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La nuova class action: analisi delle principali disposizioni

10 Settembre 2019

Manuela Malavasi, Partner, Giacomo Ricciardi, Associate, BonelliErede

Di cosa si parla in questo articolo

Indice: I. Premessa; II. L’ambito di applicazione delle nuove disposizioni; II.A L’ambito di applicazione oggettivo; II.A.1 I diritti individuali omogenei; II.A.2 Le domande ammissibili; II.B L’ambito di applicazione soggettivo; II.B.1 La legittimazione attiva; II.B.2 La legittimazione passiva; II.C L’ambito di applicazione temporale; III. Il processo di classe; III.A Competenza, forma della domanda e pubblicità dell’atto introduttivo del giudizio; III.A.1 La competenza; III.A.2 Atto introduttivo e relativa pubblicità; III.B L’adesione all’azione di classe; III.C La prima fase: l’ammissibilità dell’azione di classe; III.C.1 I requisiti di ammissibilità dell’azione di classe; III.D La seconda fase: il giudizio di merito; III.D.1 L’attività istruttoria; III.D.2 La sentenza che definisce la fase di merito; III.E La terza fase: la seconda finestra temporale per l’adesione e la liquidazione delle somme; III.E.1 La liquidazione delle spese di lite.

 

I. Premessa

Con legge n. 31 del 12 aprile 2019 è stato introdotto il nuovo Titolo VIII-bis, “Dei procedimenti collettivi” nel Libro IV del Codice di Rito, in materia di azione di classe e azione inibitoria collettiva [1].

L’intervento normativo si propone quale riforma organica dell’istituto, che diviene oggi strumento di tutela a portata generale, non più applicabile solo a determinate materie (i c.d. “rapporti di consumo”, la responsabilità del produttore e le pratiche commerciali scorrette) ed esperibile da determinate categorie di soggetti (i “consumatori” e gli “utenti”) [2].

L’archetipo, a tutti noto, è la c.d. class action di matrice statunitense, anche se non si tratta della sola fonte d’ispirazione del nostro legislatore [3]; la gemmazione italiana presenta, comunque, delle peculiarità: l’opzione per il meccanismo di opt-in, la facoltà di adesione all’azione di classe anche dopo la definizione della fase di merito, la previsione di una procedura di liquidazione del danno di matrice para-concorsuale. Nel complesso, con la riforma si è tentato (con esiti altalenanti di cui si darà atto nel prosieguo) di risolvere una serie di problematiche che erano emerse nella (frammentaria e, nel complesso, deludente) applicazione dell’art. 140-bis cod. cons.

In linea generale, il nuovo processo di classe vorrebbe fornire la risposta a una serie di esigenze connesse al fenomeno degli illeciti c.d. “plurioffensivi” (dovendosi intendere per tali sia il singolo illecito i cui effetti dannosi si riverberino su una pluralità di soggetti – si pensi alla materia ambientale – sia la condotta illecita reiterata nel tempo e nello spazio con analoghe conseguenze dannose su una pluralità di soggetti – si pensi alle pratiche commerciali scorrette). Tra queste esigenze, risaltano in particolare: (i) l’efficienza della giustizia; (ii) la garanzia di accesso alla tutela giurisdizionale; (iii) l’esercizio di una funzione di deterrence.

Esigenze (quasi) esclusivamente di economia processuale riguardano, in particolare, le azioni di classe c.d. “discrete”, proposte da soggetti che, operando razionalmente, deciderebbero di agire individualmente in giudizio nei confronti del danneggiante anche a prescindere dall’esistenza di uno strumento di tutela collettiva, dando così vita al c.d. “contenzioso seriale” (si pensi, a titolo esemplificativo, al contenzioso bancario o bancario-finanziario). Per tali soggetti, l’accesso all’azione di classe presenta essenzialmente il vantaggio della riduzione dei tempi e dei costi del processo (vantaggio che si rispecchia anche sull’organizzazione della giustizia) [4].

Il “cuore” della riforma dovrebbe, però, essere rappresentato dalle azioni di classe c.d. “olistiche”, proposte da quei soggetti per i quali, in mancanza di uno strumento di tutela collettiva o di classe, l’accesso alla giustizia si rivelerebbe antieconomico (in termini di rapporti tra costi, anche di tempo, e benefici) o impossibile (ad esempio, per impossibilità di procurarsi le prove dei fatti costitutivi del proprio diritto). Si tratta dell’atteggiamento di “inerzia razionale” o “apatia razionale” posto in essere, in genere, dalle vittime di “microlesioni” o “microdanni”, cui fa da pendant il comportamento opportunistico del danneggiante (il quale “confida” nell’inerzia razionale dei danneggiati e, su questa, costruisce un lucro indebito) [5].

Infine, la nuova azione di classe assume una generale funzione deterrente, se non rispetto al compimento di illeciti plurioffensivi, quantomeno con riferimento a condotte (successive alla commissione dell’illecito) di inerzia o di pervicace autodifesa del danneggiante. Di regola, infatti, in presenza di contenziosi a carattere “seriale” (attuale o potenziale) le imprese convenute tendono a negare gli addebiti di responsabilità loro mossi, e a non accedere ad alcuna forma di accordo transattivo (che sarebbe visto quale tacita ammissione di colpevolezza), il tutto nell’intento di non incentivare o accrescere la litigiosità dei potenziali danneggiati. Ebbene, le nuove disposizioni in materia di processo di classe vorrebbero rendere un simile approccio meno conveniente (e, quindi, meno razionale) per il danneggiante; a titolo esemplificativo: (i) la pubblicità data all’introduzione dell’azione e alla decisione comporta un rischio di danno d’immagine; (ii) il processo di classe è strutturato in maniera tale da “riequilibrare”, quantomeno sul piano processuale, i rapporti di forza tra le parti (e, a tratti, persino “ribaltare” lo squilibrio, volgendolo a favore del ricorrente e degli aderenti); (iii) il convenuto che risulti soccombente è tenuto a pagare un pesante “dazio” al difensore del ricorrente e al rappresentante comune degli aderenti, proporzionato all’importo complessivo liquidato.

Certo è che il mondo dell’impresa ha già dimostrato di non vedere di buon occhio il nuovo processo di classe, evidenziandone le criticità proprio con riferimento a quelli che – nell’intento del legislatore – sembrano essere i punti di forza della riforma (sistema di pubblicità, possibilità di adesione successiva alla decisione sull’an debeatur, sistema di compenso premiale per difensori del ricorrente e rappresentante comune degli aderenti) [6]. È peraltro prevedibile che, anche nell’esperienza italiana, si diffondano strategie di “fuga” dal processo di classe, quali l’inserimento di clausole standard di rinuncia preventiva al processo di classe (fatti comunque salvi, nei rapporti di consumo, i limiti derivanti dall’applicazione dell’art. 33, comma 2, lett. t) cos. cons.) [7].

Fatte tali – sia pur brevissime – premesse in merito alla genesi e alla ratio ispiratrice della riforma, sia consentito un ultimo cenno preliminare al drafting della riforma, dalla qualità tutt’altro che eccelsa, e alla dubbia collocazione sistematica delle nuove disposizioni.

È già stato autorevolmente evidenziato che non vi era alcuna ragione per collocare le nuove disposizioni alla fine del Libro IV del Codice di Rito, così come per adottare la numerazione tipica delle novelle (numerando il nuovo Titolo “VIII-bis” anziché “IX”, e i nuovi articoli 840-bis – 840-sexiesdecies c.p.c., anziché 841-855 )[8]. Oltre alla collocazione e alla numerazione non propriamente razionali, anche l’organizzazione e il contenuto delle nuove disposizioni restituiscono al lettore un senso di confusione: non sempre vi è coerenza tra rubrica e contenuto dei singoli articoli, né è dato rinvenire un ordine logico tra gli stessi (e, all’interno di questi, tra i vari commi); alcune disposizioni sono semplicemente confliggenti, anche sul piano letterale; infine, il nuovo corpus normativo è tutt’altro che ben coordinato con le altre disposizioni del Codice di Rito (cui pure più volte rinvia).

Alla luce di quanto sopra, nella trattazione che segue si tenterà il più possibile di seguire un ordine logico-giuridico, descrivendo le principali previsioni della nuova normativa [9] nei loro aspetti salienti e soffermandosi, man mano, sulle questioni che emergono dalla lettura delle nuove disposizioni, anche alla luce dell’esperienza maturata con l’ormai “vecchia” azione di classe consumeristica. Nel far ciò non si seguirà, evidentemente, il “disordine” dell’articolato normativo, raggruppando invece, per ragioni di coerenza espositiva, la trattazione in aree tematiche.

II. L’ambito di applicazione delle nuove disposizioni

A dispetto della rubrica, solo i primi tre commi dell’art. 840-bis c.p.c. sono dedicati all’ambito applicativo (oggettivo e soggettivo) delle nuova azione di classe [10]. L’ambito di applicazione temporale delle nuove disposizioni è, invece, definito dall’art. 7 l. 31/2019.

II.A L’ambito di applicazione oggettivo

II.A.1 I diritti individuali omogenei

Sul piano oggettivo, l’art. 840-bis c.p.c. prevede, al comma 1, che i “diritti individuali omogenei” sono tutelabili “anche” attraverso l’azione di classe [11].

Come accennato, con la nuova azione di classe vengono meno i limiti oggettivi previsti dall’art. 140-bis cod. cons. In particolare, la tutela dei diritti individuali dei componenti della classe: (i) nell’ambito dei rapporti contrattuali, non è più limitata ai soli “rapporti di consumo” (art. 140-bis, comma 2, lett. a) cod. cons.) [12], potendo oggi comprendere anche i rapporti business to business; (ii) nell’ambito dei rapporti extracontrattuali, non è più limitata ratione materiae alla responsabilità del produttore e a quella delle imprese autrici di pratiche commerciali scorrette o di comportamenti anticoncorrenziali (art. 140-bis, comma 2, lett. b) e c) cod. cons.).

La nuova azione di classe potrà, pertanto, trovare applicazione in ogni ambito nel quale un’impresa o un gestore di servizi pubblici o di pubblica utilità pongano in essere comportamenti illeciti plurioffensivi, dando così vita a una “classe” di soggetti danneggiati.

L’unico requisito espressamente previsto dal legislatore per la formazione di una classe è l’omogeneità dei diritti lesi: sul punto si concorda con chi, a prima lettura, ha affermato che il legislatore avrebbe dovuto meglio sfruttare l’occasione per far chiarezza in merito alla nozione di “diritti omogenei”, sulla quale si era soffermata l’attenzione di gran parte della dottrina e di pressoché tutta la giurisprudenza formatasi nel vigore della disciplina dell’azione di classe consumeristica [13].

Com’è noto, infatti, nella prima versione effettivamente entrata in vigore dell’art. 140-bis cod. cons. [14] il legislatore individuava – con un certa ambiguità – nella “identità” di diritti il presupposto per l’esperimento di un’azione di classe [15]. Nelle prime applicazioni dell’azione di classe consumeristica si erano delineati due orientamenti giurisprudenziali: (i) il primo, restrittivo, richiedeva la piena identità dei diritti individuali fatti valere dai componenti della classe [16]; (ii) il secondo, estensivo, riteneva sufficiente l’omogeneità dei diritti individuali, negando in particolare che la diversa entità del danno concretamente risarcibile ai singoli componenti della classe precludesse la formazione di una classe unitaria [17].

Il secondo orientamento è stato successivamente consacrato del legislatore che, con la novella del 2012, ha eliminato qualsiasi riferimento all’identità dei diritti individuali dal testo dell’art. 140-bis cod. cons. I successivi arresti giurisprudenziali hanno confermato che il requisito dell’omogeneità è soddisfatto in presenza di diritti individuali che originano da un medesimo fatto illecito, che abbia dato vita a un unico danno-evento, anche se differenziati sotto il profilo del danno-conseguenza; in particolare, non rilevano eventuali differenze tra le posizioni dei singoli componenti della classe in punto di quantum debeatur, purché il risarcimento individuale sia comunque liquidabile facendo applicazione di un criterio uniforme [18].

Si segnala, infine, un rilevante precedente nel quale è stata, per la prima volta, riconosciuta – già nel vigore dell’art. 140-bis cod. cons. – la possibilità di formare delle sotto-classi nell’ambito della classe attrice, nell’ipotesi in cui (ferma la comunanza di fatto illecito, nesso di causa e danno-evento) i danni-conseguenza lamentati siano tra loro differenziati, ma pur sempre riconducibili a delle fattispecie comuni ad alcuni dei componenti [19].

Allo stato, sembra quindi di poter recepire l’insegnamento della giurisprudenza formatasi in relazione all’art. 140-bis cod. cons., secondo cui la sussistenza di diritti omogenei deve essere indagata guardando alla causa petendi e al petitum:

  1. con riferimento alla causa petendi, in presenza di domande risarcitorie è sufficiente che vi sia comunanza di fatto generatore del danno, nesso di causalità e danno-evento [20];
  2. con riferimento al petitum, occorre guardare principalmente al petitum mediato (i.e. al “bene della vita” concretamente richiesto), mentre assume minore rilevanza il petitum immediato (soprattutto in punto di quantum debeatur). In particolare, non è in sé preclusiva alla formazione di un’unica classe la circostanza che i danni lamentati dai singoli componenti della classe non siano suscettibili di una liquidazione unitaria o richiedano l’applicazione di diversi criteri o sotto-criteri di liquidazione [21].

II.A.2 Le domande ammissibili

Quanto alle domande esperibili nell’ambito del processo di classe, l’art. 840-bis, comma 1 c.p.c. (con espressione che non brilla per chiarezza, peraltro ripresa dall’art. 140-bis cod. cons.) sancisce che il ricorrente può agire “per l’accertamento della responsabilità e per la condanna al risarcimento del danno e alle restituzioni”.

Sul punto, ci si chiede (ma la questione si era già posta, con soluzioni diverse, con riferimento all’azione di classe consumeristica) se nell’ambito della nuova disciplina sia ammissibile l’esperimento di azioni di impugnativa contrattuale (nullità, annullamento, rescissione, risoluzione) [22]. Da un lato, infatti, non è agevole comprendere il riferimento alle “restituzioni”, se non in relazione alla ripetizione di prestazioni indebite (ab origine, perché effettuate sine titulo, o divenute tali in seguito alla caducazione dei contratti); dall’altro, i riferimenti legislativi esclusivamente all’“accertamento della responsabilità” e alla “condotta lesiva”denotano come la finalità “naturale” dell’azione di classe sia quella di ottenere dal Giudice l’accoglimento di pretese di carattere risarcitorio.

Il tema è certamente complesso e merita un approfondimento specifico. Ai fini del presente lavoro ci si limita, comunque, ai seguenti spunti di riflessione.

In primo luogo, e in linea generale, non sembra che il processo di classe sia “attrezzato” per gestire azioni di impugnativa contrattuale. In particolare, il requisito dell’omogeneità dei diritti parrebbe imporre che: (i) tutti i componenti della classe invochino la medesima patologia contrattuale, in relazione a contratti tra loro analoghi; (ii) la causa petendi si fondi su fatti tra loro analoghi, o su un’unica condotta plurioffensiva (o “pluriviziante”) posta in essere dal ricorrente. Ferma la necessità del requisito dell’omogeneità dei diritti, non pare comunque che si possa precludere al giudice dell’azione di classe il potere di rilevare d’ufficio (e dichiarare) la nullità contrattuale secondo le regole di diritto comune. E comunque, se anche si volesse limitare il potere decisorio del giudice nell’azione di classe, si potrebbe – compatibilmente con il dettato normativo – limitare il dispositivo alla condanna alle “restituzioni”, previo accertamento (meramente incidentale) della nullità e della conseguente inefficacia del contratto.

Una simile soluzione non parrebbe invece ipotizzabile per le azioni di impugnativa contrattuale cui non corrisponde alcun potere di rilievo d’ufficio e/o che devono essere decise con sentenze costitutive. Ebbene, se si vuole dare un senso al riferimento legislativo alle “restituzioni” si deve ritenere che tali azioni siano astrattamente ammissibili, pur con il concreto limite del necessario rispetto del requisito dell’omogeneità dei diritti oggetto di tutela.

In linea con i quesiti che si è posta la dottrina con riferimento all’azione di classe consumeristica, anche per il nuovo processo di classe ci si può inoltre chiedere se siano ammissibili:

  1. azioni di mero accertamento dell’illecito. La risposta sembra negativa, sia perché tali azioni sarebbero incompatibili con la struttura del nuovo processo di classe (che verrebbe sostanzialmente “privato” della fase liquidatoria), sia perché – come acutamente osservato in dottrina in relazione al sistema previgente – così facendo si trasformerebbe l’azione di classe in un’azione a tutela di interessi collettivi (volta cioè a tutelare la classe nel suo insieme, ma non i diritti individuali dei suoi componenti), con inutile duplicazione dello strumento processuale (esiste già, a tal fine, l’azione inibitoria collettiva) [23];
  2. azioni volte a ottenere la condanna del convenuto a eseguire obblighi di fare, non fare, consegna di beni determinati, ovvero a ottenere un risarcimento in forma specifica che non venga liquidato in una somma di danaro. In tutti questi casi la risposta dovrebbe essere negativa, sia perché di tali forme di tutela non è fatta menzione nella legge, sia perché l’intero procedimento è chiaramente strutturato per far fronte a pretese pecuniarie del ricorrente e degli aderenti [24].

Discorso a parte merita l’art. 840-bis, comma 3 c.p.c. che fa salve “le disposizioni in materia di ricorso per l’efficienza delle amministrazioni e dei concessionari di pubblici servizi”. Il riferimento è alla c.d. azione di classe pubblicistica ex d.lgs. 20 dicembre 2009, n. 198, il cui art. 1, comma 6 prevede espressamente che “il ricorso non consente di ottenere il risarcimento del danno cagionato dagli atti e dai comportamenti di cui al comma 1; a tal fine, restano fermi i rimedi ordinari”. Tra le due azioni di classe non vi è, comunque, piena complementarietà, in ragione della diversità di presupposti soggettivi e oggettivi e di disciplina processuale [25].

II.B L’ambito di applicazione soggettivo

II.B.1 La legittimazione attiva

L’art. 840-bis, comma 2 c.p.c. prevede la legittimazione attiva: (i) di “ciascun componente della classe”; nonché di (ii) ogni “organizzazione” o “associazione”, “senza scopo di lucro”, “i cui obiettivi statutari comprendano la tutela dei predetti diritti”, purché “iscritte in un elenco pubblico istituito presso il Ministero della giustizia”. Sotto entrambi i profili, la nuova disciplina si discosta da quella dell’azione di classe consumeristica, ampliandone i confini.

Quanto alla legittimazione del singolo componente della classe, la novità più rilevante è data dall’eliminazione del requisito soggettivo della qualità di consumatore: la nuova azione di classe è esperibile anche da parte di soggetti che non agiscano nella qualità di consumatori, e in relazione a rapporti non di “consumo”, nonché – si deve ritenere – da parte di enti giuridici individualmente lesi da condotte plurioffensive [26].

Quanto alla legittimazione autonoma degli enti esponenziali (“organizzazioni” o “associazioni”) all’esperimento dell’azione collettiva, si tratta di un’autentica novità. Nella disciplina consumeristica dettata dall’art. 140-bis cod. cons., che pure contemplava gli “interessi collettivi” tra le situazioni giuridiche soggettive tutelabili con l’azione di classe, non era attribuito alle associazioni di categoria un autonomo diritto di azione: il singolo “componente della classe” poteva semplicemente farsi rappresentare in giudizio da tali organizzazioni. Tali enti sono quindi stati sinora legittimati a esperire iure proprio la sola azione collettiva ex art. 140 cod. cons. (a carattere inibitorio/ripristinatorio), non anche l’azione risarcitoria/restitutoria ex art. 140-bis cod. cons. Di contro, la nuova disciplina non contempla più la possibilità per il singolo “componente della classe” di agire “mediante associazioni” (art. 140-bis, comma 1 cod. cons.). Non sembra, comunque, preclusa al singolo la possibilità di conferire un mandato con rappresentanza a simili associazioni o organizzazioni (o a terzi soggetti), ai fini dell’instaurazione di un’azione di classe ex art. 840-bis c.p.c. Si tratterà, tuttavia, di un ordinario rapporto di mandato, con tutte le conseguenze sul piano processuale, anche in punto di capacità del rappresentante di stare in giudizio [27]. Nella sostanza, comunque, il riconoscimento di una legittimazione autonoma agli enti esponenziali renderà verosimilmente residuale l’ipotesi di azione di classe instaurata da una persona fisica per mezzo di un ente rappresentante. Se, infatti, gli enti esponenziali e in particolare le associazioni dei consumatori sono stati il vero “cuore pulsante” già delle azioni ex art. 140-bis cod. cons. (promuovendole, seppur in forza di un mandato da un componente della classe, e poi sollecitando le adesioni attraverso i più disparati canali di informazione), è lecito attendersi che un ruolo ancor più incisivo avranno nel nuovo sistema, potendo addirittura agire iure proprio, ovviamente previa iscrizione nell’apposito elenco [28].

In ogni caso, come correttamente osservato in dottrina, non sarà possibile “estirpare” la figura del class representative di matrice anglosassone dal modello italiano di azione di classe, in quanto gli enti esponenziali, nell’assumere il ruolo di ricorrenti, dovranno comunque “individuare nominativamente i titolari” dei diritti individuali che si assumono lesi dalla condotta del resistente [29].

Non tutti gli enti esponenziali potranno agire in giudizio iure proprio, ma solo quelli iscritti in un elenco pubblico costituito con decreto del Ministro della Giustizia, di concerto con il Ministro dello Sviluppo Economico, previo parere delle competenti commissioni parlamentari (art. 196-ter disp. att. c.p.c., introdotto dalla l. 31/2019) [30]. In particolare, il decreto attuativo stabilirà: (i) i “requisiti” per l’iscrizione nell’elenco, avuto riguardo alle “finalità programmatiche” dell’ente esponenziale, alla sua “adeguatezza a rappresentare e tutelare i diritti omogenei azionati” e alla sua “stabilità e continuità”; e (ii) i “criteri” per la sospensione e la cancellazione dell’ente stesso, sui quali la legge non offre tuttavia alcuna indicazione [31]. Deve quindi ritenersi oggi preclusa la possibilità, per i componenti della classe, di agire per mezzo di comitati costituiti ad hoc (ammessa invece per l’azione di classe consumeristica), che difetterebbero dei requisiti di stabilità e continuità richiesti per l’iscrizione nell’elenco ministeriale.

Tra i “requisiti” per l’iscrizione, l’art. 196-ter disp. att. c.p.c. comprende anche la “verifica delle fonti di finanziamento” impiegate dall’ente. A prescindere dall’infelice formulazione letterale [32], ciò che conta è che l’indipendenza finanziaria dell’ente esponenziale da imprese e pubblici gestori, oltre a sussistere al momento dell’iscrizione nell’apposito elenco, deve permanere nel tempo e quindi si auspica che nel decreto attuativo sarà prevista una vigilanza ministeriale periodica sul permanere dei requisiti in capo agli enti iscritti nell’elenco.

II.B.2 La legittimazione passiva

Quanto alla legittimazione passiva, ai sensi dell’art. 840-bis, comma 1 c.p.c. il convenuto dev’essere (quantomeno nella prospettazione del ricorrente) l’“autore della condotta lesiva”. Possono essere convenuti in giudizio, “relativamente ad atti e comportamenti posti in essere nello svolgimento delle loro rispettive attività”, solo: (i) “imprese”; (ii) “gestori di servizi pubblici o di pubblica utilità” [33].

Il riferimento alle “imprese” non parrebbe doversi leggere come mero rinvio all’art. 2082 c.c., che definisce la figura dell’“imprenditore”. Infatti, già con riferimento all’azione di classe consumeristica la giurisprudenza aveva avuto modo di far rientrare nella nozione di “impresa” tanto i professionisti quanto gli enti (di natura pubblica o privata) che, operando con metodo imprenditoriale ed eventualmente anche in assenza di scopo di lucro, eroghino servizi pubblici all’utenza [34]. In ogni caso, nella nozione di “impresa” sembrerebbero doversi far rientrare, in mancanza di indicazioni contrarie: (i) tanto le persone fisiche quanto le società; e (ii) non solo gli imprenditori commerciali, ma anche gli imprenditori agricoli e i piccoli imprenditori.

Quanto alla legittimazione passiva dei “gestori di servizi pubblici o di pubblica utilità”, il legislatore non ha ritenuto di precisare esattamente chi siano tali soggetti; il riferimento non sembra, comunque, limitato ai soli “concessionari” dei servizi predetti, dovendo invece includere anche gli enti pubblici incaricati della gestione diretta dei servizi stessi.

La precisazione che l’azione di classe trova applicazione agli “atti e comportamenti” posti inessere dalle imprese e dai pubblici gestori “nello svolgimento delle loro rispettive attività” non appare particolarmente giustificata, se non con riferimento agli imprenditori che siano persone fisiche (per i quali è certamente opportuno differenziare l’attività d’impresa dall’attività propria della persona fisica).

Ancora, dubbi potrebbero sorgere in merito alla “suitas” dell’attività, in relazione ai rapporti endosocietari (si pensi ai rapporti tra società e soci/obbligazionisti/titolari di altri strumenti finanziari). In molte ipotesi, infatti, l’emissione di titoli è un mero mezzo di finanziamento dell’attività d’impresa della società, il cui business riguarda però tutt’altro [35].

II.C L’ambito di applicazione temporale

Ai sensi del primo comma dell’art. 7 l. 31/2019, le nuove disposizioni “entrano in vigore decorsi dodici mesi dalla pubblicazione” della legge nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, e ciò “al fine di consentire al Ministero della giustizia di predisporre le necessarie modifiche dei sistemi informativi per permettere il compimento delle attività processuali con modalità telematiche”. Le nuove disposizioni entreranno, quindi, in vigore in data 19 aprile 2020.

Molto più interessante il secondo comma, che prevede l’applicabilità delle nuove disposizioni alle “condotte illecite poste in essere successivamente” alla data di entrata in vigore della legge, precisando – ad abundantiam – che “alle condotte illecite poste in essere precedentemente continuano ad applicarsi le disposizioni vigenti prima della medesima data di entrata in vigore”. Si tratta di una tecnica legislativa già adottata in occasione delle precedenti riforme dell’azione di classe consumeristica [36], e già allora definita come “il ‘salvacondotto’ per gli illeciti del passato”, persino con dubbi di legittimità costituzionale [37].

Contrariamente all’opinione appena riportata, si ritiene che la scelta legislativa non sia, in questo caso, priva di giustificazioni, in quanto: (i) è costituzionalmente consentita, ma non certamente imposta, la retroattività della norme processuali; (ii) negli intenti del legislatore, le nuove disposizioni (che pongono, a vario titolo, la classe attrice in posizione di vantaggio rispetto all’impresa o al gestore convenuti in un giudizio individuale) sono volte anche a produrre effetti deterrenti nei confronti delle imprese, funzione certamente non attuabile con riferimento alle condotte pregresse; (iii) è comunque opportuno offrire a imprese e pubblici gestori potenziali destinatari dell’azione di classe un margine di tempo ragionevole per adeguarsi alle nuove disposizioni, predisponendo al proprio interno dei presidi che possano eliminare o ridurre il rischio di compiere illeciti plurioffensivi [38].

In ogni caso, anche la regola appena commentata può lasciare spazio a incertezze interpretative, in particolare con riferimento agli illeciti c.d. “permanenti” (nei quali la condotta illecita perdura per un certo lasso di tempo) e agli illeciti “istantanei ad effetti permanenti”: [39] si pensi, per questi ultimi ai danni lungo-latenti, in ambito ambientale e medico-sanitario [40].

In linea generale, ogniqualvolta le condotte illecite si siano svolte (se istantanee) o comunque esaurite (se permanenti) prima dell’entrata in vigore delle nuove disposizioni, il ricorso al nuovo processo di classe dovrà ritenersi precluso, a prescindere dalla data di manifestazione delle propagazioni dannose. Meno lineare è invece la soluzione per l’ipotesi di condotte illecite permanenti che – avviate prima dell’entrata in vigore delle nuove disposizioni – si protraggano anche dopo: si potrebbe forse ipotizzare (ma il tema richiederebbe un maggior approfondimento) l’applicabilità del nuovo processo di classe solo con riferimento alla condotta successiva (“ignorando”, così, la condotta pregressa ai fini del processo di classe). Soluzione che, comunque, creerebbe evidenti storture, in quanto i soggetti astrattamente rientranti nella classe vedrebbero preclusa la promozione o l’adesione all’azione di classe sol perché danneggiati “prima” del 19 aprile 2020 (o, persino, danneggiati “dopo” ma in forza di una condotta pregressa), in presenza di una condotta che è comunque proseguita anche dopo tale data. Peraltro, come correttamente osservato in dottrina, la stessa distinzione tra illeciti istantanei e illeciti permanenti, pur concettualmente chiara, si presta a interpretazioni difformi nelle applicazioni concrete, come dimostrato dalla casistica giurisprudenziale in materia [41]. Si è, pertanto, proposto di considerare la “condotta” non in senso atomistico (i.e. come riferita ai singoli individui che compongono la classe), ma con riferimento alla classe per intero, con la conseguenza che “laddove sia possibile individuare una classe di diritti individuali omogenei, caratterizzati dal trovar fondamento su più illeciti – permanenti o istantanei che siano – reiterati nel tempo dalla parte convenuta, di cui solo alcuni riferibili temporalmente a un momento successivo all’entrata in vigore della norma, dovranno comunque ritenersi applicabili le nuove disposizioni sull’azione di classe a tutti i titolari dei diritti individuali omogenei, stante l’unitarietà della condotta plurioffensiva” [42].

III. Il processo di classe

III.A Competenza, forma della domanda e pubblicità dell’atto introduttivo del giudizio

III.A.1 La competenza

Ai sensi dell’art. 840-ter, comma 1 c.p.c., “la domanda per l’azione di classe si propone esclusivamente davanti alla sezione specializzata in materia di impresa competente per il luogo ove ha sede la parte resistente”. Coerentemente con tale disposizione, l’art. 6, comma 1 l. 31/2019 ha introdotto, tra le competenze per materia delle sezioni specializzate in materia d’impresa, le “controversie di cui al titolo VIII-bis del libro quarto del codice di procedura civile” (si veda il nuovo art. 3, comma 1, lett. d-bis) d.lgs. 168/2003).

Già con riferimento all’azione di classe consumeristica era stato originariamente previsto di concentrare il contenzioso presso le sezioni specializzate in materia d’impresa, ma tale ipotesi era stata poi scartata, anche alla luce delle perplessità manifestate in dottrina. Si era, infatti, osservato che la concentrazione dei giudizi presso le sezioni specializzate in materia d’impresa avrebbe, paradossalmente, generato una situazione di vantaggio del convenuto abituale, o “repeat player” (le imprese e i loro difensori), nei confronti del ricorrente sporadico, o “one-shotter”, alla luce di una maggiore adesione dei primi alla “cultura del contenzioso, che avvantaggia i litiganti frequenti nei confronti dei litiganti occasionali” [43]. Perplessità che, a parere di chi scrive, appaiono comunque superabili: (i) è noto, infatti, che la prassi giudiziaria instaurata con l’azione di classe consumeristica ha visto – quali protagoniste assolute – le associazioni consumatori, “ricorrenti abituali” che operano a livello nazionale e non temono certamente il confronto con le imprese e i loro difensori: tale prassi non potrà che essere confermata, alla luce del riconoscimento della legittimazione autonoma di organizzazioni o associazioni senza scopo di lucro ad agire in giudizio a tutela di diritti individuali omogenei; (ii) appare difficilmente compensabile la perdita di “valore aggiunto”, anche in termini di maggiore uniformità giurisprudenziale (e, quindi, in ultima analisi di certezza del diritto), derivante dalla concentrazione dei giudizi presso un numero relativamente ristretto di Fori [44]; (iii) l’elevata formazione e specializzazione dei magistrati che compongono le sezioni specializzate in materia d’impresa rappresenta una garanzia di qualità delle decisioni per tutte le parti del giudizio [45].

Andando alla formulazione delle disposizioni in materia di competenza, ci si avvede immediatamente che le nuove norme non risultano correttamente coordinate con quelle preesistenti.

È evidente, in primo luogo, l’anomalia data dalla collocazione dell’azione di classe di nuovo conio tra le “materie” indicate all’art. 3, comma 1, lett. d-bis) d.lgs. 168/2003: l’azione di classe non rappresenta un rito speciale ratione materiae, né tantomeno una materia, essendo invece potenzialmente applicabile a qualsiasi materia, e persino ad alcune di quelle elencate ai precedenti punti della medesima disposizione (si pensi alle controversie in materia antitrust, di cui alle precedenti lettere c) e d) dell’art. 3, comma 1 d.lgs. 168/2003). Anomalia che, peraltro, rende non immediato il coordinamento tra l’art. 3, comma 1 e il successivo art. 4 del d.lgs. 168/2003, con particolare riferimento alla materia antitrust.

In concreto, le regole di competenza applicabili all’azione di classe sembrerebbero essere le seguenti.

Nell’ipotesi più semplice (i.e. quando siano convenuti imprese o pubblici gestori aventi sede legale in Italia), l’art. 4, comma 1 d.lgs. 168/2003, nel combinato disposto con l’art. 840-ter, comma 1 c.p.c., attribuisce la competenza al tribunale del capoluogo della regione in cui si trova la sede del resistente, analogamente a quanto avverrebbe facendo applicazione dell’art. 19 c.p.c. [46].

Nelle ipotesi di cui all’art. 4, commi 1-bis e 1-ter c.p.c. (che disciplinano gli “spostamenti” di competenza in caso di convenuti stranieri e in materia antitrust), invece, l’interpretazione della nuova disciplina è meno agevole.

Da un lato, infatti, l’art. 840-ter, comma 1 c.p.c. prevede che la domanda vada proposta “esclusivamente davanti alla sezione specializzata in materia di impresa competente per il luogo ove ha sede la parte resistente”, e tale disposizione potrebbe essere ritenuta preclusiva di ulteriori “spostamenti” di competenza, con conseguente inapplicabilità dei criteri speciali di cui ai commi 1-bis e 1-ter (oltreché dei fori facoltativi ex art. 20 c.p.c.) [47].

Dall’altro, tuttavia, non si riesce a comprendere per quale ragione si dovrebbe mai “sprecare” il patrimonio di competenze ed esperienze accumulato da alcune specifiche sezioni specializzate in materia d’impresa, ormai avvezze ad operare con convenuti stranieri (si tratta delle undici sezioni indicate all’art. 4, comma 1-bis) o, ancor di più, in materia antitrust (si tratta delle tre sezioni imprese indicate all’art. 4, comma 1-ter). Ebbene, ove si ritenga che l’avverbio “esclusivamente” non determini l’inoperatività dei criteri speciali di competenza:

  1. nell’ipotesi in cui siano convenuti un’impresa o un pubblico gestore aventi sede all’estero, anche se dotati di sede secondaria in Italia, sarà competente, in base alla sede del convenuto, una delle undici sezioni specializzate in materia d’impresa elencate all’art. 4, comma 1-bis d.lgs 168/2003;
  2. nell’ipotesi in cui venga esperita un’azione di classe in materia antitrust, invece, in base al dettato normativo non parrebbe comunque applicabile l’art. 4, comma 1-ter d.lgs. 168/2003, che contempla solo le materie indicate all’art. 3, comma 1, lett. c) e d) (non anche la “materia” di cui alla lettera d-bis)), con la conseguente inoperatività dell’attrazione alla competenza delle sezioni specializzate in materia d’impresa di Milano, Roma e Napoli. Si tratta, tuttavia, di una soluzione del tutto irragionevole: la scelta legislativa di concentrare presso alcune sezioni specializzate in materia d’impresa il contenzioso antitrust dovrebbe valere a fortiori con riferimento alle class action in tale ambito. Che si tratti di una mera svista del legislatore appare, peraltro, confermato dal fatto che l’art. 6, comma 2 l. 31/2019 prevede espressamente la sostituzione del riferimento all’azione di classe consumeristica con quello all’azione di classe civilistica di nuovo conio nell’ambito dell’art. 1, comma 1 d.lgs. 3/2017, in materia di risarcimento del danno per violazione della normativa europea antitrust.Tale svista non appare, tuttavia, rimediabile sul piano ermeneutico, se non con una forzatura di non poco conto: si auspica, pertanto, un intervento correttivo, che (quantomeno) precisi che il contenzioso in materia antitrust è attribuito alla competenza delle sezioni specializzate in materia d’impresa di Milano, Roma e Napoli anche con riferimento alle azioni di classe [48].

III.A.2 Atto introduttivo e relativa pubblicità

L’atto introduttivo del giudizio ha la forma del ricorso: la legge ne disciplina la forma, ma non il contenuto [49], che sarà comunque quello previsto dall’art. 702-bis, comma 1, c.p.c., che a sua volta richiama gli elementi indicati dall’art. 163, comma 3 c.p.c. Peraltro, non essendo ammessa la conversione del rito (art. 840-ter, comma 3, secondo inciso c.p.c.), le istanze istruttorie e le prove precostituite dovrebbero essere contenute a pena di decadenza nell’atto introduttivo: non pare infatti che il soggetto ricorrente disponga di alcuna ulteriore “occasione” processuale per formulare, in particolare, le proprie istanze istruttorie.

Inoltre, benché non si tratti di un requisito di validità dell’atto introduttivo, va da sé che il ricorrente dovrà dare atto, sin dall’avvio del giudizio, della sussistenza dei presupposti di ammissibilità dell’azione di classe.

Il ricorso introduttivo, unitamente al decreto di fissazione dell’udienza, è pubblicato sul Portale dei Servizi Telematici del Ministero della Giustizia, a cura della cancelleria, entro dieci giorni dal deposito del decreto stesso, “in modo da assicurare l’agevole reperibilità delle informazioni in esso contenute” (art. 840-ter, comma 2 c.p.c.). Non è prevista la pubblicazione dell’atto introduttivo per estratto, né la possibilità di oscurare alcune parti dello stesso. Il nuovo sistema, nel quale gli adempimenti pubblicitari sono stati resi officiosi, parrebbe risolvere le perplessità manifestate in merito al sistema adottato con l’azione di classe consumeristica, che attribuiva al giudice il potere di ordinare la “più opportuna pubblicità”, a spese della classe attrice.

III.B L’adesione all’azione di classe

Il legislatore italiano ha deciso di discostarsi nettamente dal modello statunitense, sposando il meccanismo del c.d. “opt-in”: sono parti (in senso sostanziale) del processo di classe solo i componenti della classe che manifestino formalmente la volontà di aderire, depositando nel fascicolo telematico del giudizio un atto che, nella sostanza, contiene una domanda giudiziale [50].

La legge prevede la possibilità, per i componenti della classe, di aderire al giudizio in due diversi momenti: (i) dopo la pronuncia del tribunale sull’ammissibilità dell’azione di classe (i.e. dopo la conclusione della prima fase); (ii) dopo la pronuncia del tribunale sulla fondatezza dell’azione di classe (i.e. dopo la conclusione della seconda fase, il che -come vedremo § III.E- ha destato non poche critiche).

Nel presente paragrafo ci si soffermerà sulle modalità di tale adesione, disciplinate dall’art. 840-septies c.p.c. idealmente con riferimento all’adesione successiva alla sentenza sul merito, ma applicabili in quanto compatibili anche all’adesione dopo la pronuncia sull’ammissibilità, in forza del rinvio di cui all’art. 840-quinquies c.p.c.

L’approccio del legislatore è ovviamente quello di cercare di facilitare l’adesione prevedendo la possibilità di presentarla anche senza il ministero del difensore e tramite l’inserimento della domanda nel fascicolo telematico, attraverso un’apposita area del Portale dei Servizi Telematici. La domanda di adesione dovrà essere strutturata sulla base di un modulo conforme a un modello standard predisposto con decreto del Ministro della Giustizia, che sarà corredato anche da apposite istruzioni per la compilazione.

Il contenuto della “domanda di adesione” viene comunque indicato nell’art. 840-septies, che richiede, a pena di inammissibilità:

  1. l’indicazione del tribunale e i dati relativi all’azione di classe a cui il soggetto chiede di aderire”;
  2. i “dati identificativi” dell’aderente, ivi compreso l’indirizzo di posta elettronica certificata o il servizio elettronico di recapito certificato dell’aderente o del suo difensore. Quanto ai “dati identificativi”, nel silenzio della legge si ritiene corretto fare applicazione dell’art. 163, comma 3, n. 2 c.p.c.;
  3. la “determinazione dell’oggetto della domanda” e “l’esposizione dei fatti costituenti le ragioni della domanda di adesione”: si tratta essenzialmente del disposto dell’art. 163, comma 3, nn. 3 e 4, peraltro significativamente “mutilato”, essendo stato eliminato il riferimento agli “elementi di diritto”. L’omissione del richiamo agli “elementi di diritto” pare essere una svista o al più il maldestro tentativo del legislatore di: (i) facilitare l’accesso all’azione di classe da parte degli aderenti (che possono agire senza l’assistenza di un difensore), semplificando il più possibile il contenuto della domanda (e, di conseguenza, l’oggetto del giudizio), essendo il giudizio già “incardinato”, quanto alle questioni di diritto, dal ricorrente [51]; (ii) velocizzare l’esame delle domande di ammissione da parte del giudice e dello stesso resistente. In ogni caso, non può certamente ritenersi preclusa agli aderenti la formulazione di argomentazioni in diritto: d’altro canto, appare per certi versi inevitabile che gli aderenti qualifichino giuridicamente le proprie pretese, anche solo facendo proprio il contenuto del ricorso introduttivo;
  4. l’indice dei documenti probatori eventualmente prodotti. Come si dirà, gli aderenti non sono parti in senso processuale del giudizio, e non hanno la possibilità di formulare istanze istruttorie, ma possono depositare prove precostituite, ivi comprese, eventualmente, delle testimonianze scritte, anche in deroga ai requisiti di cui all’art. 257-bis c.p.c. [52]. Sul punto, si è osservato che, attesa la natura prettamente documentale della fase di liquidazione del danno [53], al giudice sarà verosimilmente preclusa l’audizione dei testi che abbiano reso dichiarazioni scritte, prevista invece in generale dall’art. 257-bis, comma 8 c.p.c. [54];
  5. l’attestazione che “i dati e i fatti esposti nella domanda e nei documenti prodotti sono veritieri”. Tale attestazione ha l’efficacia di una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà ex art 47 D.P.R. 445/2000, ed espone – se falsa – alle responsabilità penali previste dall’art. 76 D.P.R. 445/2000. Da un punto di vista strettamente giudico, il riferimento alla veridicità dei “fatti esposti … nei documenti prodotti” è, a parere di chi scrive, inopportuno: (i) sia perché il materiale probatorio è evidentemente soggetto all’apprezzamento del giudice, non acquisendo efficacia di prova legale; (ii) sia perché, nel nostro ordinamento processuale, le parti non hanno l’obbligo di dire la verità, tantomeno di produrre documenti dai quali emergano “fatti … veritieri”. Da un punto di vista pratico, comunque, la previsione ha il merito di responsabilizzare gli aderenti alla veridicità del contenuto di quanto esposto, in un sistema in cui, visto l’elevato numero dei possibili aderenti, è auspicabile (e essenziale al buon funzionamento del sistema) che i dati e i fatti rappresentati e sottoposti all’esame del giudice siano veritieri. In ogni caso, non sembra che l’aderente possa (o debba) assumersi la responsabilità della veridicità delle dichiarazioni eventualmente rese dai testi in forma scritta (questi, infatti, hanno – a differenza delle parti – l’obbligo penalmente sanzionato di dire la verità);
  6. il conferimento al rappresentante comune degli aderenti del potere di rappresentanza dell’aderente e “di compiere nel suo interesse tutti gli atti, di natura sia sostanziale sia processuale, relativi al diritto individuale omogeneo esposto nella domanda di adesione”. Tale previsione riguarda, con evidenza, solo la fase liquidatoria;
  7. i “dati necessari per l’accredito delle somme che verranno eventualmente riconosciute in favore dell’aderente”. Come si è visto, in caso di accoglimento delle domande, l’esito del giudizio avrà ad oggetto nella maggior parte dei casi la liquidazione di somme di danaro in favore dei componenti della classe;
  8. la “dichiarazione di aver provveduto al versamento del fondo spese di cui all’articolo 840-sexies, primo comma, lettera h)”. Tale dichiarazione sarà possibile solo in caso di adesione effettuata dopo la sentenza che definisce il merito (prima di tale momento non è previsto alcun fondo spese).

Analogamente a quanto previsto, ad esempio, in materia fallimentare per le domande di insinuazione al passivo, la domanda di adesione produce gli effetti della domanda giudiziale (si pensi agli effetti sostanziali, come l’interruzione della prescrizione, o a quelli processuali, come la pendenza della lite).

L’art. 840-septies, comma 7 c.p.c. sancisce l’inefficacia della domanda di adesione, per l’ipotesi che il potere di rappresentanza conferito al rappresentante comune degli aderenti venga revocato (v. infra § III.D). La legge non precisa in che forma debba avvenire la revoca, ma – coerentemente con la disciplina comune in materia di rappresentanza – parrebbe sufficiente una dichiarazione ricettizia inviata al rappresentante stesso. Una conferma a contrario sembra derivante dalla previsione che la revoca, pur operando “di diritto” ed essendo “rilevabile d’ufficio”, sarà “opponibile all’impresa e all’ente gestore di servizi pubblici o di pubblica utilità da quando è inserita nel fascicolo informatico”.

III.C La prima fase: l’ammissibilità dell’azione di classe

Come osservato dai primi commentatori, il nuovo processo di classe è suddiviso in tre fasi: alle preesistenti fasi di valutazione dell’ammissibilità e decisione del merito è stata aggiunta una terza fase eventuale a carattere liquidatorio, che ha luogo solo se la domanda viene accolta, e nell’ambito della quale il tribunale è chiamato a definire il quantum debeatur da parte del convenuto condannato nei confronti di ciascun aderente alla classe [55].

Nelle prime due fasi, in giudizio sono presenti ricorrente e resistente (parti in senso sostanziale e processuale e necessarie) e possono essere presenti anche gli aderenti all’azione (parti in senso solo sostanziale e meramente eventuali) [56]. Nella terza fase, invece, non è presente il ricorrente (unico soggetto in relazione al quale la sentenza che definisce il merito determina anche la misura del risarcimento o delle restituzioni dovute: v., infra, § III.D.2), e il ruolo d’impulso alla procedura viene affidato al rappresentante comune degli aderenti, nominato dal tribunale con la sentenza ex art. 840-sexies c.p.c., che opera quale pubblico ufficiale; gli aderenti e il resistente sono le parti in senso formale e sostanziale della procedura liquidatoria, ma il potere d’impulso è attribuito al rappresentante comune degli aderenti, che opera sotto la vigilanza del giudice delegato nominato con la sentenza.

Per quanto non diversamente disposto, il procedimento segue il rito sommario di cognizione ex art. 702-bis c.p.c. Diversamente da quanto previsto per tale rito, tuttavia, l’art. 840-ter c.p.c. contempla la “discussione orale della causa”, cui seguirà la decisione (non contestualmente, come previsto dall’art. 281-sexies c.p.c., ma) entro 30 giorni.

Depositato il ricorso, con il decreto di fissazione udienza il tribunale fisserà un termine per la costituzione del resistente (che dovrà comunque avvenire non oltre 10 giorni prima della data d’udienza); la notifica al resistente del ricorso e del decreto dovrà avvenire nel termine fissato nel decreto stesso, ma comunque almeno 30 giorni prima della scadenza del termine di costituzione del resistente. Ovviamente la tendenziale complessità delle questioni giuridiche e fattuali alla base di una azione di classe potrebbe suggerire al giudice di assegnare uno spatium deliberandi (di gran lunga) superiore rispetto al termine minimo di 30 giorni previsto dalla norma.

Ai sensi dell’art. 840-ter, comma 3, secondo inciso c.p.c., entro il termine di “trenta giorni dalla prima udienza”, il tribunale decide con ordinanza sull’ammissibilità della domanda. Come già previsto per l’azione di classe consumeristica dall’art. 140-bis, comma 6 cod. cons., la domanda è dichiarata inammissibile quando:

  1. è manifestamente infondata”;
  2. il tribunale non ravvisa omogeneità dei diritti individuali tutelabili ai sensi dell’articolo 840-bis”;
  3. il ricorrente versa in stato di conflitto di interessi nei confronti del resistente”;
  4. il ricorrente non appare in grado di curare adeguatamente i diritti individuali omogenei fatti valere in giudizio”.

Nel silenzio della legge, si ritiene che l’ordinanza debba essere adottata dal Collegio, come parrebbe peraltro confermato dal riferimento legislativo al “tribunale” e dalla previsione della reclamabilità innanzi alla Corte d’Appello.

L’ordinanza che decide sull’ammissibilità dell’azione di classe è soggetta alla medesima pubblicità prevista per il ricorso introduttivo (art. 840-ter, comma 5 c.p.c.).

Nell’ipotesi in cui l’azione di classe venga dichiarata inammissibile perché manifestamente infondata, è possibile la riproposizione della domanda solo ove “si siano verificati mutamenti delle circostanze”o “vengano dedotte nuove ragioni di fatto o di diritto” (art. 840-ter, comma 6 c.p.c.). Non solo, quindi, il fatto sopravvenuto, ma anche la deduzione di “nuove ragioni di fatto o di diritto”, anche se già astrattamente deducibili in prima istanza, legittimerà la proposizione di una nuova azione di classe.

Più in generale, sembra di potersi affermare che l’ordinanza che dichiara inammissibile un’azione di classe ha una limitata portata preclusiva (forse assimilabile a quella del decreto di rigetto del ricorso monitorio ex art. 640 c.p.c.), sicché – venuto meno uno qualsiasi dei motivi di inammissibilità rilevati dal tribunale in prima istanza – l’azione di classe potrà essere riproposta.

Coerentemente con la natura dell’ordinanza, che non contiene statuizioni sull’esistenza dei diritti soggettivi azionati dal ricorrente, l’ordinanza che ammette o non ammette l’azione di classe è reclamabile innanzi alla Corte d’Appello, ma non ricorribile per cassazione [57]. Il reclamo “avverso le ordinanze ammissive non sospende il procedimento davanti al tribunale”.

III.C.1 I requisiti di ammissibilità dell’azione di classe

Vediamo, ora, in maggior dettaglio i requisiti di ammissibilità dell’azione di classe.

Quanto al requisito della non manifesta infondatezza, sembra che il tribunale non sia chiamato a valutare il fumus boni iuris, essendo invece sufficiente accertare che la domanda non sia palesemente sfornita di fondamento in fatto (carenza di elementi costitutivi della fattispecie) o in diritto (prospettazione totalmente priva di fondamento giuridico). Vi è chi ha sostenuto che, nella valutazione di ammissibilità, il tribunale dovrebbe basarsi esclusivamente sulla prospettazione di parte, assumendone la veridicità [58]. A parere di chi scrive, si tratta di un’affermazione non condivisibile nella sua assolutezza: la valutazione di ammissibilità si svolge per volontà legislativa nel contraddittorio delle parti, e non è pensabile che il tribunale ignori eventuali difese del resistente volte a evidenziare la carenza di prova (o a fornire prove contrarie) in merito alla sussistenza dell’illecito e/o del danno lamentato dal ricorrente [59].

Si ritiene, pertanto, che:

  1. ove dovesse emergere, già nella prima fase del giudizio, la palese infondatezza della prospettazione del ricorrente (i.e. il resistente fornisse la prova di tale infondatezza), il ricorso dovrebbe essere dichiarato inammissibile per manifesta infondatezza;
  2. ove, invece, nella prima fase del giudizio dovesse sorgere un “dubbio” in merito alla fondatezza della prospettazione del ricorrente, il tribunale non potrebbe dichiarare senz’altro inammissibile la domanda, essendo invece tenuto a dichiararne l’ammissibilità (salvo, ovviamente, che sussistano diverse ragioni di inammissibilità), per poi effettuare, nella seconda fase del giudizio, i necessari accertamenti istruttori.

Nel complesso, si ritiene che la previsione di una fase di filtro sia oltremodo opportuna, in quanto: (i) evita che soggetti appartenenti alla classe pongano in essere inutili sforzi per l’adesione a un’iniziativa processuale manifestamente infondata; (ii) evita che il resistente sia esposto per un lungo periodo di tempo al danno reputazione di un’iniziativa giudiziaria manifestamente infondata; (iii) consente, al contempo, al resistente di effettuare una preliminare (e peraltro doverosa) valutazione in merito al rischio di causa, anche al fine di provvedere ai necessari accantonamenti contabili [60]; (iv) risponde – come tutti i “filtri” previsti nell’ordinamento processuale – a esigenze di economia processuale ed efficienza della giustizia.

Quanto all’omogeneità dei diritti individuali, si rinvia alle considerazioni svolte supra (cfr. § II.A).

Quanto al conflitto di interessi, è importante rilevare che, nella fase di merito, l’unica parte attrice in senso formale e sostanziale è il ricorrente, che agirà quindi nell’interesse proprio e, soprattutto, dell’intera classe. Integra, pertanto, un conflitto d’interessi ogni situazione in cui il ricorrente (ad esempio, in forza di rapporti commerciali esistenti con il resistente) abbia un interesse confliggente con quello della classe; ovvero l’ipotesi in cui sia stata intentata un’azione di classe volutamente “debole”, sul piano della prospettazione come su quello istruttorio, al solo fine di impedire l’instaurazione di una nuova e “migliore” azione di classe [61].

Ciò che appare veramente problematico con riferimento al conflitto d’interessi è l’accertamento [62]. Nella fase di valutazione dell’ammissibilità, infatti, non è ancora avvenuta l’adesione da parte dei componenti della classe, con la conseguenza che le uniche parti del procedimento saranno il ricorrente e il resistente (i.e. i soggetti in ipotesi collusi, o comunque portatori di interessi coincidenti o in parte sovrapposti), che tenderanno a non far disclosure della propria coincidenza di interessi. Non è quindi chiaro in base a quali elementi fattuali il tribunale potrà avvedersi dell’esistenza di un conflitto d’interessi, non disponendo peraltro di poteri d’indagine sul punto. Il problema sussiste soprattutto con riferimento ai ricorrenti individuali, soggetti più facilmente “avvicinabili” da un resistente in malafede rispetto agli enti esponenziali [63]. Con riferimento a questi ultimi, peraltro, si è visto che il Ministro della Giustizia dovrà stabilire con decreto i requisiti necessari per l’iscrizione all’elenco ex art. 196-ter disp. att. c.p.c.: sarà certamente opportuno, lo si ribadisce, che gli iscritti offrano informazioni complete sulla situazione economica e patrimoniale, sui propri amministratori e legali rappresentanti (v., supra, § II.B).

Anche in merito alla capacità di curare adeguatamente i diritti individuali omogenei, il problema sembra porsi in maniera prevalente con riferimento al ricorrente individuale. Per gli enti esponenziali, infatti, l’iscrizione all’elenco ex art. 196-ter disp. att. c.p.c. offrirà una prima garanzia di capacità (quantomeno economico-finanziaria e organizzativa), anche se il tribunale dovrà comunque effettuare una valutazione in concreto con riferimento alla singola azione di classe proposta [64]. A tal fine, sarà buona regola che i ricorrenti offrano al tribunale degli elementi per effettuare una prognosi, tra l’altro, in merito alle “dimensioni” (i.e. al numero atteso di aderenti) della singola azione di classe [65].

Sul punto, si è sostenuto, anche autorevolmente [66], che la valutazione del tribunale dovrà attenere anche alla capacità tecnica e “solidità” (anche finanziaria) dello studio legale incaricato della difesa del ricorrente. Tale impostazione non appare condivisibile, in quanto: (i) il tribunale non può valutare i mezzi finanziari e operativi del difensore, tantomeno la competenza ed esperienza dello stesso, né ha alcun titolo per chiederne la giustificazione in giudizio; (ii) la scelta del difensore è un diritto del ricorrente, sia esso un componente della classe o un ente esponenziale, e non può essere “riferita” al giudice; (iii) non è seriamente ipotizzabile, e sarebbe invero lesivo del decoro della professione, un sistema in cui l’ammissibilità di una domanda giudiziale dipenda dalle qualità soggettive del difensore del ricorrente; sistema che porterebbe, necessariamente, all’instaurazione di un indecoroso contraddittorio tra avvocati in merito alle rispettive capacità (tecniche e finanziarie) [67].

Si è detto, altresì, che il tribunale dovrebbe valutare se “il proponente ed il suo rappresentante tecnico appaiano in grado di spiegare un’attività difensiva all’interno del processo di classe, a tutela del diritto individuale, di livello non inferiore rispetto a quella che potrebbe compiere il singolo aderente, ove facesse valere la propria pretesa in un giudizio individuale” [68]. L’interpretazione non convince appieno, dal momento che il confronto tra le due possibili alternative processuali (azione di classe e azione individuale): (i) non può operare in presenza di azioni di classe c.d. “olistiche”, nelle quali non esiste un benchmark di riferimento (in quanto lo scenario controfattuale – azione individuale spiegata in assenza di un’azione di classe – è difficilmente ipotizzabile, dal momento che l’azione individuale sarebbe antieconomica o impossibile); (ii) non pare del tutto lineare neanche per le azioni di classe c.d. “discrete”, perché le economie “di scala” realizzabili con un’azione di classe rendono non omogenee le due azioni.

Già in relazione all’azione di classe consumeristica ci si è chiesto, poi, se il tribunale possa – nella prima fase del giudizio – dichiarare inammissibile la domanda per carenza degli ordinari presupposti processuali. Sembra che la risposta debba essere negativa, se non altro per una ragione pratica: l’insussistenza dei presupposti processuali è una questione idonea a definire immediatamente il giudizio, il che dev’esser fatto con sentenza impugnabile con i mezzi ordinari, non con ordinanza reclamabile. Si concorda con chi ha sostenuto, quindi, che il tribunale dovrebbe pronunciarsi sull’ammissibilità, per poi – in fase di merito – rimettere immediatamente il giudizio in decisione senza svolgere attività istruttoria [69].

Si è correttamente sostenuto, infine, che tra i requisiti di ammissibilità del ricorso dovrebbe farsi rientrare la (prospettazione di una) condotta plurioffensiva del ricorrente, ma ciò non comporterà la conseguenza che sarà precluso l’accesso al processo di classe al “proponente che non alleghi sin dal deposito del ricorso un sufficiente numero di adesioni” [70]. Se è vero, infatti, che la plurioffensività della condotta è presupposto indefettibile per accedere allo strumento di classe, al momento del deposito del ricorso sarà comunque sufficiente dare atto dell’esistenza di una condotta illecita del resistente idonea a ledere in concreto una pluralità di soggetti.

III.D La seconda fase: il giudizio di merito

Con l’ordinanza che dichiara ammissibile l’azione di classe e apre la seconda fase del giudizio, il tribunale: (i) fissa un termine per l’adesione, non inferiore a 60 e non superiore a 150 giorni dalla data di pubblicazione dell’ordinanza stessa; e (ii) “definisce i caratteri dei diritti individuali omogenei”.

L’adesione è disciplinata dall’art. 840-septies (si tratta della disposizione commentata al precedente § III.B) [71].

Il legislatore precisa che l’aderente “non assume la qualità di parte”, ma ha comunque il diritto di: (i) accedere al fascicolo informatico del giudizio; (ii) ricevere tutte le comunicazioni effettuate dalla cancelleria; (iii) offrire prove – ivi compresa una forma di testimonianza scritta.

Quanto alla fase di merito, il legislatore nulla dispone in merito al compimento di eventuali atti difensivi da parte del ricorrente né del resistente, dedicandosi invece alla sola fase istruttoria [72]. Nel silenzio della legge, si ritiene comunque opportuno che, all’avvio della fase di merito, venga concesso alle parti un termine per precisare o modificare le proprie argomentazioni difensive e conclusioni, per tenere conto del contenuto dell’ordinanza che dichiara ammissibile l’azione di classe.

III.D.1 L’attività istruttoria

È nella fase di merito che si svolgerà l’attività istruttoria (si è visto, infatti, che la fase di valutazione dell’ammissibilità della domanda è retta dal principio della prospettazione). Rispetto a quanto previsto per il rito ordinario di cognizione, tale attività è deformalizzata: l’art. 840-quinquies, comma 2 c.p.c. prevede che “il tribunale, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione rilevanti in relazione all’oggetto del giudizio” [73].

L’art. 840-quinquies c.p.c. contiene, poi, alcune disposizioni specifiche con riferimento all’attività istruttoria e agli effetti delle prove nel processo di classe.

Con riferimento alla consulenza tecnica d’ufficio, la legge pone l’obbligo di anticipare le spese e l’acconto sul compenso di regola in capo al resistente, “salvo che sussistano specifici motivi” (art. 840-quinquies, comma 3 c.p.c.). La legge non chiarisce quali siano gli “specifici motivi”, ma appare palese l’intento di agevolare l’adozione di CTU a spese del resistente. Non sembra, peraltro, che in un processo ispirato al principio del contraddittorio e alla parità delle parti processuali vi sia alcuna fondata ragione per porre le spese relative all’operato di un ausiliario del Giudice a carico del resistente, soprattutto dal momento che, nella pratica, l’adozione di una consulenza tecnica d’ufficio sarà verosimilmente richiesta, nella maggioranza dei casi, dalla parte ricorrente [74].

Anche con riferimento all’ordine di esibizione ex art. 210 c.p.c., la legge prevede delle deroghe rispetto al meccanismo ordinario. In particolare:

  1. l’ordine di esibizione può essere adottato su “istanza motivata” del ricorrente, contenente “l’indicazione dei fatti e prove ragionevolmente disponibili dalla controparte, sufficienti a sostenere la plausibilità della domanda”. Prima di ordinare l’esibizione il giudice è quindi tenuto a valutare l’importanza e concludenza delle prove ai fini della decisione, dal momento che le stesse devono essere (da sole) “sufficienti” a sostenere la plausibilità della domanda: ciò si spiega in quanto il potere istruttorio in commento è molto più ampio di quello ordinariamente attribuito al giudice istruttore. Inoltre, “la parte nei cui confronti è rivolta l’istanza di esibizione” (rectius, il resistente) “ha diritto di essere sentita prima che il giudice provveda” (art. 840-quinquies, comma 9 c.p.c.);
  2. l’ordine di esibizione individua “specificamente e in modo circoscritto gli elementi di prova o le rilevanti categorie di prove”. L’ordine di esibizione può avere a oggetto intere “categorie di prove”, che devono essere individuate mediante indicazione delle “caratteristiche comuni”, quali “la natura, il periodo durante il quale sono stati formati, l’oggetto o il contenuto degli elementi di prova” (art. 840-quinquies, comma 6 c.p.c.) [75];
  3. in ogni caso, l’esibizione può essere ordinata solo “nei limiti di quanto è proporzionato alla decisione”. Il giudizio di proporzionalità deve essere effettuato dal giudice tenendo conto, tra l’altro della “portata” e dei “costi” dell’esibizione. Quanto ai “costi” dell’esibizione, nel silenzio della legge deve ritenersi applicabile l’art. 210, comma 3 c.p.c. (“Se l’esibizione importa una spesa, questa deve essere in ogni caso anticipata dalla parte che ha proposta l’istanza di esibizione”). Pare ragionevole ritenere che nel concetto di “spesa” possano rientrare anche i costi interni (intesi come costo del personale dedicato alla raccolta della documentazione oggetto dell’ordine di esibizione) che il resistente deve affrontare [76]. Qualora così non fosse, l’impatto negativo che un ordine di esibizione potrebbe avere per il resistente in termini di complessità del lavoro da svolgere ai fini della raccolta documentale dovrebbe quanto meno rilevare ai fini della valutazione preliminare della “portata” dell’ordine; valutazione che non dovrebbe quindi basarsi esclusivamente su esigenze di economia processuale ma dovrebbe tenere conto anche della complessità dell’attività di ricerca documentale richiesta al resistente;
  4. il giudice deve altresì valutare se “le prove di cui è richiesta l’esibizione contengono informazioni riservate, specialmente se riguardanti terzi”. Non sembra, tuttavia, che tale circostanza possa giustificare, di per sé, il rigetto dell’istanza di esibizione, in quanto il giudice ha comunque il potere di disporre “specifiche misure di tutela” [77]. L’applicazione di tali “misure” sarà verosimilmente problematica, soprattutto per quanto riguarda la “limitazione del numero di persone autorizzate a prendere visione delle prove” e quindi l’eventuale preclusione agli aderenti all’accesso alle prove rilevanti per il giudizio, che si potrebbe porre in violazione del principio del contraddittorio [78];
  5. la legge precisa (ma si tratta di un’ovvietà) che “resta ferma la riservatezza delle comunicazioni tra gli avvocati incaricati di assistere la parte e il cliente stesso” (art. 840-quinquies, comma 10 c.p.c.);
  6. alla “parte o al terzo” che distrugga “prove rilevanti ai fini del giudizio”, il giudice applica (i.e., deve applicare) una sanzione amministrativa pecuniaria compresa tra Euro 10.000 ed Euro 100.000. Pare ragionevole ritenere che la violazione sia configurabile soltanto in relazione a condotte poste in essere dopo l’instaurazione del giudizio; diversamente opinando, dovrebbe quantomeno leggersi la norma nel senso che viene punita non la semplice distruzione di prove, ma solo la distruzione effettuata con lo specifico intento di eliminare una prova rilevante in un futuro giudizio (e quindi come se fosse previsto un dolo specifico) [79]. Non è invece chiaro: (a) come il giudice possa sanzionare un soggetto “terzo”, non tanto perché estraneo al giudizio (lo stesso è previsto, ad esempio, con riferimento al testimone che non compaia, o al terzo che non acconsenta all’ispezione), quanto perché il processo “non è attrezzato” per l’accertamento, nel contraddittorio con il terzo, di eventuali responsabilità di quest’ultimo in merito alla distruzione di prove; (b) più in generale, se e come possa essere accertata, nell’ambito del processo di classe, la “distruzione” di prove; (c) quale sia l’eventuale mezzo di impugnazione della sanzione [80]. In ogni caso, si ritiene che il giudice debba comunque valutare la sussistenza quantomeno dei criteri di imputazione soggettiva dell’illecito (dolo o colpa) in capo al soggetto che abbia distrutto le prove;
  7. la medesima sanzione pecuniaria si applica alla “parte che rifiuta senza giustificato motivo di rispettare l’ordine di esibizione o non adempie allo stesso”. Benché la legge contempli due condotte (rifiuto e inadempimento), si tratta evidentemente di un’endiadi [81], e in entrambi i casi la condotta sarà sanzionabile solo se ingiustificata;
  8. infine, tanto l’inadempimento all’ordine di esibizione quanto la distruzione di prove rilevanti, se commessi dalla parte, comportano che “il giudice, valutato ogni elemento di prova, può ritenere provato il fatto al quale la prova si riferisce”.

Ci si è chiesto, con riferimento all’ordine di esibizione, se tale strumento possa essere utilizzato per acquisire dalla parte resistente gli elenchi della clientela, al fine di consentire al ricorrente (in particolare, al ricorrente istituzionale) di incentivare l’adesione alla classe conoscendo i nominativi dei relativi componenti [82]. La risposta dev’essere, a parere di chi scrive, negativa, e ciò sia per evidenti ragioni di tutela della riservatezza di soggetti terzi rispetto al processo, sia perché la finalità dell’attività istruttoria è l’accertamento dei fatti giuridici rilevanti per la decisione sulle domande (i.e. per l’accertamento dell’eventuale responsabilità del resistente e dei relativi danni), non certo per incentivare il ricorrente a porre in essere discutibili campagne di marketing in corso di causa, forte della possibilità di adesione successiva alla decisione di merito (e, d’altro canto, la legge prevede già un sistema di pubblicità notevolmente penalizzante, in termini d’immagine, per il resistente) [83].

Infine, “ai fini dell’accertamento della responsabilità del resistente il tribunale può avvalersi di dati statistici e di presunzioni semplici” (art. 840-quinquies, comma 4 c.p.c.). Il riferimento alla “responsabilità” del resistente sembrerebbe confinare l’ambito applicativo di tale disposizione alle sole domande risarcitorie (e, in particolare, alla sussistenza dell’illecito e al nesso di causalità tra lo stesso e il danno), con esclusione quindi della decisione in merito ad altre questioni preliminari (i.e., validità dei contratti) eventualmente insorte nel corso del giudizio; ma non si può esser certi che si tratti di una limitazione effettivamente voluta dal legislatore, anziché di un mero refuso. La disposizione non appare particolarmente innovativa, in quanto: (i) le presunzioni semplici costituiscono già un mezzo di prova ammesso dall’ordinamento; (ii) a ben vedere, anche i “dati statistici” sembrano doversi far rientrare nel meccanismo generale della prova per presunzioni semplici (e, quindi, certamente anche gli stessi dovranno essere gravi, precisi e concordanti ex art. 2729, comma 1 c.c.) [84]. Inoltre, la disposizione in commento non sembra attribuire al giudice un potere di fondare la propria decisione esclusivamente sui predetti mezzi di prova, né derogare alle norme codicistiche in materia di limiti alla prova [85].

Non si condivide, peraltro, l’opinione di chi ritiene che il riferimento alle presunzioni semplici darebbe luogo a una tacita deroga ai requisiti codicistici di ammissione di tali mezzi di prova, che nel processo di classe potrebbero quindi essere anche non “gravi”, “precisi” e “concordanti” [86]. Ciò perché: (i) da un lato, in difetto dei requisiti suddetti, già di per sé vaghi e suscettibili di interpretazioni ondivaghe, il rischio di mero arbitrio del giudicante diverrebbe concreto; (ii) dall’altro lato, non pare che le presunzioni gravi, precise e concordanti possano essere considerate una sottocategoria di un più ampio genus di “presunzioni semplici”. Pertanto, le “presunzioni semplici” di cui all’art. 840-quinquies c.p.c. altro non sono che le “presunzioni semplici” di cui all’art. 2729 c.c.

III.D.2 La sentenza che definisce la fase di merito

La domanda è decisa con sentenza, che deve essere pubblicata sul Portale Servizi Telematici entro 15 giorni. Sul punto valgono le considerazioni svolte supra (§ III.A), anche con riferimento alla tutela della riservatezza delle parti.

Tipicamente, la sentenza avrà un contenuto equiparabile a quello di una condanna generica: il tribunale “accerta che il resistente, con la condotta addebitatagli dal ricorrente, ha leso i diritti individuali omogenei” (art. 840-sexies, comma 1, lett. b) c.p.c.), e “definisce i caratteri dei diritti individuali omogenei … specificando gli elementi necessari per l’inclusione nella classe” [87].

La sentenza contribuisce quindi a delimitare l’oggetto del giudizio, definendo i caratteri dei diritti individuali omogenei e, con essi, i requisiti per l’adesione all’azione di classe (definizione che peraltro deve intendersi come un’eventuale integrazione, anche alla luce dell’attività istruttoria svolta, di quanto già determinato con l’ordinanza ex art. 840-ter c.p.c. (v. § III.C).

La novità assoluta della nuova azione di classe è data dal fatto che, con la sentenza, si apre la vera e propria “fase di adesione” con la fissazione di un termine non inferiore a 60 e non superiore a 150 giorni entro cui i soggetti portatori dei diritti individuali omogenei possono intervenire. Come vedremo (v., infra, § III.E),accertata la sussistenza dell’illecito e il nesso causale tra questo e la violazione dei diritti individuali omogenei, i singoli soggetti che si ritengano danneggiati potranno quindi aderire ex post, offrendo la documentazione probatoria relativa alla “titolarità dei diritti individuali omogenei” e indicando il proprio petitum; anche i soggetti che abbiano precedentemente aderito avranno il diritto di effettuare eventuali “integrazioni degli atti”.

La “fase di adesione” (che, nel presente scritto, si ritiene più corretto definire “fase liquidatoria”) è disciplinata, essenzialmente, come una procedura concorsuale. Con la sentenza, infatti, il tribunale: (a) nomina un giudice delegato per la procedura; (b) nomina un rappresentante comune degli aderenti, che agisce quale pubblico ufficiale, tra i soggetti aventi i requisiti per la nomina a curatore fallimentare; (c) determina gli importi eventualmente dovuti da ciascun aderente a titolo di fondo spese (il mancato versamento di tali importi comporta l’inefficacia, rilevabile d’ufficio,dell’adesione stessa) [88].

Nell’ipotesi in cui il ricorrente sia un componente della classe, invece (i.e. non sia un ente esponenziale), il tribunale “provvede in ordine alle domande risarcitorie o restitutorie proposte dal ricorrente” (art. 840-sexies, comma 1, lett. a) c.p.c.): sembrerebbe, quindi, che il legislatore abbia escluso l’ipotesi di partecipazione del ricorrente alla terza fase del procedimento. A differenza di quanto previsto in generale per la classe, il ricorrente otterrà (in caso di accoglimento) una condanna specifica, vedendo quindi immediatamente soddisfatta la propria pretesa. Ciononostante, ai sensi dell’art. 840-quaterdecies, comma 9 c.p.c., il ricorrente potrà comunque aderire all’accordo transattivo di classe eventualmente predisposto dal rappresentante comune degli aderenti ed approvato dal giudice delegato.

III.E La terza fase: la seconda finestra temporale per l’adesione e la liquidazione delle somme

Si è detto che appare preferibile definire la terza fase come “fase di liquidazione”, anziché “di adesione” [89]. La scelta lessicale adoperata dal legislatore appare, comunque, significativa: nell’intento del legislatore è dopo la sentenza che accoglie la domanda che si avranno, verosimilmente, le adesioni.

La possibilità data ai componenti della classe di aderire all’azione dopo la definizione di una porzione rilevante del giudizio desta non poche perplessità. Come acutamente osservato in dottrina, “il principio di parità delle armi è a repentaglio allorché si consenta ad un soggetto di giovarsi di un giudicato inter aliossolo se favorevole, senza aver partecipato al processo in cui è reso e senza aver corso il rischio della soccombenza (e senza che ricorra affatto qui la unicità della causa obligandi, che giustifica la peculiare regola dell’art. 1306 c.c.)” [90].

Forti perplessità erano state manifestate, già prima dell’entrata in vigore della l. 31/2019, anche da Confindustria, nell’ambito dell’audizione parlamentare del 18 settembre 2018 innanzi alla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati: “questa seconda chancedi aderire dopo la sentenza di accoglimento non è assolutamente condivisibile e andrebbe stralciata”, in quanto determina una perdurante incertezza sulla dimensione della classe, che: (i) rende assai difficile, per la parte resistente, approntare tutti i presidi di ordine contabile in relazione al rischio di soccombenza in giudizio; (ii) non favorisce l’adozione di soluzioni transattive nella fase di merito del giudizio [91]; (iii) viola palesemente il principio di parità delle posizioni processuali; (iv) impedisce in ogni caso al resistente di effettuare scelte processuali consapevoli, non essendo allo stesso noto il reale petitum; (v) dà adito a comportamenti opportunistici da parte dei componenti della classe. Confindustria si era detta, invece, favorevole a consentire l’adesione tardiva a coloro i quali avessero già introdotto un’azione individuale nei confronti del medesimo convenuto e per i medesi fatti.

Tali perplessità sembrano attuali e condivisibili, e non certamente superate dalla considerazione che gli aderenti “tardivi” subiscono, comunque, l’alea relativa all’accoglimento delle proprie domande individuali: si tratta di affermazione certamente corretta in astratto, ma del tutto avulsa dalla realtà. All’avvio della fase liquidatoria, infatti, la sentenza avrà: (i) accertato l’illecito, il danno-evento e il nesso di causalità tra tali elementi; (ii) fissato i caratteri dei diritti individuali omogenei (i.e. gli elementi legittimanti dell’adesione); (iii) indicato persino “la documentazione che deve essere eventualmente prodotta per fornire prova della titolarità dei diritti individuali”. Quale alea potrà dirsi, allora, concretamente gravante sugli aderenti? Forse solo quella dell’errore materiale proprio o del proprio difensore.

Per quanto ci si possa sforzare, il meccanismo di adesione successiva alla sentenza non appare seriamente difendibile: mai come in quest’occasione il legislatore pare non aver neanche tentato di bilanciare le contrapposte esigenze in gioco, optando per il “sacrificio” di un diritto fondamentale di una delle parti (il diritto di difesa) e di un principio fondamentale dell’ordinamento processuale (il contraddittorio) senza alcuna reale giustificazione [92].

Esaurito il termine entro cui possono avvenire le adesioni, inizia la procedura di liquidazione para-concorsuale. Il legislatore prevede (ottimisticamente) un termine “ideale” di 300 giorni nel quale deve esplicarsi il contraddittorio tra aderenti e resistente:

  1. entro 120 giorni dalla scadenza del termine per l’adesione, il resistente può depositare una memoria “contenente le sue difese, prendendo posizione sui fatti posti dagli aderenti a fondamento della domanda ed eccependo i fatti estintivi, modificativi o impeditivi dei diritti fatti valere dagli aderenti. I fatti dedotti dagli aderenti e non specificamente contestati dal resistente nel termine di cui al presente comma si considerano ammessi”;
  2. entro i successivi 90 giorni, il rappresentante comune degli aderenti predispone il “progetto dei diritti individuali omogenei degli aderenti, rassegnando per ognuno le sue motivate conclusioni”, con l’eventuale assistenza di “uno o più esperti di particolare competenza tecnica che lo assistano per la valutazione dei fatti posti dagli aderenti a fondamento delle domande”: salvo che si voglia del tutto obliterare il principio del contraddittorio, si deve in realtà ritenere che gli esperti eventualmente nominati dal tribunale debbano prendere posizione anche sui “fatti estintivi, modificativi o impeditivi” eventualmente allegati (e documentati) dal resistente. Parimenti, nella valutazione demandata al rappresentante comune degli aderenti non si potrà prescindere dai principi in materia di riparto dell’onere della prova: vi saranno, pertanto, numerosi fatti che – attenendo alla sfera del singolo aderente – non potranno comunque considerarsi ammessi se non provati, sol perché il resistente non sia in grado di contestarli in maniera specifica [93];
  3. nei successivi 30 giorni, il resistente e gli aderenti potranno depositare proprie osservazioni scritte e prove (esclusivamente documentali);
  4. nel termine di 60 giorni dal deposito delle osservazioni scritte, il rappresentante comune degli aderenti “apporta le eventuali variazioni al progetto dei diritti individuali omogenei e lo deposita nel fascicolo informatico”.

L’approvazione del progetto dei diritti individuali omogenei è demandata al giudice delegato, che provvede con decreto motivato, accogliendo o rigettando le domande di adesione. Se accoglie l’adesione, “condanna il resistente al pagamento delle somme o delle cose dovute a ciascun aderente a titolo di risarcimento o di restituzione”. Il decreto di accoglimento è definitivamente esecutivo.

III.E.1 La liquidazione delle spese di lite

L’art. 840-novies c.p.c. introduce delle nuove disposizioni in materia di spese di lite. In particolare, con il decreto motivato che definisce la fase di liquidazione il giudice delegato “condanna altresì il resistente a corrispondere direttamente al rappresentante comune degli aderenti, a titolo di compenso, un importo stabilito in considerazione del numero dei componenti la classe”. Benché la legge taccia sul punto, appare evidente che tale condanna sarà ammissibile solo in caso di soccombenza del resistente nella fase di merito.

Non è previsto un importo minimo, ma solo degli importi massimi, calcolati in percentuale decrescente “sull’importo complessivo dovuto a tutti gli aderenti”: maggiore il numero degli aderenti, minore la percentuale massima riconosciuta al rappresentante comune [94]. Il legislatore ha adoperato in maniera promiscua i termini “componenti la classe” e “aderenti”, creando non poca confusione. Di seguito si tenterà di porre alcuni punti fermi:

  1. il numero di “componenti la classe” (i.e. di soggetti astrattamente titolari di diritti individuali omogenei) apparedel tutto irrilevante e potrebbe anche non essere noto: si dovrà, quindi, fare riferimenti ai soli aderenti (i.e. alla porzione dei componenti della classe che abbia fatto ingresso nel giudizio);
  2. le percentuali massime di compenso sono calcolate sul decisum, non sul disputatum: per ovvie ragioni di coerenza e buonsenso, si ritiene che anche il numero di aderenti cui occorre fare riferimento per comporre gli scaglioni sia quello risultante alla data del decreto ex art. 840-octies c.p.c.; inoltre, tra questi solo quelli la cui domanda di adesione sia stata accolta dovrebbero concorrere a comporre la base di calcolo per i compensi del rappresentante comune degli aderenti.

Ai sensi del quarto comma dell’art. 840-novies,il giudice delegato può aumentare o ridurre l’importo liquidato sino al 50%, tenuto conto dei seguenti parametri: (i) complessità dell’incarico; (ii) ricorso all’opera di coadiutori; (iii) qualità dell’opera prestata; (iv) sollecitudine con cui sono state condotte le attività; (v) numero degli aderenti.

In particolare:

  1. i primi quattro parametri attengono, in sostanza, alla qualità della prestazione del rappresentante comune degli aderenti, e si giustificano nell’intento di commisurare il compenso alla quantità e qualità del lavoro svolto;
  2. il quinto criterio sembra, invece, seguire una logica del tutto differente. Infatti, il numero degli aderenti è già stato considerato dal legislatore nel comporre gli scaglioni, pertanto l’attribuzione al giudice del potere di rideterminare i compensi non parrebbe astrattamente giustificabile. È allora verosimile che la norma risponda all’esigenza di modulare il compenso nei casi limite, cioè qualora il numero di aderenti sia prossimo alla soglia (superiore o inferiore) di uno scaglione. Così, a titolo esemplificativo, il giudice delegato potrebbe ritenere equo incrementare fino al 50% il compenso liquidato in presenza di 501 aderenti (6%), portandolo a un importo prossimo a quello previsto dallo scaglione precedente (9%) [95].

La legge prevede che ai difensori degli aderenti è dovuto un compenso commisurato al tariffario forense (art. 840-octies, comma 6 c.p.c.); inoltre, per quanto non espressamente previsto si applicano le disposizioni generali in materia di spese di giustizia (art. 840-novies, comma 5 c.p.c.). Si è osservato che, in forza del rinvio alle disposizioni generali, troverà applicazione anche l’art. 4, comma 10 D.M. 55/2014, che prevede l’aumento del compenso “altrimenti liquidabile” sino al triplo, in caso di azioni ex art. 140-bis cod. cons. [96]. Tale interpretazione non appare condivisibile: la disposizione appena citata fa, infatti, riferimento all’art. 140-bis cod. cons., e non è stata novellata: pertanto, in caso di mancato adeguamento normativo, con l’abrogazione dell’art. 140-bis cod. cons. anche l’art. 4, comma 10 D.M. 55/2014 dovrà ritenersi tacitamente abrogato.

Ai sensi del comma 6 dell’art. 840-novies, una somma liquidata secondo i medesimi criteri dettati dal primo comma (ma non necessariamente identica a quella riconosciuta al rappresentante comune degli aderenti) dovrà essere liquidata direttamente in favore del difensore del ricorrente, che ne sarà creditore iure proprio nei confronti del resistente soccombente. La medesima disposizione “si applica” anche ai “difensori che hanno difeso i ricorrenti delle cause riunite risultati vittoriosi”: la legge non chiarisce se tale importo vada liquidato in favore dei difensori di ciascun ricorrente (e, quindi, moltiplicato per il numero di ricorrenti), ovvero liquidato una sola volta e ripartito tra gli stessi. La soluzione più ragionevole sembra comunque la seconda: diversamente opinando, alla data di pubblicazione di un ricorso introduttivo si assisterebbe a un poco piacevole fenomeno di “arrembaggio” finalizzato ad “accaparrarsi” il ruolo di difensore di un qualsiasi ricorrente nel termine di 60 giorni, al solo fine di ottenere la riunione dei giudizi e, quindi, la moltiplicazione del compenso premiale.

Siano consentite, infine, alcune osservazioni critiche.

Il sistema “premiale” appena descritto appare fortemente inopportuno, se non costituzionalmente illegittimo [97].

Si è osservato che la previsione di “incentivi” per i difensori del ricorrente ovvierebbe alla già menzionata “apatiarazionale” dei singoli componenti della classe che, se troppo “apatici” per agire individualmente, lo sarebbero a fortiori rispetto all’ipotesi di un’azione di classe. Sarebbe, quindi, lo “spirito imprenditoriale diretto alla massimizzazione del profitto” del difensore-imprenditore lo strumento attraverso il quale garantire il “decollo” dell’azione di classe [98]. Non si condivide tale opinione, quantomeno per due ragioni: (i) da un lato, nell’ordinamento italiano sono previsti dei limiti, anche deontologici (banalmente, alla possibilità di “pubblicizzare” l’offerta legale) in forza dei quali appare inverosimile che il difensore del ricorrente possa farsi pubblico promotore dell’azione [99]; (ii) dall’altro, il riconoscimento di una legittimazione individuale iure proprio agli enti esponenziali rende comunque assai improbabile che le azioni di classe vengano promosse, organizzate e strutturate da uno studio legale, anziché da simili organizzazioni.

Ciò che resta, in concreto, è una funzione di deterrence, peraltro anch’essa assai dubbia. Anche volendo pensare agli illeciti dolosi, non è facile immaginare che un’impresa (soprattutto se di grosse dimensioni) decida di non commetterli per paura di subire un incremento dell’eventuale condanna, soprattutto in un contesto normativo regolato dal principio dell’opt-in (nel quale, dunque, non è affatto scontato che aderisca all’azione una percentuale rilevante di soggetti astrattamente legittimati a comporre la classe). Il momento in cui l’impresa avvertirà seriamente (i.e. quale “rischio”, anche in termini contabili) l’onere del “premio” sarà, quindi, la fase giudiziale (e, ancor più, la fase liquidatoria del giudizio). A quel punto, più che quale strumento di deterrence, l’istituto avrà la funzione di “suggerire” al resistente la stipula di accordi transattivi.

Tuttavia: (i) nella fase di merito, il difensore del ricorrente sarà posto in una posizione di strutturale conflitto d’interessi, in quanto la definizione transattiva del giudizio gli precluderà il diritto a un compenso addizionale certamente sostanzioso; (ii) nella fase di liquidazione, il medesimo conflitto d’interessi graverà sul rappresentante comune degli aderenti (che, peraltro, sarà persino un pubblico ufficiale). Per evitare di incorrere in responsabilità (quantomeno) professionale, tanto il difensore del ricorrente quanto il rappresentante comune degli aderenti “dovrebbero”, quindi, agevolare le ipotesi transattive, sì da non poter essere accusati di aver favorito la prosecuzione della lite in forza di propri interessi economici. Tuttavia, è sin troppo evidente che il rifiuto di transigere da parte di tali soggetti potrà sempre essere “giustificato” facendo appello a (più o meno genuine) valutazioni prognostiche in merito alle maggiori chances di realizzo attraverso la prosecuzione del giudizio.

Infine, la legge non prevede espressamente l’applicabilità dell’art. 96 c.p.c. al processo di classe, ma tale lacuna non può ritenersi di per sé significativa di una simile volontà, continuando a trovare applicazione la disciplina generale del processo di cognizione a fortiori alla luce della collocazione delle nuove disposizioni all’interno del Codice di Rito [100].

 

[1] L. 12 aprile 2019, n. 31, recante “Disposizioni in materia di azione di classe”, pubblicata in G.U. n. 92 del 18 aprile 2019. Tra i commenti “a prima lettura” alla riforma, v. C. Consolo, La terza generazione di azione di classe all’italiana fra giuste articolate novità e qualche aporia tecnica, in questa Rivista, aprile 2019; Id., La terza edizione della azione di classe è legge ed entra nel c.p.c. Uno sguardo d’insieme ad una amplissima disciplina, in Corr. Giur., 6/2019, 737; C. Consolo – M. Stella, La nuova azione di classe, non più consumeristica, in una proposta di legge da non lasciar cadere, in questa Rivista, n. 12/2018; M. Malavasi, La riforma della class action: una prima lettura, in questa Rivista, aprile 2019; P. Florio, La nuova azione di classe, passi in avanti verso gli obiettivi di accesso alla giustizia e deterrenza?, in www.ilcaso.it, 23 giugno 2019. Cfr. anche E. Girino, Class action in pillole: vademecum operativo, in questa Rivista, giugno 2019; R. Pardolesi, La classe in azione. Finalmente, in Danno resp., 3/2019, 301; G. Ponzanelli, La nuova class action, in Danno resp., 3/2019, 306;M. Franzoni, Azione di classe, profili sostanziali, in Danno resp., 3/2019, 309; P. G. Monateri, La riforma italiana della class action tra norme speciali processuali e ricostruzione della tutela civilistica, in Danno resp., 3/2019; nonché i dossier AA.VV., Come cambia la class action, I Focus del Sole 24 Ore, 2019, 11 e Assonime, Circolare n. 17 del 29 luglio 2019, “Disciplina dell’azione di classe e dell’azione inibitoria collettiva nel Codice di procedura civile”.

Si vedano, inoltre, le più dettagliate analisi del testo normativo: L. Caputo – M. Caputo, Lanuova class action (l. 12 aprile 2019, n. 31), Milano, 2019; S. Brazzini – P. P. Muià, La nuova class action alla luce della legge 12 aprile 2019, n. 31, Torino, 2019; Aa. Vv., Class action. Commento sistematico alla legge 12 aprile 2019, n. 31, a cura di B. Sassani, Pisa, 2019.

[2] Tali erano, in sintesi estrema, i limiti oggettivi e soggettivi dell’azione di classe consumeristica disciplinata dall’art. 140-bis d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, che viene abrogato contestualmente all’entrata in vigore delle nuove disposizioni, ai sensi dell’art. 5 l. 31/2019.

[3] Come è stato osservato, la nuova azione di classe italiana trae spunto dal modello francese, in particolare con riferimento alla possibilità di adesione successiva alla sentenza che decide il merito del giudizio (cfr., sul punto, P. Florio, op. cit., 27; G. Bertolino, L’«opt-out» nell’azione risarcitoria collettiva. Una contrarietà davvero giustificata? Analisi del dibattito e prospettive di riforma, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2016, 2, 475); inoltre, in linea con la maggioranza degli ordinamenti europei, la nuova azione di classe sposa il meccanismo del c.d. “opt-in”.

[4] Sulla distinzione tra azioni di classe “olistiche”, “discrete” e “miste”, cfr. A. Giussani, Le azioni di classe dei consumatori dalle esperienze statunitensi agli sviluppi europei, in Riv, trim. dir. Proc. Civ., 2019, 1, 157. V. anche Id., Aggregazione di cause e aggregazione di questioni nel contenzioso di serie, in Riv. trim. dir. Proc. Civ., 2016, 4, 1279; Id., Azione di classe e tutela antitrust: profili processuali, in Banca, borsa, tit. cred., 2011, 3, 371.

[5] Cfr. P. Florio, op. cit., 7 ss.

[6] Si vedano, in proposito, Confindustria, “Disegno di legge AC 791 ‘Disposizioni in materia di azioni di classe’”, audizione parlamentare del 18 settembre 2018 presso la Commissione Giustizia della Camera dei Deputati; Assonime, Circolare n. 17 del 29 luglio 2019, cit.

[7] Non si tratterebbe, peraltro, di una novità: sul punto si veda l’analisi dei casi statunitensi contenuta in A. Palmieri, Arbitrati individuali coatti e ghettizzazione delle class action: la controrivoluzione (a spese del contraente debole) nel sistema di enforcement statunitense, in Foro it., 2016, V, 81, ripresa anche da R. Pardolesi, op. cit., 305.

[8] Sul punto cfr. C. Consolo, La terza generazione di azione di classe all’italiana fra giuste articolate novità e qualche aporia tecnica, cit., il quale definisce “quasi grottesca” la collocazione attuale delle disposizioni e evidenzia che la sedes materiae corretta sarebbe stata in fondo al Libro II “Del processo di cognizione”. L’Autore esprime, peraltro, un’opinione complessivamente positiva sulla riforma qui in commento: sul punto cfr. anche C. Consolo – M. Stella, La nuova azione di classe, cit.

[9] Verrà in particolare esaminato l’ambito di applicazione (soggettivo, oggettivo e temporale) delle nuove disposizioni, nonché la struttura vera e propria della nuova azione di classe, a partire dalla competenza e dalla forma della domanda, per poi passare alle modalità di adesione e alla descrizione delle c.d. tre fasi in cui si struttura il processo.

[10] I successivi commi dell’art. 840-bis c.p.c. riguardano: il rapporto tra azione di classe e azione individuale (comma 4), l’inammissibilità dell’intervento ex art. 105 c.p.c. (comma 5); le conseguenze del “venir meno” del ricorrente in seguito ad accordi transattivi (comma 6).

[11] In quanto, ai sensi del successivo comma 4, è fatto salvo il “diritto all’azione individuale”.

[12] L’art 140-bis cod. cons. prevede, al comma 2, lett. a), che sono tutelabili con l’azione di classe consumeristica i “diritti contrattuali di una pluralità di consumatori e utenti”, anche in relazione a contratti stipulati ex artt. 1341 e 1342 c.c. Nonostante il riferimento a tali due ultime disposizioni, si tratta comunque di rapporti di consumo, essendo l’accesso all’azione di classe limitato a “consumatori e utenti”.

[13] Cfr. P. Florio, op. cit., 10 ss.

[14] L’art. 140-bis cod. cons., come è noto, è stato introdotto con la legge finanziaria per il 2008 (art. 2, comma 446 l. 24 dicembre 2007, n. 244) ma non è entrato in vigore sino al gennaio 2010, a causa di una serie di rinvii disposti legislativamente. Prima dell’entrata in vigore, il testo originario della disposizione è stato modificato dall’art. 49, comma 1 l. 23 luglio 2009, n. 99. Infine, il testo attualmente in vigore è stato introdotto dall’art. 6, comma 1, lett. a) D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito con modificazioni dalla l. 24 marzo 2012, n. 27. Il primo testo effettivamente entrato in vigore è, quindi, quello licenziato nel 2009.

[15] L’art. 140-bis cod. cons., nel testo in vigore dall’ottobre 2009, faceva riferimento, al comma 2, a: (i) diritti contrattuali vantati nei confronti di una stessa impresa “in situazione identica”; (ii) “diritti identici” nei confronti del produttore; (iii) “diritti identici” lesi da patiche commerciali scorrette o comportamenti anticoncorrenziali. Inoltre, tra i requisiti di ammissibilità dell’azione di classe il comma 6 enunciava l’“identità dei diritti individuali tutelabili”. Tuttavia, il comma 1 della disposizione in parola recitava (analogamente al nuovo art. 840-bis c.p.c.): “i diritti individuali omogenei dei consumatori e degli utenti di cui al comma 2 sono tutelabili anche attraverso l’azione di classe”. Nella stessa disposizione coesistevano, quindi, le nozioni di “omogeneità” e “identità”, usate quasi come sinonimi.

[16] Tra queste, taluni precedenti avevano richiesto la piena identità non solo del fatto costitutivo della pretesa risarcitoria (condotta illecita, nesso di causalità e danno-evento), ma persino del danno lamentato, anche sotto il profilo del quantum debeatur . Cfr., senza pretesa di esaustività, Trib. Torino, 31 ottobre 2011, in Foro it., 2012, I, 1929; App. Roma, 27 gennaio 2012, in Foro it., 2012, I, 1911; Trib. Napoli, 18 febbraio 2013, n. 2195, in Resp. civ. prev., 2013, 5, 1607; Trib. Milano, 9 dicembre 2013, in Foro it., 2014, I, 590. Analoga posizione rigorosa era stata, inizialmente, assunta da S. Menchini – A. Motto, L’azione di classe dell’art. 140 bisC. Cons., in Nuove leggi civ. comm., 2010, 6, 1420.

[17] Tra queste, si vedano, senza pretesa di esaustività, Trib. Roma, 25 marzo 2011, in Foro it., 2011, I, 1889; Trib. Roma, 11 aprile 2011, in Foro it., 2011, I, 3424; Trib. Firenze, 15 luglio 2011, in Foro it., 2012, I, 1910; App. Torino, 23 settembre 2011, in Giur. it.., 2012, 1581, con nota di A.D. De Santis, Spunti in tema di processo di classe; Trib. Napoli, 9 dicembre 2011, in Foro it., 2012, I, 1909; Trib. Roma, 27 aprile 2012, in Danno resp., 2012, 1239.

[18] In questo senso si vedano, senza pretesa di esaustività, App. Milano, 25 agosto 2017, in NGCC, 2018, 1, 10, con nota di F. Saguato, Azione di classe e risarcimento del danno non patrimoniale “omogeneo”, e in Danno resp., 2018, 3, 379, con nota di S. Monti, Danno da ritardo ferroviario: oltre l’indennizzo per la tutela degli “interessi di classe”; Trib. Venezia, 12 gennaio 2016, in Foro it., 2016, I, 1017; Trib. Venezia, 25 maggio 2017, in Foro it., 2017, I, 2432; App. Venezia, 3 novembre 2017, in Dir. Gius., 10 novembre 2017, con nota di G. Tarantino, Dieselgate: sì all’azione di classe contro la Volkswagen”; App. Torino, 17 novembre 2015, in Foro it., 2016, I, 1017; App. Milano, 3 marzo 2014, in resp. civ. e prev., 2014, 4, 1284, con nota di F. Porcari, Sul rapporto tra causa petendi, «omogeneità» dei diritti e criteri di liquidazione del danno nell’azione di classe, e in Giur. it., 2014, 8/9, 1910, con nota di A. Giussani, Ancora sulla tutelabilità con l’azione di classe dei soli diritti “omogenei”. Ma si veda, di recente, Cass., 31 maggio 2019, n. 14886, in Dir. Gius., 2019, 100, 4, con nota di F. Valerini, Il danno non patrimoniale nella class action tra astratta possibilità e rischi operativi, che – in parziale accoglimento del ricorso avverso la citata sentenza della Corte d’Appello di Milano – ha ritenuto non sufficientemente indagata la sussistenza del danno non patrimoniale omogeneo riconosciuto dal giudice di seconde cure, pur ribadendo l’astratta applicabilità ai danni non patrimoniali dell’azione di classe consumeristica (sia pur a discapito della “personalizzazione” del danno).

[19] Il riferimento è a Trib. Cagliari, 11 aprile 2018, in giustiziacivile.com, con nota di F. De Dominicis, “Ciò che non fa la legge, lo fa il giudice, se capace: azione di classe e previsione delle sottoclassi”. La pronuncia è stata resa in un caso in cui un’associazione consumatori aveva agito ex art. 140-bis cod. cons. nei confronti del gestore del servizio idrico integrato lamentando che l’acqua fornita non era conforme ai parametri indicati dalla normativa in materia di salute pubblica e che pertanto erano state adottate (in periodi diversi e con riferimento a diversi ambiti territoriali) ordinanze che limitavano o inibivano l’uso dell’acqua. Il Tribunale di Cagliari ha ravvisato omogeneità dei diritti, stante l’unicità di causa petendi (rappresentata essenzialmente dall’inadempimento del gestore del servizio), e formando tre classi di soggetti, in ragione dell’intensità dei danni derivanti dalla condotta del gestore: (i) impossibilità di utilizzare tout court l’acqua; (ii) impossibilità saltuaria di utilizzare l’acqua per alcuni usi specifici (bere e cucinare); (iii) impossibilità di bere l’acqua in singole occasioni. Il principio di diritto ricavabile dalla sentenza in parola è il seguente: “è sufficiente, ai fini della omogeneità … che vi sia una ‘comunanza’ di questioni, resa evidente dalla unicità della causa petendi e dalla analoga (ma non necessariamente identica) offensività prodotta in relazione ad una pluralità di utenti, essendo, invece, il più o meno grave pregiudizio sofferto in concreto dai singoli, in considerazione della maggiore o minore gravità dell’inadempimento, standardizzabile e circoscrivibile attraverso la individuazione di più sottogruppi (o sottoclassi) all’interno della classe. Le specificità proprie di ciascuna sottoclasse ben potranno trovare adeguata considerazione nella fase della concreta liquidazione del danno, attraverso il criterio di calcolo individuato dal giudice proprio in considerazione della predetta specificità”. Sui rischi connessi all’introduzione di un sistema di sottoclassi, cfr. A. Giussani, Aggregazioni di cause, cit. Prudentemente favorevoli all’ammissibilità di sottoclassi, già con riferimento all’azione di classe consumeristica (e pur evidenziando dei problemi pratici di difficile soluzione con riferimento alla gestione processuale degli interessi di ogni sottoclasse), S. Menchini – A. Motto, op. cit., 1461.

[20] Paradigmatica, in tal senso, App. Milano, 3 marzo 2014, in resp. civ. e prev., 2014, 4, 1284, con nota di F. Porcari, Sul rapporto tra causa petendi, «omogeneità» dei diritti e criteri di liquidazione del danno nell’azione di classe, e in Giur. it., 2014, 8/9, 1910, con nota di A. Giussani, Ancora sulla tutelabilità con l’azione di classe dei soli diritti “omogenei”, che ha ritenuto sussistente l’omogeneità dei diritti risarcitori vantati dagli utenti danneggiati dai ritardi ferroviari, affermando che “unica non solo è la causa, disfunzione organizzativa della convenuta, ma uno è anche l’inadempimento lamentato, ovvero la non corretta gestione del servizio di trasporto, avente valenza plurioffensiva sulle singole posizioni individuali, rispetto alle quali esplica comunque in maniera analoga i propri effetti e variamente si atteggia solo in termini di specifica consistenza delle conseguenze pregiudizievoli. Esse dipendono dalla lunghezza del tragitto percorso e, per il resto, sono riconducibili a una serie circoscritta e standardizzata di tipi di disagio – ritardi, cancellazioni, trasbordi, sovraffollamento, mancanza di informazioni – alcuni dei quali comuni a tutti, altri propri di alcuni appartenenti alla classe, ma non di tutti”.

[21] Conclusione, questa, già sostenibile con riferimento all’art. 140-bis cod. cons, come dimostrato dalla giurisprudenza più “evoluta” sul tema: si veda la già menzionata Trib. Cagliari, 11 aprile 2018 (v., supra, nota n. 19). Ma oggi ancor più vera, se sol si pensa che il legislatore ha notevolmente affinato la fase di liquidazione del danno (su cui v., infra, § III.E), creando margini di personalizzazione della quantificazione del danno inesistenti nella disciplina consumeristica, e consentendo la formazione di sottoclassi.

[22] Con riferimento all’azione di classe consumeristica, si vedano le riflessioni contenute in S. Menchini – A. Motto, op. cit., 1413. Cfr. F. Camilletti, Azione di classe: profili sostanziali, in Contratti, 2012, 6, 515.

[23] Cfr. S. Menchini – A. Motto, op. cit., 1418.

[24] Cfr. S. Menchini – A. Motto, op. cit., 1424. L’unica eccezione, alla luce del nuovo dettato normativo, sembra dover essere fatta con riferimento alla consegna di beni determinati, atteso che l’art. 840-octies fa espresso riferimento all’eventuale condanna del resistente al “pagamento … delle cose dovute a ciascun aderente”.

[25] Le maggiori differenze tra le due azioni paiono riassumibili come segue:

(i) sul piano dei requisiti soggettivi, l’azione di classe pubblicistica è esperibile nei confronti delle “amministrazioni pubbliche” e dei “concessionari di pubblici servizi”, nozioni che non paiono perfettamente sovrapponibili a quella di “gestore di servizi pubblici o di pubblica utilità” (di cui si dirà infra, nel § II.B);

(ii) sul piano dell’oggetto, l’azione di classe pubblicistica è esperibile dai “titolari di interessi giuridicamente rilevanti ed omogenei” che abbiano (o prospettino di aver) sofferto una “lesione diretta, concreta e attuale dei propri interessi” dalla “violazione di termini”, dalla “mancata emanazione di atti amministrativi generali obbligatori”, dalla “violazione degli obblighi contenuti nelle carte dei servizi” ovvero dalla “violazione di standard qualitativi ed economici stabiliti, per i concessionari di servizi pubblici” dalle autorità di vigilanza. Si tratta, tuttavia, di elementi che vengono valutati ai soli fini dell’ammissibilità dell’azione (presupposti della legittimazione ad agire), e che non formano oggetto della decisione.

Al contrario, nell’azione di classe civilistica di nuovo conio il giudice è chiamato ad accertare la lesione di “diritti omogenei”, nozione certamente più stringente rispetto a quella di “interessi giuridicamente rilevanti” (che sembra peraltro non riducibile al solo binomio diritto soggettivo-interesse legittimo), e a farlo con efficacia di giudicato;

(iii) sul piano della finalità, l’azione di classe pubblicistica è volta ad attribuire alla classe una tutela in forma specifica (ripristino del corretto svolgimento dell’attività o della funzione pubblica), ma ancor più a tutelare un interesse generale dell’ordinamento (l’efficienza della pubblica amministrazione);

(iv) sul piano processuale: (a) la giurisdizione sull’azione di classe pubblicistica è attribuita al Giudice Amministrativo, anziché al Giudice Ordinario; (b) l’azione di classe pubblicistica non può essere proposta (e, se proposta, il processo è sospeso) in caso di instaurazione di un procedimento amministrativo da parte della competente Autorità di Vigilanza per l’accertamento delle “medesime condotte”, ovvero di un’azione di classe consumeristica ex artt. 139, 140 e 140-bis cod. cons. (art. 2, commi 1 e 2 d.lgs. 198/2009). Manca un adeguato coordinamento tra la citata disposizione e il nuovo corpus normativo, con la conseguenza che l’ipotesi di improponibilità/sospensione dell’azione di classe pubblicistica per pendenza di un’azione di classe consumeristica dovrà ritenersi tacitamente abrogata: non sembra, infatti, che dalla l. 31/2019 possa trarsi la volontà del legislatore di “sostituire”, ai fini dell’art. 2, commi 1 e 2 d.lgs. 198/2009, l’azione di classe civilistica di nuovo conio alla vecchia azione di classe consumeristica, sancendone in ogni caso la prevalenza processuale sull’azione di classe pubblicistica. Anzi, a ben vedere è dato scorgere un indice normativo del contrario, poiché la nuova azione di classe civilistica fa “salve le disposizioni in materia di ricorso per l’efficienza delle amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici”.

[26] In nessun punto dell’articolato normativo si riscontra, infatti, una limitazione alla formazione di una classe costituita da imprese, eventualmente anche organizzate in forma societaria. Si pensi, in particolare, alle singole (e normalmente piccole) imprese economicamente dipendenti da un unico soggetto “forte” monopolista del mercato o di una parte dello stesso (rapporti di franchising, subfornitura, distribuzione in senso ampio). L’idea che la nuova azione di classe possa essere esperita anche da soggetti imprenditoriali è condivisa anche da V. Vallefuoco, Anche le imprese possono presentare il ricorso, in Come cambia la class action, I focus del Sole 24 Ore, 2019, 11. Si vedano anche il Dossier del Servizio Studi sull’A.S. n. 844 e n. 583, novembre 2018, n. 80, p. 11: “… l’azione sarà sempre esperibile da tutti coloro che avanzino pretese risarcitorie in relazione a lesione di ‘diritti individuali omogenei’ (ma non ad ‘interessi collettivi’)” e la Circolare Assonime n. 17 del 29 luglio 2019, p. 6.

[27] Nel vigore dell’art. 140-bis c.p.c. la giurisprudenza si è espressa sulla possibilità dell’ente esponenziale di stare in giudizio in nome e per conto di un componente della classe, in forza di un mandato dallo stesso conferito, anche in mancanza del potere di disporre del diritto sostanziale dedotto in giudizio. La risposta positiva – contraria a quanto ordinariamente affermato in materia di rappresentanza processuale – è stata sinora giustificata dalla giurisprudenza in base alla considerazione che si trattava di una rappresentanza “sui generis” prevista espressamente dalla legge, concettualmente più prossima alla rappresentanza tecnica del difensore che a quella sostanziale prevista dal Codice di Rito (cfr. App. Torino, 23 settembre 2011, cit.). Non essendo più prevista, nel nuovo quadro normativo, la possibilità per il singolo “componente della classe” di agire “mediante associazioni”, non sembra che la conclusione predetta sia ancora sostenibile, con la conseguenza che il componente della classe che dovesse farsi rappresentare in giudizio da un terzo soggetto (sia esso o meno un ente esponenziale) dovrà attribuire allo stesso il potere di disporre del diritto controverso.

[28] In merito alla qualificazione giuridica del potere di azione attribuito agli enti esponenziali, v. S. Brazzini – P. P. Muià, op. cit., 70 ss., secondo i quali non è chiaro “se si tratta di una legittimazione ordinaria oppure sostitutiva a norma dell’art. 81 c.p.c. o, ancora, se si tratta di un’ipotesi di rappresentanza a norma dell’art. 77 c.p.c.”.

[29] C. Consolo, La terza edizione della azione di classe, cit., 738.

[30] Cfr. Circolare Assonime n. 17 del 29 luglio 2019, 9, ove si evidenzia che con ogni probabilità le associazioni dei consumatori rappresentative a livello nazionale, già contenute nell’elenco istituito presso il Ministero dello Sviluppo Economico ex art. 137 cod. cons., confluiranno anche nel nuovo elenco, se si seguiranno i medesimi criteri di ammissione. In tal senso cfr. S. Brazzini – P. P. Muià, op. cit., 69, i quali avrebbero auspicato una precisazione in tal senso già a livello legislativo.

[31] Sul punto, cfr. C. Consolo, La terza edizione della azione di classe, cit., 738, il quale evidenzia la mancanza di una specifica disciplina normativa per l’ipotesi in cui la sospensione o la cancellazione dall’albo intervengano pendente iudicio.

[32] Il requisito d’iscrizione non dovrebbe essere la “verifica”, attività del Ministero, bensì la sussistenza di determinati requisiti in capo all’ente.

[33] Il riferimento ai gestori di pubblici servizi o servizi di pubblica utilità non è casuale: l’art. 140-bis cod. cons. non chiariva, infatti, se non indirettamente, se tra i potenziali convenuti dovessero essere ricompresi anche i gestori di servizi pubblici o di pubblica utilità, che venivano enunciati solo nel comma 12, relativo al contenuto della sentenza di condanna (il che è stato poi chiarito dalla giurisprudenza: cfr. Trib. Roma, 27 aprile 2012, su cui v. infra). In ogni caso, anche il riferimento, contenuto nell’art.140-bis, agli “utenti” pareva deporre nel senso dell’ammissibilità di un’azione di classe consumeristica nei confronti di pubblici gestori.

[34] Sul punto v. Trib. Roma, 27 aprile 2012, in NGCC, 2012, I, 903, con nota di M. Libertini – M. Maugeri, Azione di classe: definizione di impresa e diritti contrattuali dei consumatori. Sarà l’esperienza applicativa a chiarire se – essendo oggi venuto meno il collegamento ideale tra la figura del “professionista” consumeristico e quella del convenuto nell’azione di classe – sia ancora sostenibile la legittimazione passiva dei professionisti che operino con metodo oggettivamente economico. In questo ultimo senso, recentemente, v. R. Donzelli, L’ambito di applicazione e la legittimazione ad agire, in Aa. Vv., Class action. Commento sistematico alla legge 12 aprile 2019, n. 31, a cura di B. Sassani, Pisa, 2019, 8 ss.Quanto alla legittimazione passiva degli enti che eroghino pubblici servizi, il disposto letterale della nuova disposizione sembra invece non lasciare più alcun dubbio.

[35] Nella Circolare Assonime n. 17 del 29 luglio 2019 si dubita della legittimazione attiva dei soci con riferimento ai rapporti endosocietari, sulla base di due argomenti: (i) non è scontato che “le irregolarità commesse dall’emittente e fatte valere dagli azionisti siano riconducibili all’alveo dell’attività d’impresa, a cui fa riferimento l’art. 840-bis, che tipicamente comporta un’offerta di beni o servizi sul mercato”; (ii) “… l’azionista è parte della compagine societaria e quindi non può essere considerato a tutti gli effetti soggetto terzo rispetto alla società emittente”. Il primo argomento convince, ed è sposato anche da chi scrive; il secondo sembra, invece, più debole.

[36] Cfr. art. 49, comma 2 l. 99/2009, che, nel novellare l’art. 140-bis cod. cons., prevedeva l’applicabilità delle nuove disposizioni agli “illeciti compiuti successivamente alla data di entrata in vigore della presente legge”.

[37] R. Caponi, Azione di classe: il punto, la linea e la discontinuità, in Foro it., 2012, V, 149. Parrebbe dubitare della legittimità costituzionale della disposizione anche P. Florio, op. cit., 13. R. Donzelli, L’ambito di applicazione, cit., 32, nel senso che “il processo di classe dovrebbe trovare naturale applicazione a tutti i diritti azionabili in giudizio e non solo a quelli che trovano il proprio fondamento in illeciti [posteriori] alla data di entrata in vigore della legge”.

[38] La questione di legittimità costituzionale della non retroattività delle disposizioni in materia di azione di classe consumeristica era già stata sollevata innanzi alla Corte d’Appello di Torino che, nella già citata sentenza del 23 settembre 2011, affermava: “l’istituzione per la prima volta di un’azione di classe … introducendo una forma di tutela prima non prevista, si [pone] … su un piano (non già processuale, ma) sostanziale, così come per ogni azione accordata dall’ordinamento”. Anche senza spingersi a sostenere la natura sostanziale delle disposizioni in materia di azione di classe, sembra che le ragioni esposte nel testo siano sufficienti a rendere non irragionevole – e perciò costituzionalmente legittima – la scelta del legislatore di non applicare nuove disposizioni a fatti pregressi. Già prima, S. Menchini – A. Motto, op. cit., 1416 ss., pur ritenendo “certamente inopportuna e criticabile” la scelta legislativa, ritenevano che “probabilmente, essa non può essere censurata come costituzionalmente illegittima per contrasto con l’art. 3 Cost., neppure sotto il profilo della ragionevolezza, atteso che, in materia di disciplina transitoria, il legislatore ha ampia libertà e rientra nella sua discrezionalità stabilire per quali fattispecie sostanziali operano i rimedi che sono inseriti nell’ordinamento”.

[39] Distinzione, questa, elaborata in giurisprudenza con riferimento al diverso tema dell’individuazione del dies a quo per il decorso del termine di prescrizione.

[40] Sul punto cfr. V. Vallefuoco, Da sciogliere il nodo delle condotte permanenti, in Come cambia la class action, I focus del Sole 24 Ore, 2019, 11. Il tema è stato affrontato anche in alcune pronunce adottate sotto il vigore del “primo” art. 140-bis cod. cons.: cfr. Trib. Roma, 11 aprile 2011, in Foro it., 12, I, 3424; Trib. Roma, 25 marzo 2011, in Foro it., 2011, 6, I, 1889. V. A. C. Di Landro, Azione di classe e contratti bancari, in Contratti, 2014, 12, 1127.

[41] Cfr. R. Donzelli, L’ambito di applicazione, cit., 33 ss. e, ivi, i riferimenti alle azioni di classe consumeristiche in materia di: (i) danno da fumo, ove in primo grado, in sede di decisione sull’ammissibilità della domanda, è stato ritenuto configurabile un illecito permanente (Trib. Roma, 11 aprile 2011, cit.), e in sede di reclamo si è ritenuto invece sussistente un illecito istantaneo a effetto permanente (App. Roma, 27 gennaio 2012, cit.); (ii) nullità di clausole contrattuali apposte su contratti di conto corrente mediante atti di modifica unilaterale, ove – all’inverso – è stato riscontrato innanzi a un giudice un illecito istantaneo (Trib. Roma, 25 marzo 2011, cit.) e, innanzi a un diverso giudice, un illecito permanente (App. Torino, 27 ottobre 2010, cit.).

[42] R. Donzelli, L’ambito di applicazione, cit., 35.

[43] Sul tema cfr. R. Caponi, op. cit.; un riferimento al dibattito in parola anche in L. Frata, L’art. 140-bis Cod. cons. al vaglio del legislatore e della giurisprudenza di merito, in Danno resp., 2012, 12, 1236.

[44] Peraltro, benché le disposizioni in materia di competenza presentino delle incoerenze (v. infra), la logica della concentrazione sembra ben riflessa nella previsione della natura esclusiva del criterio della sede legale dell’impresa/gestore convenuto.

[45] Certo è che non si può immaginare di “oberare” di lavoro le sezioni specializzate in materia d’impresa, affidando alle stesse dei giudizi potenzialmente monstre (per numero di parti, attività istruttoria, mole documentale, importi) senza prevedere, al contempo, un netto potenziamento delle risorse della giustizia. In tal senso si esprime anche C. Consolo, op. cit.

[46] Ai sensi dell’art. 4, comma 1, secondo inciso d.lgs. 168/2003, nelle sole regioni nelle quali sono istituite più sezioni specializzate in materia d’impresa, la competenza spetterà alla sezione imprese compresa nel distretto di corte d’appello nel quale si trova l’ufficio giudiziario che sarebbe ordinariamente competente. Secondo S. Menchini – A. Motto, op. cit., 1435, in caso di scissione tra sede legale e sede effettiva dovrebbe farsi riferimento a quest’ultima, coerentemente con la soluzione già accolta dalla giurisprudenza con riferimento all’art. 19 c.p.c.. C. Consolo, La terza edizione della azione di classe, cit., 739, evidenza il rischio di “un certo margine di forum shopping, specie se la convenuta è operante sull’intero territorio nazionale”.

[47] Nel senso che l’applicabilità dell’art. 20 c.p.c. sia esclusa dall’art. 840-ter, comma 1 c.p.c., cfr. C. Consolo, La terza edizione della azione di classe, cit. , 739.

[48] Più semplicisticamente, nella Circolare Assonime n. 17 del 29 luglio 2019,10 si afferma che “è pacifico che per le azioni di classe in materia antitrust la competenza spetti unicamente ai fori di Milano, Roma e Napoli”, e ciò poiché “la legge n. 31/2019 specifica che restano ferme le disposizioni del decreto legislativo n. 3/2017”; in senso analogo si esprimono L. Caputo – M. Caputo, op. cit., 23. In verità, la legge n. 3/2017 ha novellato l’art. 4 d.lgs. 168/2003 nel senso indicato supra, sicché è con tale novellato testo che occorre confrontarsi per stabilire la regola di competenza applicabile alle azioni di classe in materia antitrust.

[49] Dopo aver precisato che la “domanda si propone con ricorso”(art. 840-ter, comma 1 c.p.c.), la legge stabilisce infatti che “il procedimento è regolato dal rito sommario di cognizione” (art. 840-ter, comma 3 c.p.c.) ma, si deve ritenere, in quanto non derogato. Banalmente, infatti, il procedimento sommario di cognizione non è ordinariamente ammissibile nei giudizi devoluti alla cognizione collegiale (art. 702-bis, comma 1 c.p.c.), mentre le nuove azioni di classe civilistiche sono devolute a un giudice (sezione specializzata in materia d’impresa) che decide sempre in composizione collegiale.

[50] Nella presente sede non si affronterà il tema (anche comparatistico) relativo all’eventuale compatibilità di un sistema di opt-out con il nostro ordinamento costituzionale. Sul punto, comunque, si segnalano gli spunti contenuti in A. Giussani, Le azioni di classe, cit.; G. Bertolino, op. cit.; P. Florio, op. cit.

[51] D’altro canto, appare prevedibile che, nelle ipotesi in cui il ricorrente sarà un ente esponenziale, tale ente si intesti il compito di predisporre dei moduli di adesione in qualche misura “precompilati” e metterli a disposizione dei componenti della classe, anche al fine di ottenere la massima coerenza espositiva e argomentativa ed evitare contrasti “interni” alla classe sulle questioni di diritto.

[52] In questo caso, le dichiarazioni testimoniali scritte devono essere accompagnate da un’attestazione resa da avvocato che attesti l’identità del dichiarante.

[53] Come vedremo, ai sensi dell’art. 840-octies, comma 3 c.p.c., in tale fase “non sono ammessi mezzi di prova diversi dalla prova documentale”.

[54] R. Donzelli, L’ambito di applicazione, cit., 20 ss.

[55] In realtà sarebbe, forse, più corretto parlare di due fasi: (i) la prima, di merito, nel cui ambito si svolge sia la valutazione pregiudiziale in merito all’ammissibilità della domanda sia la valutazione sulla fondatezza della stessa; (ii) la seconda, liquidatoria, nella quale viene stabilito il quantum debeatur. Ciò appare confermato anche dalla scelta del legislatore, che riferisce talune disposizioni (ad esempio, l’applicabilità dell’art. 702-bis) indifferentemente alla fase di merito, senza distinguere la valutazione di ammissibilità dal merito propriamente detto. In ogni caso, per comodità espositiva nel presente articolo si manterrà la struttura triadica indicata nel testo.

[56] Come accennato, la fase di merito potrebbe astrattamente procedere anche senza aderenti, i quali potrebbero presentare domanda di adesione anche solo dopo la decisione di merito (adottata con sentenza).

[57] Il ricorso per cassazione non è espressamente escluso, come già nel testo dell’art. 140-bis c.p.c. Sul punto, tuttavia, sembra di poter tenere fermo l’insegnamento delle Sezioni Unite, che hanno negato la ricorribilità per cassazione dell’ordinanza dichiarativa dell’inammissibilità dell’azione di classe (Cass., SS.UU. 1 febbraio 2017, n. 2610). Nel senso che tale ordinanza non fosse ricorribile per cassazione, essendo priva di contenuto decisorio definitivo, v. R. Donzelli, Sul ricorso straordinario in Cassazione avverso l’ordinanza d’inammissibilità dell’azione di classe, in Riv. Dir. Proc., 2016, 2, 412. Cfr. M. Schirripa, Azione di classe e ordinanza di inammissibilità, in Contratti, 2015, 11, 979, per un commento all’ordinanza di rimessione della questione alle Sezioni Unite. Sostiene, oggi, che l’ordinanza che dichiari l’inammissibilità per manifesta infondatezza in appello dovrebbe essere assoggettata al rimedio del ricorso per cassazione C. Petrillo, Situazioni oggettive implicate, in Aa. Vv., Class action. Commento sistematico alla legge 12 aprile 2019, n. 31, a cura di B. Sassani, Pisa, 2019, 47-48, in ragione della (sia pur limitata) preclusione derivante da tale ordinanza.

[58] A. Nicodemi, Profili generali relativi alla tutela del consumatore ed azione di classe – Parte II, in Temi romana, 2014 e, ivi, il riferimento ad App. Roma, 27 gennaio 2012.

[59] Sul punto, peraltro, S. Menchini – A. Motto, op. cit., 1439 ss., ipotizzavano, già con riferimento all’azione di classe consumeristica, la possibilità di svolgimento di attività istruttoria nella fase di ammissibilità dell’azione. Tale impostazione non pare, però, sostenibile alla luce delle nuove norme, né rispondente alle esigenze (anche) di economia processuale che ispirano la riforma.

[60] La maggiore problematica, con riferimento agli accantonamenti contabili, riguarda comunque la terza fase. Essendo possibile l’adesione di nuovi componenti della classe dopo la sentenza ex art. 840-sexies c.p.c., il resistente non è in grado di commisurare adeguatamente il rischio di causa sino alla chiusura della seconda fase di adesione. Né è pensabile che, nel dubbio, il resistente debba accantonare un importo commisurato alle dimensioni attese della classe di danneggiati, prescindendo cioè dal numero di aderenti presenti nella fase di merito. Infatti, una simile ricostruzione: (i) potrebbe imporre alle imprese resistenti degli accantonamenti (con conseguente immobilizzazione di risorse finanziarie) enormemente più elevati rispetto a quello che si rivelerà essere l’effettivo rischio di soccombenza; (ii) porrebbe in ogni caso le imprese convenute in un cul de sac, in quanto accantonamenti elevati potrebbero equivalere a una “confessione” ed essere strumentalizzati dai ricorrenti, mentre accantonamenti risicati potrebbero esporre a censure e azioni di responsabilità gli amministratori delle società. Per alcune prime riflessioni sul tema, cfr. M. Croce – V. Vallefuoco, Accantonamento contabile collegato al livello di rischio, in Come cambia la class action, I focus del Sole 24 Ore, 2019, 11, 11.

[61] L’art. 840-quater c.p.c. disciplina l’ipotesi della pluralità delle azioni di classe prevedendo che, decorsi 60 giorni dalla pubblicazione del ricorso, non possono essere proposte ulteriori azioni di classe sulla base dei medesimi fatti e nei confronti del medesimo resistente, fatto salvo il caso in cui la prima azione di classe non sia dichiarata inammissibile.

[62] Ma v. G. Ponzanelli, op. cit., 308, il quale definisce “molto discutibile il confermato criterio di inammissibilità consistente nel conflitto di interessi tra ricorrente e resistente, poiché si presta per le sue troppo generali caratteristiche a costituire un possibile freno all’operatività della class action”.

[63] Il vaglio ministeriale sull’iscrizione allo speciale elenco ex art. 196-ter disp. att. c.p.c. renderà, infatti, verosimilmente inattuale l’ipotesi di enti esponenziali costituiti ad hoc, al solo fine di “favorire” i resistenti con lites fictae.

[64] In tal senso v. anche S. Brazzini – P. P. Muià, op. cit., 70.

[65] P. Florio, op. cit., 15, ritiene invece che il requisito non debba essere accertato con riferimento agli enti esponenziali, in quanto già verificato in via amministrativa. Tuttavia, poiché la verifica effettuata in sede amministrativa ha una portata generale e astratta, non sembra corretto ritenere che possa sostituire la valutazione dell’organo giudicante con specifico riferimento alla singola azione di classe che viene proposta innanzi allo stesso.

[66] S. Menchini – A. Motto, op. cit., 1456; P. F. Giuggioli, La domanda dev’essere fondata, adeguata e senza conflitti, in Come cambia la class action, I focus del Sole 24 Ore, 2019, 11, 7 si limita, invece, ad affermare che il tribunale dovrebbe appurare che “lo studio legale incaricato sia competente ed esperto”.

[67] Perplesso sulla possibilità che il tribunale valuti la solidità patrimoniale o l’organizzazione dello studio legale incaricato della difesa del proponente, già con riferimento all’azione di classe consumeristica, anche P. M. Fiorio, Solo il consumatore ricco può curare adeguatamente gli interessi della classe? La legittimazione ad agire alla luce delle prime esperienze applicative dell’art. 140-bis, in Giur. merito, 2012, 2, 377. L’Autore dubita, inoltre, che il tribunale possa valutare se la solidità patrimoniale o finanziaria del proponente individuale siano idonee a sostenere i costi dell’azione, dovendosi piuttosto limitare a verificare se le condizioni economiche del proponente siano tali da attribuirgli un ragionevole grado di indipendenza, ponendolo al riparo da eventuali conflitti d’interessi.

[68] S. Menchini – A. Motto, op. cit., 1456.

[69] Cfr. S. Menchini – A. Motto, op. cit., 1447.

[70] R. Donzelli, L’ambito di applicazione, cit., 24.

[71] Come si è visto, l’art. 840-septies c.p.c., nel disciplinare le modalità di adesione, si riferisce chiaramente, in prima istanza, all’adesione che avvenga nella fase liquidatoria. Questo spiega, ad esempio, perché sia prevista l’indicazione, nell’atto di adesione, dei “dati necessari per l’accredito delle somme” e la dichiarazione di “aver provveduto al versamento del fondo spese”: adempimenti che non saranno necessari (e, quanto al secondo, neanche possibili) se non nella terza fase del procedimento.

[72] Sul punto cfr. G. Scarselli, La nuova azione di classe di cui alla legge 12 aprile 2019 n. 31, in www.judicium.it, il quale tuttavia conclude che “il ricorrente, dopo l’esercizio dell’azione di classe … non ha modo, in tutte le successive fasi del procedimento, di scrivere altri atti o successivi ricorsi, dal che par evidente che detto atto deve essere completo non solo con riferimento al preliminare giudizio di ammissibilità dell’azione, bensì con riferimento a tutti gli aspetti dell’intera procedura”, come peraltro previsto in linea generale per il procedimento sommario di cognizione.

[73] Diversamente da quanto previsto dall’art. 669-sexies, comma 1 c.p.c. per i procedimenti cautelari, l’istruttoria non è invece limitata agli atti di istruzione “indispensabili in relazione ai presupposti e ai fini del provvedimento richiesto”. Analoga considerazione era già stata svolta da S. Menchini – A. Motto, op. cit., 1474 ss., con riferimento all’art. 140-bis cod. cons. Sul punto v. anche S. Brazzini – P. P. Muià, op. cit., 86 ss., i quali evidenziano che con ogni probabilità dovrà trovare applicazione l’insegnamento di Cass., 18 dicembre 2015, n. 25547, secondo cui – in presenza di un rito sommario di cognizione c.d. “esclusivo” (i.e. senza possibilità di conversione per espresso limite normativo) – l’attività istruttoria deve comunque espletarsi appieno, se necessaria, anche ove non sia sommaria.

[74] Né tale disposizione pare giustificabile in base all’idea che il resistente sia generalmente la parte economicamente “forte” del rapporto processuale, in quanto: (a) la differenza di potere economico non dovrebbe riverberarsi in danno dell’impresa, tantomeno del pubblico gestore; (b) ove il ricorrente sia un ente esponenziale, dovrà essere dotato di risorse sufficienti a gestire il procedimento, anche – occorrendo – sostenendo le spese di un eventuale accertamento tecnico; (c) anche ove il ricorrente sia un singolo componente della classe, non pare vi sia alcuna ragione per addossare alla parte resistente (anche se considerato quasi un presunto “colpevole”) le spese necessarie per la compiuta prova dei fatti costitutivi della domanda avversaria. Sostiene la probabile illegittimità costituzionale della previsione G. Scarselli, op. cit.; critica anche Assonime, che definisce tale previsione normativa “ingiustificata e iniqua”: cfr. Circolare n. 17 del 29 luglio 2019, 20.

[75] L’esperienza del contenzioso seriale insegna, infatti, che esiste un set documentale predeterminabile in ragione delle domande attoree che, verosimilmente, sarà sempre presente in giudizio e necessario per decidere delle domande. Si pensi al contenzioso in materia bancaria o in ambito di intermediazione finanziaria, ove alcune tipologie di documenti sono sempre presenti (estratti di conto corrente; estratti dei conti deposito titoli; informative precontrattuali; c.d. “questionari MiFID”, contratti).

[76] Potrebbe infatti trattarsi di costi non banali laddove la richiesta riguardi un certo numero di documenti per ciascun aderente.

[77] La legge enuncia – parrebbe in via meramente esemplificativa – “l’obbligo del segreto, la possibilità di non rendere visibili le parti riservate di un documento, la conduzione di audizioni a porte chiuse, la limitazione del numero di persone autorizzate a prendere visione delle prove, il conferimento ad esperti dell’incarico di redigere sintesi delle informazioni in forma aggregata o in altra forma non riservata” (art. 840-quinquies, comma 8 c.p.c.).

[78] Sul punto, appare sufficiente evidenziare che gli aderenti non sono affatto indifferenti all’esito dell’attività istruttoria. Da un lato, infatti, tale attività riguarda i diritti individuali degli stessi; dall’altro, solo la piena consapevolezza in merito al quadro istruttorio formatosi in corso di giudizio permette agli aderenti di adottare strategie processuali consapevoli (ad esempio, in merito all’esercizio del potere di revoca dell’adesione, esercitabile sino all’adozione del decreto ex art. 840-octies c.p.c.).

[79] Cfr. Circolare Assonime n. 17 del 29 luglio 2019, 22, ove si afferma che “il momento a cui far riferimento è quello della presentazione dell’istanza volta a ottenere l’esibizione”: secondo questa impostazione – che però sembra provare troppo – anche dopo l’avvio del giudizio, e sinché non sia stata formulata un’istanza di esibizione, l’eventuale distruzione di prove rilevanti non darebbe vita all’illecito sanzionato dalla disposizione in commento.

[80]) Con riferimento alle parti, si può ipotizzare che la sanzione amministrativa debba essere impugnata mediante l’impugnazione della sentenza che conclude la fase di merito. Rimedio, questo, che non pare invece agevolmente invocabile dal terzo.

[81] Sul piano meramente semantico, la differenza parrebbe risiedere nel fatto che il “rifiuto” postula una dichiarazione di volontà negativa, mentre l’inadempimento è una condotta non conforme al contenuto dell’ordine. Anche l’adempimento parziale sembra rientrare nell’ipotesi di inadempimento.

[82] Cfr. C. Consolo, La terza edizione della azione di classe, cit., 740.

[83] In senso analogo anche la Circolare Assonime n. 17 del 29 luglio 2019, p. 21, ove si evidenzia, condivisibilmente, che ostano a un simile impiego “esplorativo” dell’ordine di esibizione i principi di “rilevanza ai fini della decisione e proporzionalità” e che, in ogni caso, il sistema di pubblicità legalmente previsto “assicura la conoscibilità dell’azione da parte di tutti i soggetti potenzialmente interessati all’adesione e fa venir meno l’esigenza che il ricorrente si attivi per il loro coinvolgimento”.

[84] Nel senso indicato nel testo, cfr. Circolare Assonime n. 17 del 29 luglio 2019, 20; nel senso che tale previsione introduca, invece, una novità di rilievo, P. Florio, op. cit., 17. Appare corretta la precisazione contenuta in L. Caputo – M. Caputo, op. cit., 31-32, che il giudice non potrà fare uso della scienza privata, dovendo comunque valutare eventuali “dati statistici” emergenti dalle produzioni di parte e/o dalla consulenza tecnica d’ufficio; non pare, invece, fondata sul dato normativo l’affermazione che “l’espresso riferimento alla possibilità di decidere la controversia sulla base di dati statistici deve essere intesa come volta a evidenziare la possibilità che in questo tipo di contenzioso il dato statistico assuma maggior rilievo che in altri”: come si è detto, i dati statistici non possono che rientrare nell’ambito delle presunzioni semplici, e come tali devono essere valutati.

[85] Sul punto, appaiono ancora attuali e rilevanti le riflessioni contenute in S. Menchini – A. Motto, op. cit., 1475, ove si osserva che il giudice può anche avvalersi di mezzi di prova atipici (ove tale fosse ritenuto il ricorso a dati statistici), ma può far ciò solo “ove non sia possibile la formazione della prova all’interno del processo nel contraddittorio delle parti, attraverso l’assunzione del mezzo di prova tipico”. Principio, questo, a ben vedere espresso proprio dall’art. 2729, comma 2 c.c., che esclude il ricorso a presunzioni semplici ogniqualvolta non sia ammessa la prova per testi.

[86] S. Brazzini – P. P. Muià, op. cit., 97.

[87] Con la precisazione che, in ogni caso, la formulazione testuale della norma impone di ritenere accertato anche il nesso di causalità tra l’illecito e il danno-evento (il resistente … ha leso i diritti individuali”), non solo l’illecito stesso. Sul punto v. le riflessioni contenute in R. Donzelli, L’azione di classe tra pronunce giurisprudenziali e recenti riforme legislative, in Corr. Giur., 2013, 1, 113 ss., già con riferimento all’azione di classe consumeristica e in presenza di un dettato normativo non altrettanto chiaro. Ma v. C. Petrillo, Situazioni soggettive implicate, cit., 51, la quale precisa che “l’accertamento di cui alla lettera b) del primo comma dell’art. 840-sexies c.p.c. è limitato all’accertamento della illegittimità della condotta del resistente che sia potenzialmente – e solo potenzialmente – lesiva dei diritti appartenenti ai componenti di una classe”.

[88] Secondo P. Florio, op. cit., 23, non è chiara la ratio della previsione di un fondo spese. A parere di chi scrive, si tratterà delle somme necessarie per sostenere l’attività del rappresentante comune degli aderenti e da suoi eventuali ausiliari o consulenti tecnici, che saranno anticipate dagli aderenti e, in caso di accoglimento della domanda di adesione, poste definitivamente a carico del resistente, unitamente al compenso definitivo del rappresentante comune.

[89] Analogamente, G. Scarselli, op. cit., definisce la terza fase “procedura di liquidazione dei danni ai soggetti aderenti”.

[90] C. Consolo – M. Stella, La nuova azione di classe, cit., 3. Ma v. la precisazione contenuta in C. Consolo, op. cit., per il quale occorre comunque rammentare che anche dopo l’adozione della sentenza ex art. 840-sexies c.p.c. gli aderenti sono esposti, in una certa misura, all’alea del giudizio, non essendo ancora affatto certo l’accoglimento delle domande individuali, né – tantomeno – il quantum eventualmente liquidato in loro favore. La precisazione è, verosimilmente, una replica a G. Ricci, Si può entrare anche quando la causa è stata vinta da altri, in Come cambia la class action, I focus del Sole 24 Ore, 2019, 11, 9. Nettamente contraria al sistema di “adesioni a doppio turno” anche Assonime (v. Circolare n. 17 del 29 luglio 2019, 16-17).

[91] Di questa opinione anche G. Ponzanelli, op. cit., 307, il quale colloca la possibilità di adesione successiva alla decisione sull’an debeatur tra i fattori che, verosimilmente, precluderanno la chiusura transattiva dei giudizi, finendo per determinare un “aggravamento delle incertezze collegate a questo contenzioso”.

[92] Non così R. Pardolesi, op. cit., 305, che tuttavia sembra ridimensionare il problema, trattandolo sotto la prospettiva dell’etica (la “ingloriosa corsa a montare sul carro del vincitore”), e non ponendosi il problema (pienamente giuridico) del rispetto del principio del contraddittorio.

[93] Ciò in applicazione, se non altro, del principio di prossimità e disponibilità della prova.

[94] La legge prevede sette scaglioni. L’importo dovuto al rappresentante comune degli aderenti andrà da un massimo del 9% a un minimo dello 0,5% del liquidato.

[95] Meno permissivo G. Ponzanelli, op. cit., 308, il quale definisce il riferimento al numero degli aderenti “una evidente ripetizione visto che il numero dei membri è già considerato nei criteri del compenso”.

[96] P. Florio, op. cit., 21.

[97] Assonime afferma, senza mezzi termini, che “questo meccanismo di remunerazione introduce forti incentivi alla litigiosità e aggrava l’onere dell’impresa resistente ben oltre la somma delle pretese dei singoli componenti della classe, conferendo al sistema una connotazione punitiva estranea al nostro ordinamento” (Circolare n. 17 del 29 luglio 2019, 28-29).

[98] Cfr. P. Florio, op. cit., 14 e gli Autori ivi citati.

[99] In tema, P. Florio, op. cit., 25 sostiene invece che sarebbe opportuno consentire ai difensori del ricorrente di farsi parte attiva del processo di “reclutamento” di componenti della classe, poiché “vietare ai difensori tali attività rischierebbe infatti di rendere del tutto evanescente la legittimazione individuale che pare essere uno dei punti centrali della nuova disciplina”; lo stesso Autore manifesta, tuttavia, delle perplessità in merito alla compatibilità di una simile attività con i vincoli deontologici vigenti.

[100] Nel senso che un’eventuale esclusione dell’applicabilità dell’art. 96 c.p.c. sarebbe potuta avvenire solo in maniera espressa anche L. Caputo – M. Caputo, op. cit., 26.

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