 1627.
[14] Disciplinato dal r.d.l. 20 maggio 1924, n. 731.
[15] Il R.D. 20 dicembre 1914, n. 1375, autorizzò la costituzione di un “Consorzio per sovvenzioni su valori industriali” (CSVI) tra gli Istituti di emissione (sulla cui nozione v. infra, nel testo) Banca d’Italia, Banco di Napoli e Banco di Sicilia, ai quali avrebbero potuto associarsi anche le Casse di risparmio che in allora amministravano «fra patrimonio e depositi una sostanza superiore a venti milioni di lire» (art. 1); detto consorzio rappresentò la prima banca specializzata per il credito all’industria, avendo esso, ai sensi dell’art. 2 del menzionato R.D., per scopo di consentire sovvenzioni cambiarie dirette su cambiali garantite da deposito a titolo di pegno di azioni e di obbligazioni di società industriali, ed essendo abilitato anche a fare «operazioni garantite da materie prime provenienti dall’estero per i bisogni delle industrie nazionali». Il Consorzio, che dunque scontava cambiali industriali mediante capitale proprio ed anche mediante risconto presso la Banca d’Italia, era stato fondato all’inizio della prima guerra mondiale in previsione del panico dei portatori di azioni industriali, che avrebbe potuto condurre alla massiccia vendita sul mercato dei titoli; in effetti, tuttavia, tale temuto ribasso delle azioni industriali non ebbe a verificarsi, ed il Consorzio rimasto pressoché inattivo durante la guerra, funzionò principalmente negli anni dal 1919 al 1921, contemporaneamente allo scoppio e all’evolvere della crisi industriale di quegli anni (v. il rapporto su L’Istituto per la ricostruzione industriale.-I.R.I., redatto dal Ministero dell’industria e del commercio, pubblicato nel 1955, p. 150 s., http://legislature.camera.it/_dati/costituente/documenti/ministerocostituente/p7_Vol2-2_2.pdf). Inoltre, dalla Sezione Speciale Autonoma del Consorzio, creata nel 1922, trarrà origine l’IRI, costituito nel 1933 con lo scopo di rilevare le partecipazioni azionarie e i crediti immobilizzati delle banche, derivanti giustappunto da sovvenzioni erogate a imprese industriali, e v. L. Rosania, IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale), in Treccani Enciclopedia Italiana – II Appendice (1949).
[16] In questi termini, v. R. Costi, L’ordinamento bancario, cit., pp. 27 s.
[17] Per una ricostruzione storica della nascita e dello sviluppo, negli Stati preunitari, di siffatte istituzioni creditizie v. R. De Mattia (a cura di), Gli istituti di emissione in Italia. I tentativi di unificazione 1843-1892, in Collana storica della Banca d’Italia – Documenti, Roma-Bari, 1990, pp. 3 ss., nonché G. Di Nardi, Le banche di emissione in Italia nel secolo XIX, Torino, 1953, e, per una brevissima sintesi, G. Felloni, Moneta, credito e banche in Europa: un millennio di storia, cit., pp. 137 ss.; ai fini del presente lavoro pare sufficiente rammentare che con la c.d. Legge Minghetti” del 30 aprile 1874, n. 1920, il numero degli Istituti di emissione fu limitato a sei: la Banca Nazionale nel Regno d’Italia, la Banca Nazionale Toscana, la Banca Toscana di credito per l’industria e pel commercio d’Italia, il Banco di Napoli, il Banco di Sicilia e la Banca Romana.
[18] In forza di provvedimenti normativi che dispensarono gli Istituti dall’obbligo di conversione dei biglietti in moneta. La prima banca ai cui biglietti fu riconosciuto corso legale fu la Banca Nazionale, quale contropartita per un prestito di duecentocinquanta milioni di lire al Tesoro dello Stato; in particolare, il R. D. 1° maggio 1866, n. 2873 liberò la Banca Nazionale dall’obbligo del pagamento in danaro contante ed a vista dei suoi biglietti (art. 2), i quali ultimi d’allora avrebbero potuto esser «dati e ricevuti come danaro contante per il loro valore nominale, nei pagamenti effettuabili nello Stato (…) d’ogni natura per qualsiasi titolo (…) non ostante qualunque contraria disposizione di legge o patto convenzionale» (art. 3). Successivamente, l’art. 3 della legge 30 aprile 1874, n. 1920 attribuì corso forzoso e inconvertibilità a biglietti emessi dalla Banca Nazionale nel Regno d’Italia, dal Banco di Napoli, dalla Banca Nazionale Toscana, dalla Banca Romana, dal Banco di Sicilia e dalla Banca Toscana di credito per le industrie ed il commercio d’Italia, e, al contempo, l’art. 1 della medesima legge sancì il divieto, durante il corso forzoso, per qualsiasi privato, società od ente giuridico di emettere biglietti di Banco od altri titoli equivalenti pagabili al portatore ed a vista, eccezion fatta, naturalmente, per i summenzionati istituti.
[19] Osservando il fenomeno in prospettiva diacronico-macroeconomica, è interessante notare che la distribuzione delle disponibilità (per tali intendendosi il patrimonio, le riserve, i debiti verso il settore pubblico e verso il settore privato) nel sistema bancario italiano è passata dall’essere riferibile nel 1870 per il 65,7% ad Istituti di emissione, complessivamente titolari, a quel tempo, di 1387,6 milioni di lire, e per il rimanente 34,3% alle altre aziende del sistema bancario (ossia, principalmente, società di credito ordinario e casse di risparmio), all’essere riconducibile nel 1936 per “soltanto” il 16,6% alle banche di emissione e per il rimanente 83,4% alle altre aziende, a fronte di una generale crescita esponenziale dei valori assoluti delle disponibilità (pari a 18974,7 milioni di lire in capo agli Istituti di emissione, e a 95304,8 milioni di lire alle altre aziende), v. G. Felloni, Moneta, credito e banche in Europa: un millennio di storia, cit., p. 141, e Banca d’Italia, I bilanci degli istituti di emissione italiani 1845-1936. A cura di R. De Mattia, Roma, 1967, vol. I, t. I, tab. 2 e t. II, tabb. 7 e 23.
[20] Già il R. D. 1° maggio 1866, n. 2873, che sancì il corso forzoso dei biglietti emessi dalla Banca Nazionale, imponeva al Banco di Napoli, al Banco di Sicilia, alla Banca nazionale Toscana e alla Banca Toscana di credito per l’industria e pel commercio d’Italia l’immobilizzazione dei due terzi della “massa metallica” che ciascuno degli istituti indicati doveva avere in confronto della propria circolazione, e affidava ad apposite commissioni governative la verifica circa il rispetto di tale prescrizione da parte dei ridetti istituti (art. 5). In generale, nel periodo di riferimento, le banche di emissione erano tenute a trattenere, a copertura parziale dei biglietti in circolazione, una quota di metallo greggio monetato che variava da un terzo a due terzi dell’importo dei biglietti medesimi. Giova tenere presente che la ricordata Legge Minghetti (30 aprile 1874, n. 1920) riunì in consorzio i sei Istituti di emissione, perché somministrassero al Tesoro dello Stato mille milioni di lire in biglietti fabbricati e rinnovati a loro spese, prevedendosi che dei biglietti medesimi avrebbero risposto gli Istituti solidalmente tra loro (artt. 2 e 3); inoltre, l’art. 7 della legge in parola stabilì che il debito rappresentato da biglietti emessi da ciascuno dei sei Istituti suindicati non avrebbe dovuto esser superiore al triplo del patrimonio posseduto, o capitale versato (tale rapporto sarebbe poi stato innalzato, nel 1889, a 4/1); prescrizione di primario rilievo della legge in discorso, significativa della ingerenza che il Governo era da quel momento abilitato ad esercitare sulle banche di emissione, è quella di cui all’art. 22, che impose limiti alle operazioni attive che gli istituti erano abilitati a effettuare, subordinando, in particolare, a formale autorizzazione del Governo gli impieghi diretti; merita, da ultimo, segnalare, che la legge de qua intervenne anche sugli statuti di degli Istituti di emissione, introducendo nuove clausole e modificandone o sopprimendone altre, con evidente compressione della libertà statutaria degli enti in esame. Seguirono una serie di provvedimenti normativi in ordine alla materia degli Istituti di emissione (tra i quali si segnala la legge 10 agosto 1893, n. 499, sulla quale v. infra), che posero fine al corso forzoso, salvo poi, di fatto, reintrodurlo, e che, per quanto qui maggiormente interessa, confermarono e rinsaldarono il sistema di vigilanza e di vincoli in ordine all’operatività e all’organizzazione delle banche di emissione. Infine, gli istituti di emissione ricevettero organica disciplina con l’emanazione del R.D. 28 aprile 1910, n. 204, recante il Testo unico di legge sugli Istituiti d’emissione e sulla circolazione dei biglietti di Banca, che regolava il potere di emettere biglietti di banca (facoltà, si rammenta, in allora accordata unicamente alla Banca d’Italia, al Banco di Napoli e al Banco di Sicilia), sancendo, tra l’altro, il limite massimo della circolazione di ciascuno degli Istituti menzionati (artt. 6 ss.), la composizione e la consistenza delle riserve che essi erano obbligati a detenere (artt. 11 ss.), limiti in ordine al genere di attività da essi esercitabile (attraverso l’elencazione tassativa di operazioni consentite, ex artt. 26 ss.), nonché norme che affidavano ad una commissione permanente presieduta dal Ministro del tesoro, nonché al Ministro medesimo a mezzo di un ufficio di ispettorato generale, la vigilanza permanente sulla gestione degli Istituti in discorso, anche attraverso l’esercizio di poteri ispettivi (artt. 108 ss.).
[21] E v., per i termini di tale dibattito politico-dottrinale, N. Garrone, Il controllo delle banche di depositi, cit., p. 110 s.
[22] Il riferimento è al noto economista italiano G. Boccardo, Dizionario della economia politica e del commercio. Così teorico come pratico. Utile non solo allo scienziato ed al pubblico amministratore, ma eziandio al commerciante, al banchiere, all’agricoltore ed al capitalista, Torino, 1857, Vol. 1, p. 305, il quale criticava la disciplina speciale degli Istituti di emissione nei seguenti termini: «Nessuna legge, nessun monopolio vincola la professione di banchiere privato. Ora, che fa egli il banchiere? Riceve depositi, apre conti correnti, emette cambiali, usufrutta, insomma, in mille modi la pubblica fiducia. Si stabilisce una Banca, e perché questa alle operazioni del banchiere aggiunge quella dell’emissione di biglietti al portatore ed a vista, le è proibito di fondarsi senza superiore approvazione, senza sottostare a vessatorie prescrizioni, anzi (il più delle volte) le è vietato assolutamente di costituirsi. – Or bene, se vogliamo imparzialmente esaminare le cose, troveremo che fra l’ufficio del banchiere e quello della Banca, se vi ha pericolo, il primo è di gran lunga più pericoloso del secondo. Tolga Iddio che ci lagniamo della libertà conceduta al banchiere; ma domandiamo ch’ella si estenda anco alle Banche». Tanto restituisce il calibro del radicale mutamento di prospettiva intervenuto.
[23] Per una dettagliata ricostruzione dei termini della “questione bancaria” si vedano S. Cardarelli, La questione bancaria in Italia dal 1860 al 1892, in Collana storica della Banca d’Italia – Contributi. Ricerche per la storia della Banca d’Italia, Vol. I, Roma-Bari, 1990, pp. 105 ss., nonché V. Sannucci, Molteplicità delle banche di emissione: ragioni economiche ed effetti sull’efficacia del controllo monetario (1860-1890), ivi, pp. 181 ss.
[24] L’acuirsi, sul finire dell’Ottocento, delle crisi nel settore industriale e in quello della edilizia comportò un sempre più intenso ricorso all’intervento degli Istituti di emissione, la circolazione dei cui biglietti finì per superare i ricordati limiti imposti per legge; al contempo, a fronte dell’aumento dell’inflazione, le riserve metalliche di tali Istituti diminuirono progressivamente; tutto ciò alimentava i sospetti di irregolarità ed abusi nell’emissione di biglietti, e furono pertanto aperte inchieste ed indagini sugli Istituti medesimi, v. F. Parrillo, La funzione dei sistemi creditizi nell’economia contemporanea, Roma, 1981, Vol. I, p. 201 s. Il caso più noto del tempo passò agli onori della cronaca come lo “scandalo della Banca Romana”, relativo alla omonima banca di emissione, sul quale, anche per riferimenti bibliografici del caso, v. E. Galanti, Le Banche, in E. Galanti – R. D’Ambrosio – A. V. Guccione, Storia della legislazione bancaria, finanziaria e assicurativa. Dall’Unità d’Italia al 2011, cit., pp. 32 ss.
[25] La transizione verso una banca di emissione unica prese avvio nel 1893, quando la legge 10 agosto 1893, n. 499, ridusse da sei a tre il numero degli istituti di emissione ed istituì una nuova banca di emissione, la Banca d’Italia, società per azioni privata risultante dalla fusione della Banca Nazionale nel Regno d’Italia con la Banca Nazionale Toscana e con la Banca Toscana di Credito, e alla quale venne affidata la gestione della liquidazione della Banca Romana. Infine, il D.L. 6 maggio 1926, n. 812, convertito dalla l. 25 giugno 1926, n. 1262, recante “Unificazione del servizio dell’emissione dei biglietti di banca”, soppresse la facoltà concessa al Banco di Napoli e al Banco di Sicilia di emettere biglietti di banca o altri titoli equivalenti, pagabili al portatore e a vista (art. 1), e decretò il passaggio alla Banca d’Italia delle valute auree e di quelle equiparate all’oro di proprietà del Banco di Napoli e del Banco di Sicilia: ciò perché costituissero riserve speciali destinate a garanzia della circolazione dei biglietti che la Banca d’Italia fu autorizzata a emettere in misura corrispondente all’ammontare (e in graduale sostituzione) dei biglietti in circolazione del Banco di Napoli e del Banco di Sicilia (artt. 2, 3, 4 e 5).
[26] L. 15 luglio 1888, n. 5546, “portante il riordinamento delle Casse di risparmio”, che, tra l’altro, attribuiva personalità giuridica alle Casse costituite (da enti pubblici e istituzioni di beneficenza) in forma di fondazioni, disponendo altresì che esse avessero patrimonio separato e amministrazione distinta da quelli degli enti fondatori (art. 14), che ai fini della costituzione dovessero avere un fondo di dotazione minimo determinato per legge (art. 3), e che destinassero quota parte degli utili a riserva sino al raggiungimento di un patrimonio pari ad almeno il decimo del risparmio raccolto (art. 17). Di particolare interesse l’attribuzione al Ministro dell’Agricoltura, Industria e Commercio di poteri di vigilanza e controllo, tra cui quello di scioglimento degli organi gestori e di loro sostituzione con un commissario governativo, e di quello di ordinare lo scioglimento e la liquidazione coatta per il caso di gravi perdite (artt. 23 ss.). Per uno sguardo d’insieme sulle Casse di risparmio v. G. Dell’Amore, Passato, presente e futuro delle Casse di risparmio italiane, in Aa.Vv., Il sistema bancario italiano e l’evoluzione della sua disciplina e delle sue strutture, Bologna, 1975, pp. 169 ss.; P. Mariotti, Casse di risparmio, in Dig. it., VII, Torino, 1927, pp. 13 ss.; C. Ingrosso, Casse di risparmio, in Nuovo dig. it., Torino, 1937, p. 965; S. Mazzarella, Appunti a proposito dei controlli esercitati sulle Casse di risparmio prima della L. 15 luglio 1888, n. 5546, in Riv. dir. comm., 1971, I, pp. 211 ss.
[27] Nondimeno l’attività delle Casse di risparmio consisteva in un’attività economica che consentiva una remunerazione, sia pur contenuta, del risparmio raccolto; tale ambivalenza determinò profonde incertezze in ordine alla qualificazione giuridica delle Casse, soprattutto ai fini del controllo, e v., sul punto, R. Costi, L’ordinamento bancario, cit., p. 32.
[28] Basti sul punto considerare, già solo guardando all’andamento del numero di alcune delle categorie di istituti di credito in Italia dal 1870 al 1890, che le società ordinarie di credito passarono dall’essere 136 a 159, le Casse di risparmio da 136 a 218 e le banche popolari (su cui, per un inquadramento generale, v. G. Romano, Appunti di una ricerca sulle Banche popolari: storia e legislazione. II. Le Banche popolari nel Codice di Commercio del 1882: consolidamento e primi sviluppi del modello, Roma, 2015) da 148 a ben 738, v. M. Fornasari, La banca, la borsa, lo Stato. Una storia della finanza (secoli XIII-XXI), cit., p. 127; e v., per una fotografia d’insieme dell’evoluzione anno per anno dal 1861 al 1936 delle varie tipologie (società di credito ordinario, casse di risparmio ordinarie, banche popolari, monti di pietà, istituti di credito fondiario, istituti di credito agrario, casse rurali e ditte bancarie), con dati relativi al numero delle varie aziende e all’aggregato del capitale versato dalle stesse, G. Felloni, Moneta, credito e banche in Europa: un millennio di storia, cit., pp. 153 s.
[29] In questi termini, per tutti, v. R. Costi, L’ordinamento bancario, cit., p. 38; v. anche N. Garrone, Il controllo delle banche di depositi, cit., p. 105, il quale rileva come i decreti di riforma dell’ordinamento bancario del 1926 (sui quali s’avrà modo di tornare infra, nel testo) si fossero inseriti in una fase di riforma animata dall’intento di «soffocare gli eccessi della speculazione commerciale e purgare l’ambiente economico dai superstiti organismi parassitari».
[30] E v., infatti, A. Antonucci, Diritto delle banche, Milano, 2012, p. 4, la quale indica come in quel panorama estremamente composito e sovradimensionato, gremito di istituti piccoli e sottocapitalizzati, l’iterazione delle crisi e delle conseguenti corse al ritiro dei depositi fu tale che si escogitarono «svariati sistemi per rendere il più lento, il più difficile possibile il run, tutti espedienti ampiamente tollerati dalle autorità».
[31] Oltre allo “scandalo della Banca Romana”, si ricordano, tra gli altri, i fallimenti della Cassa del Commercio di Genova nel 1874 e della Banca del Popolo a Firenze nel 1877, la crisi del 1893 o, la caduta, nell’ultimo decennio dell’Ottocento, di due grandi banche quali il Credito Mobiliare e la Banca Generale, il crollo della Società bancaria del 1907 – su cui, in particolare, v. F. Bonelli, La crisi del 1907. Una tappa dello sviluppo industriale in Italia, Torino, 1971, pp. 93 ss. – e, infine, il noto caso del fallimento nel 1921 della Banca italiana di sconto, sui quali v. S. La Francesca, Vecchi e nuovi criteri per salvataggi e fallimenti, in G. Conti – A. Cova – S. La Francesca, Esperienze di crisi e regolazione bancaria in Italia: un approccio storico, Testi delle relazioni tenute nel ciclo di conferenze su “Storia di banche e di banchieri” nei giorni 3 ottobre; 24 ottobre e 14 novembre 2016 presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, pp. 58 ss. e 66 ss.; in argomento, v. altresì A. Cova, Difficoltà dell’economia e fallimenti di banche nell’Italia ‘agricola’ di fine Ottocento, in G. Conti – A. Cova – S. La Francesca, Le crisi bancarie in Italia nell’Ottocento e nel Novecento: cause e svolgimenti, Milano, 2014, pp. 9 ss.
[32] Per più dettagliati riferimenti, F. Parrillo, La funzione dei sistemi creditizi nell’economia contemporanea, cit., pp. 204 ss.
[33] G. Molle, La banca nell’ordinamento giuridico italiano, II ed. a cura di F. Maimeri, Milano, 1987, p. 257.
[34] E v., sul punto, F. Capriglione, Un secolo di regolazione, in L’ordinamento finanziario italiano, a cura di Id., Milano, 2010, T. I, p. 58 s., testo e note, ove ulteriori riferimenti in ordine ai primi fautori della costruzione teorica, che andava in quel momento affermandosi, secondo cui lo sviluppo economico del Paese non avrebbe potuto affidarsi unicamente alla iniziativa privata, dovendosi piuttosto ad essa affiancarsi forme d’imprenditorialità pubblica; per ciò che specificamente concerne il settore finanziario, nell’avviso di tale corrente ideologica, lo Stato avrebbe dovuto esser presente nell’economia quale titolare di imprese, ovvero assumendo il sostegno finanziario di iniziative economiche, ovvero ancora disciplinando particolari settori di attività e vigilando sullo svolgimento di esse (modello d’intervento, quest’ultimo, al quale, come noto, si sarebbe di lì a poco conformata l’azione statuale nell’ordinamento del credito).
[35] Significative, in tal senso, sono le parole di A. Scialoja, Relazione, in Progetto preliminare per il nuovo Codice di Commercio. Con le relazioni dei professori A. Arcangeli, A. Asquini, L. Bolaffio, G. Bonelli, U. Gobbi, U. Navarrini, A. Scialoja, G. Valeri, C. Vivante, Milano, 1922, p. 292, che avvertiva l’introduzione di una speciale legislazione in materia bancaria come ormai una «improrogabile necessità nell’interesse non solo dei risparmiatori, ma anche in quello generale del credito e dell’economia nazionale».
[36] Per un dettagliato esame dei progetti in discorso v. G. Ruta, Il sistema della legislazione bancaria, cit. pp. 70 ss.; in generale, R. Costi, L’ordinamento bancario, p. 39 s., segnala come i progetti in discorso rivelassero la consapevolezza che i problemi di liquidità si pongono in maniera diversa in dipendenza delle scadenze dei debiti contratti dagli istituti di credito, dacché l’attenzione di quei progetti era principalmente rivolta ai risparmi a vista e a breve (ossia a quei risparmi che in situazioni di panico possono compromettere la liquidità dell’ente); tale attenzione era rivelata, ad esempio, da previsioni tese a distinguere all’interno della stessa azienda bancaria una sezione autonoma per i depositi a vista, o dalla introduzione di strumenti di tutela tesi a contenere il panico dei risparmiatori e le corse al ritiro; tale differenza di trattamento «tra risparmio e risparmio» rivela che l’interesse tutelato, più che quello dei risparmiatori in quanto tali, era quello generale coinvolto dall’attività delle imprese bancarie.
[37] S. La Francesca, Vecchi e nuovi criteri per salvataggi e fallimenti, cit., p. 75.
[38] Il D.L. 6 maggio 1926, n. 812, convertito dalla l. 25 giugno 1926, n. 1262, unificò il servizio di emissione di biglietti di banca, riservando il relativo potere in capo alla sola Banca d’Italia.
[39] Artt. 2 r.d.l. n. 1511/1926, e da 5 a 9 r.d.l. n. 1830/1926.
[40] Art. 10 r.d.l. n. 1830/1926; l’albo conteneva le informazioni essenziali di ogni singola, quali: a) la denominazione; b) la forma di costituzione; c) gli estremi dell’atto costitutivo e la data di fondazione; d) il capitale o fondo di dotazione e le riserve, secondo le risultanze dell’ultimo bilancio; e) la sede centrale e quella delle filiali; f) la data di apertura, con riguardo alle sedi o filiali istituite od aperte dopo l’entrata in vigore del r.d.l. 7 settembre 1926, n. 1511.
[41] G. Dell’Amore, Il processo di costituzione della Banca centrale in Italia, in Aa.Vv., L’economia italiana dal 1861 al 1961. Studi nel I° centenario dell’Unità d’Italia, Milano, 1961, p. 399; in tali termini si esprime altresì F. Parrillo, La funzione dei sistemi creditizi nell’economia contemporanea, cit., p. 212.
[42] Per un’attenta disamina di cause ed obiettivi che stimolarono tale prima legislazione di sistema del settore creditizio, v. F. Belli, Legislazione bancaria italiana (1861-2003), Torino, 2004, pp. 122 s.
[43] Art. 19, comma 2, r.d.l. n. 1830/1926.
[44] Art. 19, comma 1, r.d.l. n. 1830/1926, o, come visto, nei casi di eccezionale gravità, financo a pena revoca dell’autorizzazione, (comma 2).
[45] Art. 4 r.d.l. n. 1511/1926, nonché artt. 12 e 13 r.d.l. n. 1830/1926.
[46] La riforma non prevedeva invece alcuna forma di c.d. vigilanza regolamentare, non essendo (ancora) stato conferito alla Banca d’Italia il potere di emanare disposizioni di carattere generale in tema di adeguatezza patrimoniale, governo societario, partecipazioni detenibili ecc.
[47] Come nota P. Vitale, Pubblico e privato nell’ordinamento bancario, Milano, 1977, p. 83.
[48] Trib. Roma, 18 marzo 1933, in Foro it., 1933, I, c. 1552 ss., con nota adesiva di A. Scialoja, La tutela del risparmio e la vigilanza sulle società bancarie; il caso deciso traeva origine da una società anonima esercente il credito e autorizzata a raccogliere depositi, quindi soggetta alla vigilanza dell’Istituto di emissione, che, nell’accingersi a convocare la propria assemblea per deliberare alcune modifiche statutarie (e in particolare la riduzione del numero dei componenti il Consiglio di amministrazione), ricevette una intimazione da parte dell’Ispettorato della Banca d’Italia a non dare corso alla programmata modifica statutaria, stante un paventato «pericolo di sottomettere la Banca senza difesa ai voleri e ai bisogni finanziari» delle società industriali controllate dalla medesima holding che controllava anche la banca. La società procedette comunque alla modifica statutaria; quindi, in sede di omologazione intervenne il Ministero delle finanze, chiedendo di negare la omologazione stessa. Il P.M. si associò alla detta richiesta, rilevando peraltro che le banche sottoposte a vigilanza «non possono procedere nello svolgimento della loro attività a mutamenti che possono comunque riuscire dannosi per quelle garenzie che debbono sempre sussistere a tutela e difesa del risparmio». Di contrario avviso, il Tribunale, nel preliminarmente rilevare che «in sede di controllo di legalità demandato al giudice (…) l’unica indagine è quella di esaminare se la deliberazione (…) sia stata presa in conformità con le disposizioni stabilite dalla legge e dallo statuto», rigettava la domanda del Ministero, sul presupposto per cui alcuna disposizione di legge fondava un potere di controllo della Banca d’Italia o del Ministero su deliberazioni organizzative come quella in questione, né un controllo di merito del giudice sulla opportunità o convenienza delle modifiche statutarie, ritenendo consimile esame «rimesso interamente alla volontà dell’ente sociale, volontà che si esprime nell’assemblea dei soci»; risolutamente critico A. Scialoja, La tutela del risparmio e la vigilanza sulle società bancarie, cit., nei riguardi dell’operato, nel caso in parola, dell’Istituto di emissione, del Ministero e del P.M., censurando l’intimazione della Banca d’Italia come «arbitraria ed illegale» oltreché «ingenua ed assurda» (c. 1553), e come «destituita di ogni fondamento giuridico una ingerenza amministrativa, come quella che è stata esercitata nel caso in esame, in cui dapprima (…) un Ispettore della Banca d’Italia, e poi (…) il Ministero delle finanze non ha sollevato questioni di legalità, bensì questioni di merito, pretendendo di dettare norme di condotta ad una società bancaria» (c. 1555).
[49] All’epoca ritenute tali, tra gli altri, da A. Scialoja, La tutela del risparmio, cit., c. 1556; e v. altresì G. Sangiorgio e F. Capriglione, La legge bancaria: evoluzione normativa e orientamenti esegetici, in Quaderni di Ricerca Giuridica della Consulenza Legale di Banca d’Italia, Roma, 1986, n. 7, p. 12 (ove pure ulteriori riferimenti), i quali notano che «il dibattito dottrinale sorto sui provvedimenti del ‘26 risente dei limiti della cultura giuridica del tempo, poco incline ad accettare un intervento legislativo destinato ad incidere sui caratteri e sull’operatività degli enti esercenti il credito» e che «gli strumenti amministrativi attorno ai quali ruota la legge (vigilanza dell’istituto di emissione, provvedimenti di autorizzazione etc.) dovettero risultare quanto meno inconsueti in una logica interpretativa che, fino a quel momento, aveva fatto considerare le banche esclusivamente sotto un profilo privatistico».
[50] Ai sensi dell’art. 15 del r.d.l. n. 1830/1926 il patrimonio delle aziende di credito, costituito dal capitale versato e dalle riserve, non avrebbe dovuto essere inferiore ad un ventesimo dell’importo dei depositi comunque costituiti; peraltro, le aziende aventi una somma di depositi di importo complessivo superiore a venti volte l’ammontare del patrimonio erano tenute a investire l’eccedenza in titoli di Stato o comunque garantiti dallo Stato, o, in alternativa, a versare quella eccedenza in conto corrente fruttifero presso l’Istituto di emissione (i.e. la Banca d’Italia).
[51] Su cui v. A. Graziani, Disciplina legislativa del fido bancario, in Foro it., 1930, I, c. 215 ss., nota a Trib. Perugia, 16 aprile 1929 (ivi riportata), che statuì la nullità parziale dei fidi concessi da un’azienda di credito in violazione della disposizione, per la parte di fido eccedente i limiti segnati dall’articolo medesimo.
[52] G. Sangiorgio e F. Capriglione, La legge bancaria, cit., p. 11.
[53] Una serie di interessi di carattere generale venivano infatti, dalla dottrina del tempo, riconosciuti come strettamente correlati con la sussistenza di una sana organizzazione bancaria, e segnatamente: «1° l’interesse che, col frequente ripetersi dei disastri bancari, non sia disanimato il risparmio, il quale ha bisogno all’incontro di essere incoraggiato, a vantaggio della produzione nazionale e sociale; 2° l’interesse che siano il più che possibile preservati il fondo sociale delle ricchezze ed il fondo delle ricchezze di ciascuna nazione da distruzioni di capitali, le quali sono alla radice di ogni dissesto bancario; 3° l’interesse, infine, che siano il più che possibile evitati turbamenti e scosse dell’apparato economico della circolazione» così N. Garrone, Il controllo delle banche di depositi, cit., p. 113 s., il quale, con riferimento all’interesse da ultimo menzionato, spiegava come dalla diffusione dei conti correnti bancari aveva al tempo tratto origine un mezzo sussidiario di circolazione, ovverosia lo chèque, per cui la tutela dei depositi comportava la tutela di tale particolare specie di circolazione, che in effetti compiva funzioni analoghe a quelle dei biglietti; merita rilevare che, sul punto, l’A. segnalava che «in alcuni degli Stati della Confederazione nord-americana, che hanno adottato il sistema della mutua assicurazione obbligatoria fra le banche mediante la costituzione di un fondo di garenzia gestito o controllato dallo Stato, la garenzia non è neppur destinata a favore dei depositanti a risparmio, ma esclusivamente a favore dei correntisti e dei possessori degli chèques»; per più approfonditi rilievi in ordine alla questione da ultimo segnalata, v. L. Einaudi, La garanzia dei depositi bancari. (A proposito di casi italiani e di esperienze americane), in Rivista bancaria. Minerva bancaria, 1922, pp. 269 ss., spec. p. 273. Per un consimile ordine di rilievi, v. altresì F. Belli, Legge bancaria e politica del credito, in Impresa, ambiente e pubblica amministrazione, 1975, p. 539 s., il quale osservava che «quando i sintomi del deterioramento del rapporto credito-accumulazione furono evidenti porsi obbiettivi di salvaguardia dei depositanti significò, di fatto, salvaguardare la capacità di raccolta – e, quindi, d’impiego – del sistema stesso, consapevoli che dietro lo schermo di un interesse “di categoria” [i.e. dei depositanti risparmiatori] si celava un interesse “generale”, riferibile all’attitudine del credito a rinnovare le proprie funzioni». Più in generale, R. Costi, L’ordinamento bancario, cit., pp. 39 s., nota come già al tempo fosse evidente che tutela dei depositi e tutela del risparmio tendenzialmente coincidono, «nel senso che entrambi si riconducono alla solvibilità dell’impresa bancaria e che quest’ultima dev’essere perseguita nell’interesse dello sviluppo dell’economia reale».
[54] Così, F. Giorgianni – C.M. Tardivo, op. cit., p. 13. E v. altresì A. De Gregorio, La legislazione italiana sulla tutela del credito, in Riv. dir. comm., 1929, I, pp. 30 ss.; F. Belli, Le leggi bancarie del 1926 e del 1936-1938, in Banca e industria fra le due guerre ** Le riforme istituzionali e il pensiero giuridico, Bologna, 1981, pp. 203 s.
[55] Ciò che è plasticamente evidente sin dall’articolo di apertura del r.d.l. n. 1830/1926, che circoscriveva il perimetro di applicazione delle disposizioni di cui ai due regi decreti alle aziende di credito «in quanto le aziende stesse raccolgano depositi». Come del resto rilevato da G. Ruta, Il sistema della legislazione bancaria, cit., p. 88 s., una delle principali lacune della legge del 1926 consisteva nel fatto che essa «mentre regolava il momento della raccolta del risparmio, nulla disponeva, per l’altro aspetto indissolubilmente al primo connesso, ma forse più delicato, dell’esercizio del credito, sì che tutta la disciplina ne risultava incompleta ed imperfetta».
[56] F. Vella, L’esercizio del credito, Milano, 1990, p. 31 s. perviene a prendere in considerazione l’ipotesi che l’ambito applicativo della disciplina del 1926 prescindesse completamente dall’esercizio del credito, salvo poi ritenerla «forse troppo drastica», stante il fatto che oggetto dei controlli rimanevano pur sempre società ed enti “esercenti il credito”, e che essi venivano comunque assoggettati a vincoli in relazione alle operazioni attive; innegabile rimaneva comunque, ad avviso dell’A. (p. 32), l’“indeterminatezza” della nozione stesa di esercizio del credito nella normativa del 1926, significativo in tal senso essendo che tra i requisiti dell’autorizzazione figurasse la indicazione «della specie di attività bancaria che si propone di esplicare», ciò che costituiva esplicita ammissione della possibilità di una molteplicità di impieghi diversi.
[57] Gli effetti della crisi industriale del 1929 furono acuiti dalla stretta interconnessione sussistente tra banca e industria nel sistema bancario italiano: non ponendo limitazioni specifiche all’assunzione di partecipazioni industriali da parte delle banche, la legge del 1926 aveva infatti consentito l’adozione (e, quindi, il diffondersi) del modello della c.d. “banca mista”, che non correlava le diverse forme di raccolta a distinte forme d’impiego, e dunque permetteva l’impiego sia dei depositi raccolti a medio-lungo termine sia di quelli raccolti a breve tanto in operazioni a breve quanto in progetti a medio-lungo termine. Sicché la banca mista si caratterizzava per uno strutturale disequilibrio temporale tra raccolta ed impieghi (disequilibrio acuito dalla specificità del paradigma imprenditoriale bancario, definito da P. Vitale, Pubblico e privato nell’ordinamento bancario, cit., p. 80, «schizoide», poiché per realizzare operazioni di credito deve sempre negare, nei confronti della massa dei depositanti, e al contempo riaffermare, nei confronti del singolo depositante, il proprio status di “cassa”). Ebbene, i riverberi della crisi industriale sul comparto bancario furono in Italia deflagranti anche per via della massiccia acquisizione, da parte di banche miste (talora trasformatesi in holding industriali), di partecipazioni rilevanti nel capitale di imprese industriali cui appunto venivano erogati finanziamenti tesi a sostenere i relativi titoli, detenuti in portafoglio dalle banche medesime. Su cause ed implicazioni dell’intreccio – rischioso proprio perché non regolamentato – tra banca e industria, sussistente all’epoca della grande crisi, v., tra gli altri, F. Capriglione, Un secolo di regolazione, cit., pp. 69 ss.
[58] E v., per i riferimenti sul punto, G. Molle, La banca nell’ordinamento giuridico italiano, cit., p. 259, nt. 4.
[59] La prima tappa normativa del corpus normativo suaccennato è costituita dall’emanazione del r.d.l. 12 marzo 1936, n. 375, recante disposizioni per la difesa del risparmio e per la disciplina della funzione creditizia; quindi, venne emanato il r.d.l. 17 luglio 1937, n. 1400 che sostanzialmente riscrisse il r.d.l. 12 marzo 1936, n. 375, di cui peraltro aveva la medesima rubrica; ai sensi dell’art. 106 di questo secondo r.d.l., le disposizioni del primo venivano sostituite e dunque abrogate; entrambi i regi decreti legge vennero poi convertiti, con modificazioni, in legge rispettivamente dalla l. 7 marzo 1938, n. 141 – che rimise in vigore il primo r.d.l. – e dalla l. 7 aprile 1938, n. 6363; per un coordinamento della risultante della tortuosa somma algebrica di abrogazioni e “reviviscenze” di cui all’intreccio dei suddetti atti normativi, v. G. Ruta, Il sistema della legislazione bancaria, cit., pp. 81 ss.; il corpus “legge bancaria” venne poi arricchito da una serie di fonti sostitutive, abrogative, modificative e integrative, ossia: l. 10 giugno 1940, n. 933; DD.L. Lgt. 14 settembre 1944, n. 226; D.L.C.P.S. 23 agosto 1946, n. 370, convertito nella l. 5 gennaio 1953, n. 30; D.L.C.P.S. 17 luglio 1947, n. 691, convertito nella l. 17 luglio 1956, n. 561; D.L. 20 gennaio 1948, n. 10; l. 22 dicembre 1956, n. 1589; d.P.R. 12 febbraio 1963, n. 369. In appresso, i riferimenti agli articoli della legge bancaria s’intenderanno fatti all’articolato del r.d.l. 12 marzo 1936, n. 375, per come modificato e integrato dai successivi interventi normativi.
Sulla complessa genesi storica della disciplina di cui trattasi (frutto del disegno di ristrutturazione generale del settore creditizio concepito negli ambienti dell’IRI, che «scrisse» la legge bancaria, «la sollecitò e ne elaborò la filosofia», come rileva M. Porzio, La legge bancaria: un tentativo di intervento globale sul mercato del credito, in Id. (a cura di), La legge bancaria. Note e documenti sulla sua storia segreta, Bologna, 1981, p. 13) v., tra gli altri, G. Ruta, Il processo di formazione della legge bancaria, in Bancaria, 1966, pp. 809 ss.; S. Cassese, Documenti sulla preparazione della riforma bancaria del 1936 in Italia, in Storia contemporanea, 1974, p. 3 ss. (e in Economia e credito, 1975, p. 996 ss.); Id, Come è nata la legge bancaria del 1936?, Roma, 1988; A. Nigro, La “storia segreta” della legge bancaria del 1936, in Riv. soc., 1982, pp. 1193 ss.
[60] F. Giorgianni – C.M. Tardivo, op. cit., p. 13; M. S. Giannini, Osservazioni sulla disciplina della funzione creditizia, in Scritti giuridici in onore di Santi Romano, Vol. II, Padova, 1939, p. 707; Id, Istituti di credito e servizi di interesse pubblico, in Moneta e credito, 1949, p. 105; G. Ferri, La validità attuale della legge bancaria, in Riv. dir. comm., 1974, I, p. 129 s.
[61] Come chiarito da G. Ruta, Il sistema della legislazione bancaria, cit., p. 88. E v. anche M. S. Giannini, Istituti di credito e servizi di interesse pubblico, cit., p. 105, il quale sottolinea come prima della riforma del 1936 l’attività creditizia fosse disciplinata in modo negativo, ossia secondo criteri di «polizia dell’economia».
[62] E v. ad esempio G. Sangiorgio e F. Capriglione, La legge bancaria, cit., pp. 14 ss.; P. Vitale, Pubblico e privato nell’ordinamento bancario, cit., pp. 96 e 101 s., il quale avvertiva l’impressione della intervenuta sottoposizione del settore del credito a intensi controllo e dirigismo; G. Ferri, Considerazioni preliminari sull’impresa bancaria, in Banca borsa, 1969, I, p. 325, il quale nota come l’innovazione al sistema recata dalla riforma del 1936 rispetto alla legislazione del 1926 si possa cogliere già considerando la diversa rubrica degli interventi normativi in parola, essendo i decreti del ‘26 rivolti alla “tutela del risparmio”, ed invece le leggi del ‘36-38 al più ambizioso ed ampio scopo della “difesa del risparmio e per la disciplina della funzione creditizia”; G. Molle, La banca nell’ordinamento giuridico italiano, cit., p. 263 s.; R. Costi, L’ordinamento bancario, cit., pp. 57 s.; F. Capriglione, Un secolo di regolazione, cit., pp. 77 ss. Sul punto s’avrà modo di tornare infra, nel testo; basti per il momento porsi mente alle parole, in tal senso emblematiche, di Mussolini nel discorso pronunciato alla seconda Assemblea Nazionale delle Corporazioni il 23 marzo 1936 (leggibili, ad es., in J. Mazzei, Politica economica internazionale, in Rivista Internazionale di Scienze Sociali, 1937, serie III, p. 618): «per quanto riguarda il settore del credito che sta all’economia come il sangue all’organismo umano i recenti provvedimenti lo hanno logicamente portato sotto il controllo diretto dello Stato. Questo settore è per mille ragioni di assoluta pertinenza dello Stato».
[63] M. S. Giannini, Osservazioni sulla disciplina della funzione creditizia, cit. p. 729 e ss.; Id., Istituti di credito e servizi di interesse pubblico, cit., p. 105.
[64] E v., per i relativi riferimenti, G. Sangiorgio e F. Capriglione, La legge bancaria, cit., p. 16.
[65] Per sommissimi capi, fra le linee direttive e i principi di fondo della normativa in discorso si segnalano: a) la dettagliata e penetrante regolazione (sia pur con la flessibilità della tecnica normativa “in bianco”, propria di una legge quadro che attribuiva competenze normative in capo ad autorità di settore) di organizzazione e operatività dei soggetti dell’ordinamento del credito, ossia gli operatori economici del settore (imprese individuali, società, istituti pubblici e banche di interesse nazionale) e gli organismi cui era deferita la vigilanza sui primi (Ministero del Tesoro, Comitato interministeriale, Ispettorato per la difesa del risparmio e per l’esercizio del credito, i poteri e compiti del quale ultimo furono poi devoluti, ai sensi dell’art. 2 D.L.C.P.S. 17 luglio 1947, n. 691, alla Banca d’Italia, che peraltro la legge bancaria, al Titolo III, dichiarava Istituto di diritto pubblico, interdicendole di svolgere operazioni di sconto con clientela privata e consentendole operazioni di risconto unicamente nei confronti delle aziende di credito; la funzione di banca centrale si consolidava dunque in capo alla Banca d’Italia, denominata anche “Istituto di emissione”, istituzionalmente titolare del potere di emettere biglietti ed erogatrice del credito di ultima istanza del comparto bancario); b) la introduzione di un sistema di controlli deferiti alla testé cennata articolata struttura pubblicistica – diversificati in ragione della tipologia di soggetto sottoposto a vigilanza ovvero del genere di attività controllata – riguardanti non unicamente la “stretta legalità formale” ma anche il merito dei vari ordini di iniziative relative, tra l’altro, alla istituzione e modifica di enti creditizi, al volume dei fidi, ai modi di raccolta del risparmio, alla tenuta dei bilanci; c) la c.d. “specializzazione temporale”, che segnò la netta separazione tra le “aziende di credito” e gli “istituti di credito”; le prime erano istituti, imprese ed enti di natura pubblica o privata che raccoglievano risparmio ed erogavano credito a breve termine, definite anche “banche commerciali” in ragione dell’esercizio della relativa attività principalmente nei confronti del commercio, ed erano dettagliatamente disciplinate al Titolo V; le aziende di credito rappresentavano il classico modello di banca di deposito, la cui attività si rivolgeva principalmente verso il commercio, da cui la espressione di “banca commerciale” con cui si soleva riferirsi alle banche de quibus; i secondi consistevano in banche operanti a medio e lungo termine, per lo più disciplinate da leggi speciali tese a favorire il credito in determinati settori, come quello fondiario, agrario, sportivo o delle opere pubbliche; a tali istituti di credito era specificamente dedicato il Titolo VI, che, a differenza del Titolo V, non dettava una disciplina particolareggiata in ordine alla organizzazione e attività degli enti, limitandosi piuttosto a trasferire in capo alle nuove autorità di vigilanza le attribuzioni sino a quel momento deferite a diversi organi amministrativi dalle leggi dedicate ai crediti speciali; d) introduzione, ai capi II e III del Titolo VII della Legge, degli istituti dell’amministrazione straordinaria e della liquidazione coatta amministrativa per le aziende di credito, a riconferma dell’attenzione del legislatore, da tempo ormai risalente, all’aspetto della speciale regolazione della crisi degli enti creditizi; e) l’abbandono dello schema della banca mista (di cui s’è detto supra) e l’adozione del modello di banca pura, in uno con l’affermazione (anche sulla base della correlazione tra raccolta e impieghi attraverso i testé ricordati vincoli di specializzazione) del principio di separatezza tra banca e industria, tale per cui l’assunzione di partecipazioni in società industriali veniva sottoposta all’autorizzazione dell’autorità creditizia, che aveva altresì il potere di fissare il rapporto massimo tra patrimonio dell’ente e ammontare dei fondi impiegati in partecipazioni; talché, se alle aziende di credito, che raccoglievano a breve o a vista, era interdetto di assumere qualsivoglia partecipazione industriale, ancorché non di controllo o di entità esigua rispetto al patrimonio dell’azienda, agli istituti di credito, in ragione della scadenza a medio-lungo termine della loro provvista e dunque del minore rischio di liquidità, fu permesso entro certi limiti di detenere partecipazioni in imprese attive nei settori nel cui finanziamento gli istituti erano specializzati; fermo sempre rimanendo il divieto di assumere partecipazioni di controllo (e quindi di ingerenza nella gestione) dell’impresa partecipata.
Per un inquadramento di massima dei criteri informatori e degli obiettivi fondamentali della legge bancaria del 1936-1938, nonché dei relativi problemi, si fa rinvio, tra la vastissima produzione dottrinale dedicata alla materia, anche per ulteriori riferimenti bibliografici ai seguenti contributi: F. Messineo, Postille sulla nuova legislazione bancaria, in Banca borsa, 1936, pp. 158 ss.; P. Greco, La nuova disciplina bancaria. (R. D. L. 12 marzo 1936. n. 375), in Riv. dir. comm., 1936, pp. 426 ss.; M. S. Giannini, Osservazioni sulla disciplina della funzione creditizia, cit., pp. 707 ss.; M. Nigro, Profili pubblicistici del credito, Milano, 1969; G. Ferri, op. ult. cit., pp. 129 ss.; F. Parrillo, Valore e ruolo della legge bancaria nel sistema creditizio italiano, in Aa.Vv., Il sistema bancario italiano e l’evoluzione della sua disciplina e delle sue strutture, Bologna, 1975, pp. 9 ss.; F. Belli, Le leggi bancarie del 1926 e del 1936-1938, cit., pp. 203 ss.; F. Merusi, I tratti peculiari dell’ordinamento creditizio italiano nella comparazione con le leggi bancarie degli anni trenta, in Aa.Vv., Banca e industria fra le due guerre ** Le riforme istituzionali e il pensiero giuridico, Bologna, 1981, pp. 336 ss.; F. Carbonetti, I cinquant’anni della legge bancaria, in Quaderni di Ricerca Giuridica della Consulenza Legale di Banca d’Italia, Roma, 1986, n. 10; F. Capriglione, Un secolo di regolazione, cit., pp. 72 ss.
[66] P. Ferro-Luzzi, Lezioni di diritto bancario. Dettate dal prof. Paolo Ferro-Luzzi. Volume I: Parte generale, Torino, 2012, p. 76.
[67] G. Ruta, Il sistema della legislazione bancaria, cit., p. 131, ove anche ulteriori riferimenti.
[68] P. Vitale, Pubblico e privato nell’ordinamento bancario, cit. p. 98; cfr. altresì G. Vignocchi, Il servizio del credito nell’ordinamento pubblicistico italiano, Milano, 1968, pp. 76 ss., il quale, pur riconoscendo che nella legislazione del 1936-1938 i due momenti fondamentali della raccolta del risparmio e della erogazione del credito venivano concepiti in stretta connessione e coordinazione tra loro, rilevava che la disciplina non escludeva in via assoluta che anche uno solo di tali elementi – e in specie quello della raccolta – potesse determinare la rilevanza dell’attività ai fini della applicazione della disciplina medesima.
[69] C. Brescia Morra, Il diritto delle banche. Le regole dell’attività, cit., pp. 32 s.
[70] R. Costi, L’ordinamento bancario, cit., p. 57, spec. nt. 63, ove anche ulteriori riferimenti.
[71] Cfr. C. Brescia Morra, Il diritto delle banche. Le regole dell’attività, cit., p. 65.
[72] Malgrado la dottrina, anzitutto commercialistica, si attestasse su posizioni di propensione alla conservazione della distinzione dei due sistemi, civile e commerciale – e v. C. Vivante, L’autonomia del diritto commerciale e i progetti di riforma, in Riv. dir. comm., 1925, I, pp. 572 ss.; A. Asquini, Codice di commercio, codice dei commercianti o codice unico di diritto privato?, in Riv. dir. comm., 1927, I, pp. 507 ss.; L. Mossa, Per il nuovo codice di commercio, in Riv. dir. comm., 1928, I, pp. 16 ss. – e nonostante anche la politica sembrasse propensa al mantenimento del dualismo, come dimostrano i progetti di un nuovo Codice di commercio avviati nei primi decenni del Novecento, la materia del commercio venne infine collocata nell’ambito del libro quinto del codice civile, dedicato al lavoro: le ragioni di una tale opzione si spiegano sulla scorta dell’allora dominante ideologia fascista, «la quale cercava, attraverso la riconduzione ad unità sotto il segno del lavoro, di comporre i conflitti di classe nel nome di una nuova pace sociale: anche l’imprenditore doveva essere visto come un lavoratore e il suo profitto come la ricompensa dell’opera che egli prestava», così M. Cian, Introduzione. Il diritto commerciale. Nozione, storia, fonti, in Manuale di diritto commerciale, a cura di Id., Torino, 2018, p. 4; e sull’argomento v. altresì R. Teti, Codice civile e regime fascista, Milano, 1990, e N. Rondinone, Storia inedita della codificazione civile, Milano, 2003.
[73] Un mutamento condizionante, di necessità, in radice premesse e questioni nodali proprie anche delle consderazioni che qui si svolgono, e che segnò una «svolta storica», perlomeno nell’autorevole avviso di Alberto Asquini, come riferito da G. Ferri, voce Diritto commerciale, in Enciclopedia del Diritto, XII, Milano, 1964 (ora in Scritti giuridici, I), pp. 921 ss., spec. p. 924.
[74] G. Cian, Diritto civile e diritto commerciale oltre il sistema dei codici, in Riv. dir. civ., 1974, I, pp. 523 ss., spec. p. 540.
[75] Per un approfondimento di tali generalissime considerazioni, v., ex plurimis, G. Oppo, Codice civile e diritto commerciale, Riv. dir. civ., 1993, I, pp. 224 ss., ove il rilievo secondo cui l’unificazione dei codici ha realizzata altresì «l’unificazione del diritto degli atti» (p. 226); Id, L’impresa come fattispecie, in Riv. dir. civ., 1982, I, pp. 109 ss.; G. Cian, Contratti civili, contratti commerciali e contratti d’impresa: valore sistematico-ermeneutico delle classificazioni, in Riv. dir. civ., 2004, I, p. 849, che rileva come «il riconoscimento della superiorità, nella individuazione della materia commercialistica, del c.d. sistema soggettivo caratterizzato dal riferimento delle norme alla impresa (rectius, al titolare di questa) e alla sua attività, rispetto al sistema c.d. oggettivo (che concepisce la fattispecie delle norme come aventi ad oggetto l’atto di commercio, almeno in teoria non importa da quale soggetto compiuto): un sistema, questo secondo, storicamente condizionato nel suo sorgere dall’ideologia anticorporativistica della rivoluzione francese, e in realtà un sistema ibrido già nel suo prototipo (…) nella elencazione degli atti di commercio a volte si fa riferimento non già al singolo negozio come tale, ma allo svolgimento di attività commerciali, il che necessariamente comporta la presenza di un soggetto che tali attività svolga»; v. altresì S. Delle Monache, “Commercializzazione” del diritto civile (e viceversa), in Riv. dir. civ., 2012, I, pp. 489 ss., il quale sottolinea come a valle dell’abbandono del Codice di commercio, corpo organico di norme speciali relative ad un determinato complesso di rapporti giuridici, sia rimasto «il regolamento di una mera condizione soggettiva o di uno status [quello proprio dell’imprenditore, n.d.r.], il quale solo talvolta si riflette sulla disciplina degli atti compiuti da chi ne sia investito (si pensi, ad es., agli artt. 1330 e 1368, comma 2°, c.c.)»; tale ultimo A. rimarca inoltre come «il diritto commerciale abbia acquisito nella legislazione vigente un suo autonomo spazio, in realtà, quale diritto connotato in ragione del proprio oggetto: le attività economiche organizzate in forma imprenditoriale, ma intese nella loro dimensione complessiva e unitaria, non per i singoli atti in cui si traducono»; afferma la imprescindibilità, nel diritto commerciale, di «una disciplina dell’attività, considerata come fattispecie unica», G. Auletta, L’impresa dal codice di commercio del 1882 al codice civile del 1942, cit., p. 73 ss.
[76] In tal senso, F. Carbonetti, I cinquant’anni della legge bancaria, cit., p. 16.
[77] Come suggerisce P. Vitale, Pubblico e privato nell’ordinamento bancario, cit., p. 98.
[78] Come nota M. S. Giannini, Aspetti giuridici della liquidità bancaria, in Atti del primo convegno internazionale del credito, vol. IV, Roma, 1954, p. 141.
[79] La compiuta comprensione del problema imporrebbe di spingersi oltre l’esegesi normativa, e di analizzare le “componenti strumentalizzanti” nell’ambito del contesto storico, economico e politico concreto di riferimento, nonché l’effettivo funzionamento dei fenomeni economici cui le norme tendevano, e di vagliare in generale tutti gli indici da cui inferire l’effettivo grado di funzionalizzazione dell’attività delle banche a fini di politica economica.
[80] Così G. Molle, La banca nell’ordinamento giuridico italiano, cit., p. 22; cfr. altresì G. Oppo, Libertà d’iniziativa e attività bancaria, in Riv. dir. civ., 1990, I, pp. 469 ss., ad avviso del quale non sarebbe possibile contrapporre le previsioni degli artt. 41 e 47 Cost, come ispirate l’una a “libertà” e l’altra all’intervento pubblico, potendosi piuttosto cogliere nella seconda i fondamenti delle possibili limitazioni della libertà d’iniziativa annunciate dall’art. 41 stesso, senza tuttavia potersi perciò ritenere sacrificato lo spazio assegnato all’iniziativa economica in genere dalla medesima norma.
[81] F. Parrillo, Valore e ruolo della legge bancaria nel sistema creditizio italiano, cit., p. 15, intendendo con tale espressione («principio di difesa integrale del risparmio») che la legge in parola non ha riguardo alla sola forma di risparmio costituita dal deposito bancario, estendendosi piuttosto «a tutte le forme in cui il risparmio si può presentare (risparmio bancario, postale, assicurativo, azionario, obbligazionario, di borsa ecc.) senza veruna distinzione rispetto alla durata della raccolta (a breve, a medio ed a lungo termine), alla natura (volontario ed obbligatorio, monetario e reale) ed agli enti ed altre istituzioni che, attraverso le modalità ed i mezzi consentiti, lo raccolgono (Stato, banche, Casse postali, istituti previdenziali, assicurativi, finanziari, imprese pubbliche e private ecc.)».
[82] M. Nigro, Profili pubblicistici del credito, cit., pp. 33 ss.; v. anche Id., Il sistema bancario tra neutralità tecnica ed impegno politico, in Banca borsa, 1974, pp. 385 ss., il quale affermava la sussistenza di un «impegno politico del sistema bancario» quale «fenomeno oggettivo» consistente nella «pura esistenza di un collegamento tra politica e banca».
[83] Su cui v. A. Nigro, Banche private e banche pubbliche: definizione dell’oggetto e limiti dell’attività, in Riv. dir. comm., 1972, I, pp. 57 ss.
[84] M. Nigro, Profili pubblicistici del credito, cit., pp. 112 ss.
[85] Il riferimento è a M. S. Giannini, Istituti di credito e servizi di interesse pubblico, cit., pp. 105 ss.
[86] M. S. Giannini, ivi, pp. 106 ss., spec. 110 e 111, ove l’A. era perentorio nell’escludere la possibilità che esistano servizi qualificabili come pubblici, la cui titolarità sia però attribuita a soggetti diversi dallo Stato in esercizio professionale: «del pubblico servizio titolare è sempre e unicamente lo Stato»; e, con riguardo specifico agli istituti di credito, escludeva alla luce del diritto positivo che essi rappresentassero una figura di esercizio non statale di un pubblico servizio, dal momento che nessuna norma attribuiva allo Stato l’attività creditizia, il cui esercizio poi lo Stato medesimo avrebbe trasferito agli istituti di credito.
[87] In primo luogo M. S. Giannini, ivi, p. 105, individuava nella «funzionalizzazione giuridica dell’attività creditizia» uno dei caratteri salienti dell’ordinamento creditizio instaurato nel 1936-1938; quindi, l’A. sosteneva che l’attività creditizia costituisse un servizio di pubblico interesse, intendendosi in tal senso l’articolo di apertura della legge bancaria, non avendo il lessema “funzione” un significato strettamente giuridico, bensì un significato puramente lessicale di attività diretta ad uno scopo (p. 113).
[88] Ad avviso di M. S. Giannini, ivi, p. 111, in sintesi per ordinamenti giuridici sezionali (o di settore), dovrebbero intendersi gli ordinamenti che abbiano le seguenti caratteristiche: a) siano limitati ai soggetti che svolgono una determinata attività; b) siano “particolari”, in quanto istituiti ad uno scopo particolare, e non generale; c) siano “derivati”, ovverosia istituiti, modificati o soppressi da leggi dello Stato; d) siano “normativamente atipici”, nella misura in cui la loro normazione risulti costituita sia da atti normativi dello Stato che da atti del pubblico potere che li regge, dunque da atti che assumono valore normativo all’interno dell’ordinamento sezionale. Di tali ordinamenti costituivano esempi l’ordinamento delle farmacie, quello dei servizi di trasporti di piazza, quello delle fabbricazioni di guerra in tempo di guerra, quello dei medici, quello delle imprese di navigazione di interesse nazionale, ecc. Dunque, come chiarito da G. Molle, La banca nell’ordinamento giuridico italiano, cit., p. 22, trattasi di un ordinamento chiuso, al cui interno i criteri di interpretazione e di integrazione delle norme che regolano i soggetti e la loro attività dovrebbero essere ricercati all’interno dell’ordinamento medesimo, e solo in via sussidiaria tra le norme di diritto comune che disciplinano la struttura e l’attività dei soggetti.
[89] L’ordinamento sezionale è contrassegnato dalla presenza di una pluralità di soggetti giuridici, che svolgono attività rette dal diritto privato e che, riuniti, formano un «gruppo sezionale»; ciascuno di essi «è e resta un privato imprenditore che sopporta i rischi dell’impresa e da essa trae i suoi incentivi e i suoi lucri», ma al contempo «i pubblici poteri hanno però possibilità di dirigere, in tutto o in parte, le varie attività secondo scopi pubblici» (M. S. Giannini, op. ult. cit., p. 113). Nel caso del settore bancario, il relativo ordinamento sezionale aveva, ad avviso dell’A. in discorso, carattere chiuso, disponendo l’art. 29 della legge bancaria la formazione di un albo degli istituti «che in realtà è più che un albo: è un registro»; l’autorizzazione all’esercizio del credito costituirebbe al contempo autorizzazione in senso proprio e ammissione nell’ordinamento bancario sezionale (p. 113). Essendo poi l’attività bancaria di pubblico interesse, essa poteva esser svolta sia da enti privati (aventi comunque la qualità di enti di interesse pubblico) che da enti pubblici (tali per ragioni loro specifiche) (p. 114).
[90] Per quel che attiene all’’organizzazione, l’ordinamento creditizio era articolato sui seguenti organi e uffici: Ministero del Tesoro, Comitato interministeriale per il credito e Banca d’Italia in funzione d’ispettorato; i primi due, rispetto all’ordinamento bancario, avrebbero rappresentato i supremi organi costituzionali, propri cioè della «costituzione in senso stretto dell’ordinamento bancario», mentre alla Banca d’Italia erano conferite attribuzioni normative, direttive, di alta amministrazione e di controllo (M. S. Giannini, op. ult. cit., p. 115).
[91] Per quel che concerne la normazione dell’ordinamento bancario essa si componeva di due frazioni: norme dell’ordinamento generale (i.e. statali) e norme (comunque giuridiche) proprie dell’ordinamento sezionale, ovverosia fonti secondarie quali, ad esempio, gli atti del Comitato interministeriale e le istruzioni della Banca d’Italia: essendo, nella ricostruzione di M. S. Giannini, op. ult. cit., p. 117, gli ordinamenti sezionali integralmente “derivati”, era lo Stato a stabilire, con proprie leggi, sia quali materie dell’ordinamento sezionale dovessero essere regolate da norme interne, sia con quali procedure e con quali effetti; sicché, gli atti normativi interni all’ordinamento sezionale avrebbero dovuto qualificarsi atti normativi rispetto all’ordinamento settoriale medesimo, ed atti amministrativi rispetto all’ordinamento generale.
[92] G. Vignocchi, Il servizio del credito nell’ordinamento pubblicistico italiano, cit., pp. 6, 40, 52 ss., e passim, il quale, peraltro, sottolineava come le numerose disposizioni di carattere pubblicistico, in gran parte recanti norme di diritto amministrativo, regolassero un sistema del credito ispirato a finalità pubblicistiche, fermi carattere e natura di attività commerciale dell’attività bancaria, quale che fosse la natura dei soggetti (pubblici o privati) che la esplicavano (p. 30); v. altresì G. Ruta, Il sistema della legislazione bancaria, cit., p. 240, che ravvisava un processo in allora in atto di trasformazione del settore bancario in un’organizzazione strutturalmente e teleologicamente preordinata al conseguimento di finalità pubbliche.
[93] G. Vignocchi, ivi, pp. 33 ss., sul presupposto che attraverso l’esercizio del credito, invece che alla manifestazione di sovranità e imperium di organi amministrativi (ciò che sarebbe tipica espressione di una “funzione”, che appunto sottende l’affermazione di un potere di supremazia, come chiarito da M. S. Giannini, Osservazioni sulla disciplina della funzione creditizia, cit., p. 721), si tendeva allo svolgimento di una serie di prestazioni economiche a vantaggio della collettività.
[94] In tal senso, v. anche G. Ruta, Il sistema della legislazione bancaria, cit., pp. 142 s.
[95] G. Vignocchi, ivi, p. 68, riferendosi alla relazione del Presidente dell’Associazione nazionale delle aziende ordinarie di credito all’assemblea generale dell’8 novembre 1957.
[96] G. Dell’Amore, Passato, presente e futuro delle Casse di risparmio italiane, cit., p. 180, il quale riteneva «auspicabile che anche gli istituti di natura formalmente o sostanzialmente privata si sforzino di temperare sempre più le loro finalità lucrative, ispirando maggiormente la propria attività ad esigenze sociali, anche se questo comporti la rinuncia alla censurabile caccia ai depositi di cui ha dato deplorevole esempio l’Italia in questi ultimi anni e alle diffuse preferenze per gli impieghi che appaiono più redditizi da un punto di vista esclusivamente aziendale».
[97] G. Dell’Amore, op. ult. cit., p. 178 s., che censurava come anche gli amministratori di aziende di credito di natura sostanzialmente pubblica mirassero alla realizzazione di soddisfacenti utili di esercizio, per annualmente corrispondere alle aspettative dell’azionariato (rappresentato totalmente o parzialmente dallo Stato): «anche se tali istituti [di natura pubblica, n.d.r.] sono bene amministrati, con indirizzi ispirati ad esigenze di natura sociale, la necessità di chiudere gli annuali bilanci con utili adeguati incide fatalmente tanto sulla politica di raccolta, quanto su quella degli investimenti», nella misura in cui la prima veniva sovente orientata all’obbiettivo di incrementare il più possibile i depositi, sul presupposto, ad avviso dell’A. errato, che detto incremento offrisse la più espressiva misura della capacità di gestione dell’azienda; con riferimento alla politica degli investimenti, l’A. criticava la tendenza a preferire quelli più redditizi per l’azienda, «dando spesso scarso peso alla loro immediata o futura incidenza sulle condizioni economiche e morali del Paese». Merita peraltro al riguardo segnalare che S. Cassese, Miti e realtà delle banche pubbliche, in Banca borsa, 1982, I, p. 103, proponeva la tesi per cui gli enti creditizi pubblici erano «istituti-enti pubblici anomali, nel senso che non hanno fini e controlli pubblici»; contra, R. Costi, L’ordinamento bancario, cit., pp. 273 s., ritiene non condivisibile la tesi testé riferita dacché postulante l’esistenza di enti pubblici che non perseguissero fini pubblici; rileva, peraltro, sul punto l’A. da ultimo citato che l’interesse pubblico può consistere anche «nell’esercizio dell’attività in quanto tale», ciò non contraddicendo il carattere di economicità che deve contrassegnare la gestione dell’ente pubblico imprenditore; dunque, ad avviso dell’A., in assenza di diverse disposizioni legislative, il perseguimento di finalità pubbliche non avrebbe comportato né il riconoscimento di una speciale capacità in capo agli enti creditizi pubblici, né la funzionalizzazione delle relative imprese; fermo restando che, in forza di speciali previsioni legislative, le autorità creditizie ben potevano esercitare poteri più penetranti nei confronti di determinati enti creditizi pubblici, anche a livello di indirizzo operativo, e dunque di sostanziale funzionalizzazione.
[98] G. Ruta, Il sistema della legislazione bancaria, cit., pp. 242 s.
[99] Tra cui, da ultimo, si v. G. Napolitano, L’intervento dello Stato nel sistema bancario e i nuovi profili pubblicistici del credito, in Giornale di diritto amministrativo, 2009, pp. 429 ss.; G. Sciascia, I profili pubblicistici del credito tra dimensione nazionale e innovazioni sovranazionali, in Rivista Trimestrale di Diritto Pubblico, 2017, pp. 413 ss.; G. Befani, L’evoluzione pubblicistica del «governo delle banche» tra stato e mercato, in P.A. Persona e Amministrazione, 2018, pp. 429 ss.; A. Clini, Ordinamento sezionale del credito e diritti fondamentali della persona, in P.A. Persona e Amministrazione, 2019, pp. 137 ss.
[100] M. Nigro, Profili pubblicistici del credito, cit., pp. 36 s.
[101] P. Vitale, Pubblico e privato nell’ordinamento bancario, cit., p. 20. G. Ruta, Lineamenti di legislazione bancaria, Roma, 1965, pp. 137 s., sottolineava che l’attribuzione della natura di pubblico servizio oggettivamente considerato all’attività bancaria non poteva comunque incidere sulla fondamentale libertà del banchiere di determinarsi ai rapporti contrattuali, rapporti senza dubbio assoggettati al diritto privato, e perveniva ad affermare che la minuziosa disciplina bancaria, pur interferendo nella concreta attività operativa di aziende e istituti di credito, non influiva sullo spirito di iniziativa, sulla responsabilità e sulla libertà decisionale e di manovra essenziali nell’attività bancaria, non sovrapponendo, dunque, la determinante influenza dello Stato all’attività del banchiere.
[102] G. Ferri, Considerazioni preliminari sull’impresa bancaria, cit., p. 333, il quale appunto rileva che i controlli e i poteri di direttiva erano tesi «non a indirizzare l’iniziativa economica della banca, in funzione di una politica produttivistica unitaria», bensì «alla contemporanea realizzazione di un interesse generale (quello che le quantità monetarie disponibili siano investite nel processo produttivo) e di un interesse particolare (quello dei risparmiatori, di poter soddisfare, quando si presentino, quei bisogni in vista dei quali hanno rinunciato al soddisfacimento dei bisogni attuali)».
[103] G. Ferri, op. ult. cit., p. 333. Per l’esattezza, tale dottrina operava un fondamentale distinguo tra la disciplina del credito a medio o lungo termine da quello a breve termine: soltanto il primo, riservato agli istituti di credito – in effetti, quasi tutti enti pubblici – «si pone effettivamente come strumento diretto di politica economica creditizia»; viceversa per le aziende di credito l’ispirazione di fondo della relativa disciplina rimaneva comunque tesa alla tutela dei risparmiatori, attraverso la sottoposizione a controlli e vincoli infine mirati a garantire la sana gestione, la solidità e la liquidità delle aziende medesime (p. 326 s.).
[104] G. Ferri, op. ult. cit., pp. 327 s.; la critica, in sintesi massima, era articolata come segue: «se l’attività bancaria è funzione pubblica, l’esercizio dell’attività bancaria è esercizio di un pubblico servizio; e, se l’impresa bancaria esercita un pubblico servizio, l’autorizzazione all’esercizio (…) è atto di ammissione, per effetto del quale l’impresa diviene strumento dell’azione pubblica nel settore creditizio e viene a far parte di quell’ordinamento settoriale o sezionale»; tuttavia, il ragionamento cade considerando che «l’attività bancaria nel sistema della legge non è funzione pubblica e non lo è perché funzione di interesse pubblico e funzione pubblica non sono la stessa cosa (…) funzione di interesse pubblico sembra non tanto esprimere una funzione propria dello stato, quanto una funzione che, di chiunque sia propria, rileva dal punto di vista dello stato e, appunto attraverso la disciplina, debbono essere individuati i limiti e le conseguenze di questa rilevanza». In aggiunta alla critica nel merito alle teorie dei suaccennati amministrativisti, l’A. criticava nel metodo la costruzione di una teoria sulla base di una formula, quella di cui all’art. 1 della legge bancaria, «dato che spesso nel sistema legislativo una stessa formula finisce per assumere significati diversi», trattandosi nel caso di specie di una formula «di natura politica, più che giuridica, e che dal punto di vista giuridico poteva trovare un significato preciso solo attraverso le norme regolatrici, dalle quali appunto doveva desumersi l’ambito di rilevanza dell’interesse pubblico o nazionale» (p. 328).
[105] G. Ferri, La posizione dell’azionista nelle società esercenti un’attività bancaria, in Banca borsa, 1975, I, pp. 1 ss., ove l’analisi dell’A. muove, in particolare, dal seguente interrogativo: se la posizione del socio di società bancaria fosse la medesima rispetto a quella che egli assume nelle altre società, e se i controlli previsti nella legge bancaria riguardassero esclusivamente l’attività esterna della società senza incidere sulla struttura organizzativa e sulle posizioni interne alla stessa, oppure tali disposizioni e la componente pubblicistica che le animava penetrassero all’interno della struttura organizzativa condizionando le posizioni interne.
[106] G. Ferri, op. ult. cit., p. 5.
[107] G. Ferri, op. ult. cit., p. 3.
[108] P. Vitale, Pubblico e privato nell’ordinamento bancario, cit., p. 103. In linea con tale avviso, F. Parrillo, Valore e ruolo della legge bancaria nel sistema creditizio italiano, cit., pp. 16 s., osservava che sia la Costituzione sia la legge bancaria miravano a garantire il «governo» del credito, inteso nel senso della conciliazione della politica statale degli investimenti con i fini e le esigenze della gestione bancaria, non già nella sostituzione degli organi di controllo nelle determinazioni della banca; pertanto, la disciplina, il coordinamento e l’esercizio del credito dovevano attuarsi attraverso interventi rivolti soltanto a indirizzare le scelte dei banchieri, armonizzandole per quanto possibile con obiettivi di carattere generale: «un “governo” del credito, che portasse alla sostituzione dell’iniziativa e della responsabilità della banca con l’iniziativa e la responsabilità degli organi dello Stato nel campo specifico della “gestione bancaria”, significherebbe, praticamente, statizzazione del settore, una concezione questa che trova posto soltanto nelle economie collettivistiche» (p. 17).
[109] Dapprima l’Ispettorato per la difesa del risparmio e per l’esercizio del credito, cui successivamente, nel 1947, subentrò la Banca d’Italia.
[110] P. Vitale, Pubblico e privato nell’ordinamento bancario, cit., p. 104.
[111] P. Vitale, op. loc. cit., il quale da quanto appena osservato traeva la conclusione che «l’impresa è accolta nell’ordinamento bancario, e ne risulta rispettato il nucleo essenziale dell’iniziativa»; di avviso adesivo, G. Molle, La banca nell’ordinamento giuridico italiano, cit., p. 27.
[112] Così G. Dell’Amore, Le funzioni dei sistemi bancari nell’economia contemporanea, in Giornale degli Economisti e Annali di Economia, 1955, p. 547, il quale tuttavia nell’immediato prosieguo chiosava: «(…) a meno che questi raggiungano dimensioni eccedenti determinati limiti. Ma appare sempre più dubbia la possibilità di realizzare la migliore ripartizione del credito sul piano nazionale abbandonando del tutto alle singole banche, isolatamente considerate, le scelte della politica degli investimenti».
[113] G. Ruta, Il sistema della legislazione bancaria, cit., p. 242.
[114] Essendo anzi un sistema concorrenziale ritenuto, a quell’epoca, pericoloso per la stabilità del sistema creditizio, come rimarca S. Baroncelli, Sub Art. 47 Cost., in Commentario alla Costituzione, a cura di R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti, Milano-Torino, 2006, T. I, p. 948.
[115] Su cui v. C. Paolillo, Sull’amministrazione straordinaria dell’impresa bancaria individuale, in Banca borsa, 1976, I, pp. 231 ss.
[116] Per lo più in ordine a prescrizioni di dettaglio, e v. C. Cost. 26 giugno 1975, n. 159; C. Cost., 21 giugno 1956, n. 16; C. Cost. 17 aprile 1969, n. 87; C. Cost. 20 giugno 1972, n. 110; in dottrina, v. P. De Vecchis, Appunti sulla costituzionalità della liquidazione coatta amministrativa con particolare riferimento alle aziende di credito, in Banca borsa, 1976, I, pp. 191 ss.
[117] Cass. pen. Ss.Uu., 10 ottobre 1981, in Foro it., 1981, II, c. 553, con nota di F. Capriglione, Qualificazione dell’attività bancaria e imprenditorialità degli enti creditizi, ove il rilievo per cui «la crisi dell’impresa determina l’inefficienza del servizio e che l’intervento dello Stato per amministrarlo provvisoriamente e, se del caso, eliminarlo, riflette l’interesse pubblico che il servizio tendeva a realizzare, atteggiandosi, per questo profilo, come servizio pubblico».
[118] Cass. pen. Ss. Uu., 23 maggio 1987, in Foro it., 1987, II, c. 481, con nota di G. Giacalone, Vecchio e nuovo nella qualificazione giuridica dell’attività bancaria, ove la Suprema Corte negava il riferito valore sintomatico sul presupposto che il legislatore aveva ormai previsto il ricorso ad identici istituti, anziché alla procedura fallimentare, al verificarsi di crisi economiche in imprese la cui attività era indubbiamente privatistica (art. 8 l. 23 marzo 1983 n. 77, con riferimento alle società di gestione di fondi comuni di investimento mobiliare aperti; art. 1 d.l. 5 giugno 1986 n. 233, con riguardo alle società fiduciarie e di revisione; art. 1 l. 3 aprile 1979 n. 95 modificato dalla l. 31 marzo 1982 n. 119, in relazione alle grandi imprese in crisi).
[119] C. Brescia Morra, Gli azionisti delle banche hanno ancora diritti soggettivi nell’era del bail-in?, in Disciplina delle società e legislazione bancaria. Studi in onore di Gustavo Visentini, a cura di A. Nuzzo e A. Palazzolo, Vol. III, Banca, finanza e concorrenza, Roma, 2020, p. 62, ove l’A. sottolinea che «non si distingueva fra i poteri attribuiti alla Banca d’Italia per finalità di politica monetaria e i poteri attribuiti alla stessa per funzioni di vigilanza»; coerentemente, F. Panetta, op. cit. p. 18, nota come l’individuazione delle finalità di vigilanza all’art. 5 t.u.b. costituisca «una essenziale forma di accountability a priori, che ispira l’azione discrezionale della Vigilanza ancorandola a obiettivi predeterminati dal legislatore».
[120] C. Brescia Morra, op. ult. cit., p. 62 s.
[121] F. Parrillo, Valore e ruolo della legge bancaria nel sistema creditizio italiano, cit., pp. 53 ss., ove anche una rassegna dei dati relativi alla evoluzione storica del numero di enti creditizi operanti in Italia e di sportelli bancari per categoria di azienda presenti sul territorio.
[122] La prima direttiva del consiglio del 12 dicembre 1977, n. 77/780, relativa al coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative riguardanti l’accesso all’attività degli enti creditizi e il suo esercizio, oltre fissare la nozione di ente creditizio quale «impresa la cui attività consiste nel ricevere depositi o altri fondi rimborsabili dal pubblico e nel concedere crediti per proprio conto», chiariva che «i lavori di coordinamento in materia di enti creditizi devono applicarsi, sia per proteggere il risparmio che per creare le condizioni di uguaglianza nella concorrenza tra tali enti, a tutti questi ultimi» (quarto “considerando”).
[123] Recante attuazione della direttiva, in data 12 dicembre 1977, del Consiglio delle Comunità europee n. 77/780 in materia creditizia, in applicazione della legge 5 marzo 1985, n. 74, recante a sua volta delega al Governo per l’attuazione dell’anzidetta direttiva.
[124] Negli anni Settanta gli istituti speciali di credito erano oltre settanta (e v’erano sul territorio nazionale oltre millecinquecento sportelli di istituti di credito di diritto pubblico), v. G. Ruta, Il sistema della legislazione bancaria, cit., p. 242, nt. 18, dati aggiornati al 31 dicembre 1970.
[125] E v. Cass. pen., 14 aprile 1959, in Banca borsa, 1960, II, p. 164; Cass. pen. 16 ottobre 1961, in Riv. it. dir. proc. pen., 1962, p. 533, con nota di A. Pagliaro, Peculato e abuso del fido bancario, in Banca borsa, 1962, II, p. 324; Cass. pen, 13 aprile 1966, in Banca borsa, 1967, II, p. 8; Trib. Palermo, 13 settembre 1967, in Banca borsa, 1967, II, p. 562; Cass. pen., 26 febbraio 1970, in Foro it., 1971, II, c. 95; Cass. pen., 29 maggio 1982, in Riv. pen., 1983, p. 117; Trib. Roma, 21 luglio 1983, in Giust. Pen., 1984, II, p. 44.
[126] Cass. pen. Ss.Uu. 10 ottobre 1981, cit.
[127] Merita segnalare, tra gli elementi presi in considerazione dalla Suprema Corte, i seguenti: «1) Tutto il sistema creditizio gravita funzionalmente nell’orbita governativa e statuale (o regionale) attraverso la preposizione ad esso di organi della pubblica amministrazione (comitato interministeriale (…), ministro del tesoro, Banca d’Italia, (…) tra i quali sono ripartiti poteri d’indirizzo, di direttiva, di normazione interna vincolante per gli operatori, di vigilanza e controllo anche sostitutivo e repressivo e finalizzati non soltanto al buon andamento dei servizi, ma, ciò che conta (…) al coordinamento unitario dei medesimi, alla rispondenza di essi a disegni politici, a piani e programmi pubblici, al regolamento della misura dei servizi erogabili in relazione ad un controllato fabbisogno di essi da parte della comunità. 2) Del sistema fanno parte anche istituti di credito muniti di personalità giuridica di diritto pubblico (…) La pubblicizzazione soggettiva di questa parte del sistema non si pone in antitesi logica e giuridica con la restante parte occupata dagli enti muniti di personalità giuridica privata (…) 3) L’accesso al sistema degli operatori privati è condizionato ad una manifestazione positiva e discrezionale dell’autorità (…) 4) Nella sfera di disponibilità dei pubblici poteri è oltre l’accesso del soggetto privato al sistema, il regolamento delle dimensioni dell’attività imprenditoriale (…) 5) La gestione del servizio, oltre a disposizioni normative che restringono capacità (art. 9 e 38 1. b.) o ampliano doveri ed oneri dell’operatore bancario rispetto ad altri imprenditori (…) è soggetta a controllo “tecnico” dell’organo governativo (…) 6) In aggiunta ai menzionati poteri precettivi, l’organo pubblico di vigilanza ha, rispetto alle aziende ed agli istituti di credito, non soltanto potere ispettivo (…) ma un ampio ventaglio di potestà ordinative (art. 35), che va dall’ordine di convocazione delle assemblee e dei consigli di amministrazione, a quello di chiusura di determinate sedi o filiali (…) 8) La crisi economica intervenuta nella gestione dell’impresa esercente il credito, diversamente da quella che si verifichi nella gestione di un’impresa comune, dà luogo ad intervento di pubblici poteri nelle forme dell’amministrazione provvisoria e della liquidazione coatta amministrativa», Cass. pen. Ss.Uu. 10 ottobre 1981, cit.
[128] Cass., 15 febbraio 1968, n. 1816; Cass., 15 aprile 1975, n. 4133; Cass., 22 marzo 1980, n. 4058; Cass., 11 dicembre 1980, n. 1216.
[129] La sentenza in parola affermò perentoriamente, tra l’altro, i seguenti principi: « 1 Ogni attività bancaria volta alla raccolta del risparmio ed all’esercizio del credito è contrassegnata da un interesse pubblico immanente in virtù del quale essa è inserita in un’organizzazione unitaria del relativo settore economico, costituita, regolata, diretta e controllata da pubblici poteri anche per la realizzazione di pubbliche finalità. 2) Come tale essa acquista la qualità di servizio pubblico in senso oggettivo, valevole, ai sensi dell’art. 358, n. 2, cod. pen., per la qualificazione dei soggetti privati legittimati a compierla come incaricati di pubblico servizio. 3) Ove detti soggetti commettano a profitto proprio o altrui appropriazione o distrazione di danaro o di altre cose mobili appartenenti all’azienda o all’istituto di credito o a terzi diversi dalla pubblica amministrazione, di cui abbiano il possesso per ragioni del servizio ad essi attribuito rispondono di malversa zione a norma dell’art. 315 cod. penale. 4) Se l’attività bancaria sia attribuita ad ente pubblico, il soggetto operante nell’ambito del medesimo, verificandosi il presupposto della appartenenza alla pubblica amministrazione del danaro e dei beni mobili oggetto di appropriazione o di distrazione, risponderà di peculato, a norma dell’art. 314 cod. pen. e questo è l’unico tratto differenziale di posizione giuridico penale di tale soggetto rispetto a quella del soggetto operante nell’ambito di un’impresa bancaria privata».
[130] Per i relativi riferimenti v. G. Molle, La banca nell’ordinamento giuridico italiano, cit., p. 249, nt. 88.
[131] Cass. pen. Ss. Uu., 23 maggio 1987, in Foro it., 1987, II, c. 481, con nota di G. Giacalone, Vecchio e nuovo nella qualificazione giuridica dell’attività bancaria.
[132] Ovverosia: a) esistenza di un capitale nel caso di società azionarie, a responsabilità limitata e cooperative ovvero di un capitale o fondo di dotazione nel caso di enti pubblici, di ammontare non inferiore a quello determinato in via generale dalla Banca d’Italia; b) possesso da parte delle persone, alle quali per legge o per statuto spettano poteri di amministrazione e direzione, di requisiti di esperienza adeguata all’esercizio delle funzioni connesse alle rispettive cariche, in conformità delle previsioni di cui ai successivi articoli 2, 3 e 4; c) possesso, per le persone indicate sub b), per quelle che esercitano funzioni di controllo nonché per coloro che, in virtù della partecipazione al capitale, siano in grado di influire sull’attività dell’ente, dei requisiti di onorabilità di cui al successivo art. 5; d) presentazione di un articolato programma di attività in cui siano indicate in particolare la tipologia delle operazioni previste e la struttura organizzativa dell’ente.
[133] C. Brescia Morra, L’attività dell’impresa bancaria, in C. Brescia Morra – U. Morera, L’impresa bancaria. L’organizzazione e il contratto, in Trattato di Diritto Civile del Consiglio Nazionale del Notariato, diretto da P. Perlingieri, Napoli, 2006, pp. 94 s.
[134] A. Antonucci, Diritto delle banche, cit., p. 13.
[135] A. Antonucci, ivi, p. 14; e v. altresì S. Baroncelli, Sub Art. 47 Cost., cit., p. 948, la quale oltre a rimarcare come la prassi applicativa esibiva la formulazione da parte dell’Autorità di vigilanza di un giudizio di opportunità in ordine all’ingresso di nuove aziende sul mercato, e a segnalare come anche il potere di revoca dell’autorizzazione poteva essere usato allo scopo di garantire una “migliore distribuzione territoriale” delle aziende di credito, rileva che la Banca d’Italia fece uso di tali poteri per bloccare l’accesso al sistema finanziario, creando una situazione di oligopolio amministrato in antitesi con la creazione di condizioni concorrenziali.
[136] Così F. Parrillo, Valore e ruolo della legge bancaria nel sistema creditizio italiano, cit., pp. 61 s.
[137] E v. per i riferimenti alle voci dottrinali che inquadravano l’atto talora nella categoria della concessione, talaltra in quella della licenza, v. G. Molle, La banca nell’ordinamento giuridico italiano, cit., pp. 371 ss., nt. 15 e 16; di contrario avviso, G. Vignocchi, Il servizio del credito nell’ordinamento pubblicistico italiano, cit., pp. 52 e 61, che nega il potersi ravvisare uno schema concessorio di natura costitutivo-traslativa, essendo l’investitura del servizio del credito, nell’avviso dell’A., un provvedimento rivolto a facoltizzare un’attività che rimane compresa nelle attribuzioni istituzionali del soggetto operatore, laddove invece in ipotesi di concessione la funzione o il servizio permangono di pertinenza dell’ente concedente, quantunque esercitati per mezzo di terzi.
[138] G. Giacalone, Vecchio e nuovo nella qualificazione giuridica dell’attività bancaria, nota a Cass. pen., Ss. Uu., 23 maggio 1987, in Foro it., 1987, II, cc. 481 ss.; nel senso della insindacabilità, sia in sede amministrativa che in sede giurisdizionale, della reiezione dell’istanza di autorizzazione, P. Pallini, voce Aziende di credito (amministrazione di vigilanza), in Enciclopedia del diritto, IV, Milano, 1959, p. 762.
[139] Il riferimento è ai noti casi Giuffrè e S.F.I. (Società Finanziaria Italiana). Per quel che concerne il primo, Giuffrè era un ex impiegato di banca che aveva allestito un’attività di raccolta del risparmio ad elevatissimo interesse e senza obbligo di restituzione, secondo il classico “schema ponzi”, per cui gli interessi che venivano corrisposti erano tratti da nuove raccolte di capitali, a danno ovviamente dei conferenti sopravvenuti, i quali, al momento dello spezzarsi della catena, non si sarebbero visti poi restituire né interessi né la sorte capitale; il Tribunale di Bologna dichiarò il fallimento dell’“anonima banchieri” di Giuffrè, riconfermandolo nel 1961 a fronte dell’opposizione del fallito; quindi, l’anno successivo, la Corte d’Appello di Bologna riconfermò l’assoggettamento a fallimento di Giuffrè, ritenendolo imprenditore commerciale e non bancario (precisando che di attività bancaria poteva parlarsi solo in caso di attività congiunte di raccolta fra il pubblico di risparmio ed esercizio del credito); in relazione al caso Giuffrè venne escluso il ricorrere del reato di abusivismo bancario di cui all’art. 96 della legge bancaria proprio in ragione del difetto dell’elemento oggettivo dello svolgimento congiunto delle due anzidette attività. Sul caso testé sintetizzato v., in dottrina, W. Bigiavi, Il fallimento Giuffrè, in Giur. it., 1959, I, pp. 353 ss.; G. Molle, Il caso Giuffrè e la legge bancaria, in Banca borsa, 1960, I, pp. 414 ss.; Id, Ancora sul caso Giuffrè, in Banca borsa, 1961, II, pp. 277 ss.; G. Fanelli, Il caso Giuffrè e il concetto di impresa bancaria di cui all’art. 2195, n. 4 cod. civ., in Riv. dir. comm., 1961, II, pp. 221 ss.; R. Provinciali, Sul fallimento Giuffrè, in Dir. fall., 1965, II, pp. 196 ss.; G. Vignocchi, Il servizio del credito nell’ordinamento pubblicistico italiano, cit., pp. 85 ss., nonché, in giurisprudenza, Trib. Bologna, 8 aprile 1959, in Giur. it, 1959, I, p. 354; Trib. Bologna, 10 marzo 1961, in Banca borsa, 1961, II, p. 264; App. Bologna, 12 giugno 1962, in Banca borsa, 1962, II, p. 411; Cass. Ss. Uu., 8 aprile 1965, n. 611, in Giur. it., 1965, I, p. 853.
A distanza di pochissimi anni, nel caso S.F.I., società che sebbene in difetto dell’autorizzazione ex art. 28 della legge bancaria raccoglieva risparmi e li impiegava in operazioni di credito, venne affrontato il problema della sottoposizione della banca di fatto alla liquidazione coatta amministrativa; la vicenda giudiziaria si concluse nel 1965 con una pronuncia di legittimità, a Sezioni Unite, che, superando l’avviso espresso l’anno precedente dalla Corte di Appello di Milano, affermò che il difetto dell’autorizzazione di cui all’art. 28 della legge bancaria non incideva negativamente sulla natura bancaria dell’attività esercitata dalla S.F.I., che in quanto tale consentiva l’esplicazione dei poteri di intervento dell’Autorità, sub specie di sottoposizione della società a liquidazione coatta amministrativa. Sul caso S.F.I. v., in dottrina, C. Celoria, Le vicende giudiziarie e giuridiche della S.F.I., in Riv. dott. comm., 1965, pp. 278 ss., e, in giurisprudenza, App. Milano, 9 luglio 1964, in Banca borsa, 1964, II, p. 385; Cass. Ss. Uu., 13 marzo 1965, n. 425, in Banca borsa, 1965, II, pp. 1 ss., con nota di C. M. Pratis, Poteri di organi preposti alla disciplina dell’attività creditizia sulle imprese bancarie abusive.
[140] In questi espressi termini, Cass. pen. Ss.Uu. 10 ottobre 1981, cit.
[141] Cass. pen. Ss. Uu., 23 maggio 1987, cit.
[142] Cass. pen. Ss. Uu., 23 maggio 1987, cit.
[143] In tal senso, anche R. Costi, Autorizzazione all’esercizio dell’attività bancaria e costituzione degli enti creditizi, in Giur. comm., 1986, p. 563; v. anche Id., L’ordinamento bancario, cit., pp. 312 ss.
[144] Un atto che rimuove un limite che impedisce l’esercizio di un diritto che già esiste, trasformandolo da potenziale in attuale, G. Molle, La banca nell’ordinamento giuridico italiano, cit., pp. 372 ss., spec. 374 s.
[145] L’evoluzione storico-normativa del regime autorizzatorio prescritto per l’esercizio dell’attività d’intermediazione nel credito testimonia il passaggio da un inquadramento di siffatta attività dapprima in termini di “affare tra privati” ad una concezione della medesima quale “funzione di pubblico interesse”, per lungo tempo affidata a soggetti pubblici, e dunque attività identificata da connotati smaccatamente pubblicistici, per infine pervenire al regime attuale, che riconduce sì la stessa nell’alveo delle vicende dominate dall’autonomia privata, ma con forti limiti e condizionamenti imposti dall’autorità pubblica. Già all’inizio degli anni ‘80 F. Capriglione, Controllo bancario e stabilità delle strutture finanziarie, in Foro it. Monografie e varietà, 1980, p. 170 s., testo e nt. 4 notava come «dopo l’approfondimento dei caratteri strutturali del settore creditizio e delle problematiche ad esso relative già da alcuni anni l’interesse degli studiosi si è volto agli aspetti soggettivi di esso, affrontandone le tematiche a fini di inquadramento giuridico generale» e rilevava come la dottrina del tempo sottolineasse «ai fini di un “ordinato funzionamento del sistema bancario” la necessità che il rapporto autorità di controllo appartenenti al settore si svolga «secondo esigenze di ragionevolezza in relazione alla evoluzione del sistema creditizio da tutelare nel più ampio rispetto possibile dell’autonomia di gestione degli enti creditizi. Ne deriva una lettura delle norme della legge bancaria orientata anziché a rafforzare i poteri d’intervento degli organi di vertice dell’ordinamento del credito “ a cogliere gli aspetti di garanzia di un funzionamento pluralistico del sistema ”»; rileva, peraltro, l’A. che dalla rassegna delle varie opinioni espresse dalla dottrina emergeva un punto di comune convergenza: «la specialità della disciplina relativa alla materia creditizia presenta ipotesi legislative che vengono concretizzate attraverso un’attività di amministrativizzazione che si riflette, in ultima istanza, su schemi imprenditoriali; e ciò viene riconosciuto anche da parte di coloro che esprimono riserve sul noto inquadramento “sezionale” dell’ordinamento del credito» (pp. 169 s.).
In linea generale, si è pertanto assistito ad una dialettica tra due modelli giuridici fondamentali dell’organizzazione dell’economia, entrambi di rilevanza generale: l’autonomia privata e la funzione di pubblica rilevanza. Come chiarito da G. Visentini, Disciplina delle società e legislazione bancaria. Autonomia privata e funzione, Milano, 1971, pp. 11 ss., quest’ultima, diversamente dalla prima, subisce un vincolo di scopo avente rilevanza pubblica, sicché il potere che l’ordinamento riconosce ad un soggetto preposto a tale funzione è finalizzato, e può esercitarsi, nei limiti di un interesse eteroimposto. Viceversa, mediante lo strumento organizzativo dell’autonomia privata l’ordinamento attua una particolare formula di decentramento nella disciplina delle attività economiche, consistente nell’attribuzione ad un soggetto del potere di determinare l’interesse da perseguire e da rendere giuridico. Naturalmente, il riconoscimento costituzionale della libertà d’iniziativa privata comporta anche il riconoscimento dell’autonomia privata, strumento giuridico indispensabile all’espressione della prima. Ed a tali chiavi di lettura non pare dato sottrarsi all’atto dell’inquadramento della impresa (privata, nonostante la specificità degli interessi che essa coinvolge) bancaria.
[146] Per un inquadramento di massima di tale riforma, v. Aa.Vv., La ristrutturazione degli enti creditizi pubblici. Legge 30 luglio 1990, n. 218 e decreti di attuazione, Roma, 1991; Aa.Vv., La ristrutturazione della banca pubblica e la disciplina del gruppo creditizio, in Quaderni di Ricerca Giuridica della Consulenza Legale di Banca d’Italia, Roma, 1992, n. 26; S. T. Musumeci, Pubblico e privato nelle trasformazioni bancarie. Profili pubblicistici della legge 30 luglio 1990, n. 218, Padova, 1992; M. Rispoli Farina, Dall’ente pubblico creditizio alla società per azioni. Commento sistematico alla L. 218/90, Napoli, 1993.
[147] C. Brescia Morra, L’attività dell’impresa bancaria, cit., p. 132.
[148] La scelta del legislatore d’impedire l’utilizzo di altri tipi di società per l’esercizio dell’attività bancaria (eccezion fatta per le banche popolari e di credito cooperativo, per cui gli artt. 14, comma 1, lett. a), e 28 ss. t.u.b. consentono l’adozione della forma cooperativa per azioni a responsabilità limitata) non ha mancato di suscitare dubbi, anche in considerazione dell’esperienza di altri Paesi dell’Unione europea che ammettono una certa elasticità circa la forma giuridica dell’impresa bancaria, in M. Cera, Autonomia statutaria delle banche e vigilanza, Milano, 2001, p. 2, nt. 6.
[149] Come rammenta P. De Biasi, Note preliminari su chi possa essere l’ottimale proprietario di una banca (universale), in Banca Impresa Società, 2017, p. 472, nt. 9.
[150] E v., ad es., C. Angelici, Introduzione, in Aa.Vv., Società bancarie e società di diritto comune. Elasticità e permeabilità dei modelli, in Dir. banc. merc. fin., 2016, p. 762, il quale rimarca come per la «specifica caratterizzazione dell’impresa bancaria un ruolo decisivo svolgono considerazioni che non la intendono tanto nel suo significato di singolo operatore in un mercato, strumento di profitto per chi l’attività intraprende, ma anche e per certi aspetti soprattutto nel suo ruolo sistemico». Nell’ordinamento bancario è infatti vieppiù evidente quanto notato, in via generale, da A. Zoppini, Presentazione dell’edizione italiana, in H. Hansmann, La proprietà dell’impresa, Bologna, 2005, pp. XI s., ovverosia che le norme imperative relative alla corporate governance degli enti collettivi, e segnatamente delle società, «assolvono una funzione essenzialmente mimetica rispetto all’autonomia privata e l’imperativo del legislatore si giustifica là dove sia possibile diagnosticare un fallimento del mercato», a fronte di risultati che l’autonomia privata non è in grado di conseguire, ovvero che potrebbe conseguire ma a costi eccessivamente elevati (così è, rileva a titolo esemplificativo l’A., negli enti non lucrativi per il divieto di distribuzione degli avanzi di gestione o del residuo netto attivo di liquidazione, o nelle società lucrative per il nesso fra conferimento e diritti amministrativi, o nelle società cooperative per il limite alla remunerazione del capitale); dunque, tra le ragioni per cui l’impresa azionaria viene già a livello di diritto comune sottratta al potere regolativo dei privati, impedendo ai soci di autonomamente regolare i propri interessi, v’è la registrazione di un fallimento di mercato, là dove la proprietà non è in grado di assolvere un ruolo ordinante nel processo di allocazione delle risorse, e per tale ragione s’impone l’intervento pubblico nelle forme della norma imperativa.
[151] Salvo prevedere, in via transitoria e a garanzia della continuità operativa tra l’ente conferente e la società conferitaria controllata, la nomina di membri del comitato di gestione od organo equivalente dell’ente nel consiglio di amministrazione e di componenti l’organo di controllo nel collegio sindacale della suddetta società (art. 12, comma 1, lett. c).
[152] Così Banca d’Italia, Ordinamento degli enti pubblici creditizi. L’adozione del modello delle società per azioni, Roma, 1988, pubblicato anche in Banca borsa, 1988, I, pp. 416 ss., ove anche i rilievi per cui «la riconduzione degli schemi organizzativi ad un modello di tipo societario avrebbe l’effetto di soddisfare l’esigenza che tutti gli operatori si trovino ex ante in uguali condizioni dal punto di vista delle potenzialità competitive; il rapporto concorrenziale tra attività bancaria pubblica e attività bancaria privata verrebbe reso effettivo sottoponendo la prima alle medesime norme cui è sottoposta la seconda (…) il diritto pubblico tende, per converso a presentarsi sempre più come ius singulare, regolatore dei casi e dei modi di esercizio dell’autorità» (pp. 418 s.).; per vero, risulta tuttora di prima evidenza la frammistione di elementi di diritto pubblico e di diritto privato nell’ordinamento bancario italiano; e v. ad esempio R. Costi, L’ordinamento bancario, cit., p. 23, il quale fa notare che l’ordinamento del sistema bancario italiano risulta oggi strutturato secondo un modello che partecipa sia del diritto dell’organizzazione pubblica sia del diritto delle imprese; ciò che, dal punto di vista metodologico, rende necessario adottare un approccio interdisciplinare pubblico-privato nello studio della relativa disciplina.
[153] Relativa al coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative riguardanti l’accesso all’attività degli enti creditizi e il suo esercizio e recante modifica della direttiva 77/780/CEE (c.d. seconda direttiva bancaria).
[154] E v. in particolare il quarto ”considerando”, ove si esplicita l’obbiettivo, perseguito dalla direttiva, di realizzare l’armonizzazione essenziale, necessaria e sufficiente per pervenire ad un reciproco riconoscimento delle autorizzazioni e dei sistemi di vigilanza prudenziale che consenta il rilascio di un’unica autorizzazione valida in tutta la Comunità e l’applicazione del principio della vigilanza da parte dello Stato membro d’origine.
Agli enti creditizi fu permesso di esercitare negli altri Stati membri tutte le attività (ricomprese nell’elenco di cui all’allegato alla Direttiva) che i medesimi potevano esercitare nel proprio Stato d’origine, o tramite lo stabilimento di una succursale oppure attraverso la prestazione dei servizi direttamente dallo Stato d’origine; inoltre, alla stregua del principio dell’home country control, il controllo prudenziale su di un ente creditizio svolgente tramite succursale la propria attività in un Paese ospitante veniva rimesso all’autorità di vigilanza del Paese di origine; e v. R. Costi, L’ordinamento bancario, cit., p. 82; così, in applicazione dei principi del mercato unico al settore bancario, si stimolò la creazione di una situazione concorrenziale tra le imprese dei vari Stati membri, e v. S. Baroncelli, Sub Art. 47 Cost., cit., p. 949.
[155] Su cui v., ex plurimis, C. Lamanda, La nuova normativa sugli enti creditizi, in Riv. banc., 1992, n. 6, pp. 59 ss.; F. Castiello, La riforma della legge bancaria. Profili pubblicistici, Torino, 1993; F. Capriglione, Il recepimento della seconda direttiva Cee in materia bancaria. Prime riflessioni, in Id. Il recepimento della seconda direttiva Cee in materia bancaria a cura di Id., Bari, 1993; L. G. Radicati Di Brozolo, L’Italia ed il mercato unico dei servizi bancari. (Un primo esame delle norme di attuazione della seconda direttiva bancaria), in Banca borsa, 1993, pp. 465 ss.; F. Belli, Il decreto legislativo 14 dicembre 1992, n. 481: qualche prima osservazione parziale, in Dir. banc. merc. fin., 1993, I, pp. 3 ss.; A. Antonucci, Una nuova legge bancaria. Decreto legislativo 14 dicembre 1992, n. 481, in Contratti, 1993, pp. 235 ss.;
[156] Il secondo comma dell’art. 2 del D. Lgs. 14 dicembre 1992, n. 481 sanciva la riserva dell’esercizio dell’attività bancaria alle imprese autorizzate, denominate “enti creditizi”; tale nuova espressione, coniata dal D. Lgs. in parola, cedette poi, meno di un anno dopo, il passo al termine “banca”, utilizzato nel t.u.b.; sebbene il motivo del mutamento terminologico non abbia ricevuto una spiegazione ufficiale, è stata da parte di P. Ferro-Luzzi, Lezioni di diritto bancario, cit., pp. 86 s., avanzata l’ipotesi che ciò fosse dovuto al fatto che la parola “ente” evocasse in certo qual modo l’ente pubblico, e dunque lo spettro dell’applicabilità della disciplina dell’uso del denaro pubblico al settore bancario avrebbe fatto propendere per il cambiamento.
[157] Modello che consente all’ente creditizio di svolgere, in aggiunta alla tipica attività bancaria, qualsivoglia attività d’intermediazione mobiliare; d’allora e per l’innanzi le banche possono svolgere sostanzialmente qualsiasi attività finanziaria, salvo poche eccezioni, fra cui occorre ricordare l’attività assicurativa e quella riservata alle società di gestione del risparmio. In alternativa a tale modello avrebbe poi potuto essere adottato quello del c.d. “gruppo polifunzionale”, in cui l’attività non tipicamente bancaria veniva esercitata tramite società controllate; ad oggi tali modelli non si pongono tra loro in rigida alternativa, potendo la medesima banca svolgere parte della propria attività non tipica direttamente e, al contempo, altra parte attraverso società controllate.
[158] Tra la copiosa produzione dottrinale dedicata a novità e problemi di coordinamento del t.u.b. rispetto alla disciplina bancaria precedente, si v. E. Minervini, Dal decreto 481/92 al testo unico in materia bancaria e creditizia, in Giur. comm., 1993, I. pp. 825 ss.; F. Merusi, La redazione del testo unico bancario: problemi di tecnica legislativa, in Banca Impresa Società, 1993, pp. 31 ss.; F. Castiello, La banca-impresa nella nuova legge bancaria, Dir. banc. merc. fin., 1993, I, pp. 510 ss.; P. Marchetti, Note introduttive al testo unico delle leggi bancarie e creditizie, in Riv. soc., 1993, pp. 1148 ss.; F. Capriglione, Riforma bancaria e scenario economico. Spunti d’indagine, in Banca borsa, 1994, I, pp. 137 ss.; A. Nigro, La nuova legge bancaria, in Dir. banc. merc. fin., 1993, I, pp. 505 ss.; V. Buonocore, Riflessioni in margine al nuovo Testo Unico in materia bancaria e creditizia, in Banca Impresa Società, 1994, pp. 171 ss.; M. Sepe, Brevi note sul Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, in Banca borsa, 1994, I, pp. 505 ss.; G. Ruta, Analisi comparata tra la legge bancaria del 1936 e il nuovo Testo Unico, in Riv. banc., 1994, pp. 13 ss.; S. Amorosino, La funzione di vigilanza sulle banche nel testo unico e il ruolo della Banca d’Italia, in Bancaria, 1995, n. 5, pp. 50 ss.; M. Rispoli Farina, La nuova legge bancaria: prime riflessioni sul Testo Unico in materia bancaria e creditizia, Napoli, 1995; P. Ferro-Luzzi – G. Castaldi (a cura di), La nuova legge bancaria. Il Testo Unico delle leggi sulla intermediazione bancaria e creditizia e le disposizioni di attuazione. Commentario, Milano, 1995.