Dopo mesi di annunci e polemiche, di figure grottesche e “manine” nascoste, la pace fiscale è arrivata con il d.l. n. 119/2018.
Dico subito che siamo di fronte a un provvedimento di condono in senso stretto: le cose vanno chiamate col loro nome, senza inutili e ingannevoli giochi di parole. Personalmente – dico subito anche questo – non ho nessuna preclusione ideologica per provvedimenti di tal fatta, purché siano adottati col rigore proprio di uno stato di diritto, non con la leggerezza del famoso motivetto “chi ha avuto, ha avuto, ha avuto … chi ha dato, ha dato, ha dato, scurdámmoce ‘o ppassato …”.
Le ragioni per le quali si deve parlare di legge di condono sono facili da individuare.
I condoni, per la scienza giuridica e in particolare per quella tributaria, si distinguono in “clemenziali” e “premiali”.
Il condono “clemenziale” ripete la sua fisionomia e i suoi effetti dalla figura storica della grazia e dell’indulto regio: il re, il papa-re e oggi il governo e il parlamento dispongono che lo stato rinunci all’esercizio di un suo potere fondamentale, quello sanzionatorio, seppure trasportato in ambito amministrativo.
Il condono “premiale” attiene al rapporto obbligatorio d’imposta. I governanti, in questo caso, dispongono che lo stato rinunci all’esercizio di un altro potere, quello impositivo.
Nel primo caso – condono “clemenziale” – l’abdicazione all’esercizio del potere comporta la non applicazione, in tutto o in parte, della sanzione o la rinuncia al credito per sanzione se questa consiste in un’obbligazione pecuniaria; nel secondo caso – condono “premiale” – determina l’abbandono totale o parziale del credito d’imposta (e dei suoi accessori), sia esso in corso di riscossione o già quantificato in atti giurisdizionali e della pubblica amministrazione, sia esso ancora da determinare per avere il contribuente occultato la materia imponibile.
Il decreto n. 119 contiene entrambe le figure di condono richiamate, secondo il copione più tradizionale degli usi e costumi italici: premia, riducendo tributi e contributi previdenziali, chi ha omesso di dichiarare parte dell’imponibile e chi ha omesso di eseguire i versamenti delle imposte iscritte a ruolo; concede la “grazia”, sempre e in ogni caso, a chi non ha dichiarato fedelmente la sua situazione contributiva, l’ha rappresentata fraudolentemente e a chi non ha pagato le cartelle esattoriali.
Difficile stimare con attendibilità la sua resa finanziaria, anche se la mancanza di un’ampia “copertura” per i reati extra tributari rende il piatto poco appetibile. È possibile, insomma, che la montagna abbia finito per partorire un topolino, scarsamente utile per le casse erariali e poco stuzzicante per i contribuenti. A meno che il Parlamento non intervenga in sede di conversione con modifiche di rilievo.
Ora, al di là di dettagli tecnici e della conformità delle disposizioni sull’IVA alla normativa dell’Unione europea, il provvedimento solleva due ordini di problemi di carattere generale che si collegano al famoso motivetto richiamato in apertura.
Il condono – “premiale” o “clemenziale” che sia – incide anzitutto sui rapporti tra cittadino e stato, e tra cittadino e cittadino o, se si preferisce, tra singolo e collettività. Quel che viene messo in discussione è il principio di eguaglianza tra chi ha rispettato fedelmente gli obblighi di legge e chi li ha violati, magari furbescamente e ripetutamente o anche solo tenendo condotte non improntate ai canoni della buona fede.
Questa è la critica più penetrante da sempre sollevata alle leggi di sanatoria e da sempre, in verità, ignorata bellamente dai governi, indipendentemente dalla loro bandiera di appartenenza.
Eppure è questione davanti alla quale non si può continuare a fare spallucce. Le deroghe all’uguaglianza, riguardata con riferimento alla capacità contributiva, al vincolo solidaristico di ripartizione dei carichi pubblici e anche alle connotazioni dei comportamenti dei singoli in seno al rapporto d’imposta, sono senz’altro possibili se rispondenti a ragionevolezza e non arbitrarietà. Anzi, va detto che talvolta è la ragionevolezza stessa ad imporle per riportare il sistema in equilibrio.
La valutazione della ragionevolezza delle deroghe portate dai condoni, tuttavia, per il carattere eccezionale degli effetti che questi producono, va condotta su parametri specifici.
È il carattere eccezionale degli effetti, infatti, la più profonda essenza dei condoni.
Il principale parametro di giudizio è questo: i condoni si giustificano e le deroghe all’uguaglianza si possono considerare ragionevoli se collegati a mutamenti radicali dell’ordinamento, a tal punto incisivi da legittimare, proprio, il colpo di spugna sul passato, o se imposti da situazioni eccezionali di finanza pubblica che non possono trovare soddisfazione con gli ordinari strumenti di gestione del bilancio.
Il decreto legge n. 119 è all’evidenza sguarnito di queste giustificazioni. Esso, piuttosto, si regge sulla necessità di far quadrare i conti, siccome aggravati da ulteriori e sostanziose spese correnti.
Quest’ultimo aspetto è centrale nell’economia del ragionamento. La gravità della situazione del paese consente senza dubbio al governo di ricorrere a strumenti straordinari, nel difficile compito di contemperare gli interessi finanziari dello stato con i servizi e la protezione di cui i cittadini necessitano. Peraltro, anche in queste condizioni, è suo compito rispettare i princìpi fondamentali, tra i quali quello d’uguaglianza; princìpi che, se certamente non si possono dire indifferenti alla realtà del paese stesso, altrettanto certamente sopportano solo deroghe finalizzate a soddisfare interessi anch’essi fondamentali e non appagabili con strumenti ordinari.
Stando così le cose, come indica anche la Corte costituzionale in alcune diamantine sentenze, si ha conferma che le leggi di condono si possono giustificare solamente se accompagnate da un profondo riordino del sistema o se tese a soddisfare situazioni emergenziali non esaudibili ordinariamente, ossia con maggiori entrate o minori spese di fonte diversa da quella “condonizia”.
Questo modo di affrontare la questione non sembri frutto di una scelta leguleia. La sostanza del problema fin qui sollevato, infatti, non cambia anche se, abbandonando Costituzione, codici e leggi, si ragiona sui “semplici” valori del vivere comune, del con-vivere.
Siamo così arrivati al secondo ordine di problemi, che per l’appunto va oltre la dimensione giuridica.
Il rispetto delle regole generalmente condivise è l’asse portante del contratto sociale nel quale si riconosce una comunità. E una comunità si può dire tale soltanto se riesce a ordinare la sua identità intorno a valori superiori. In altre parole, l’identità si forma e si mantiene se un popolo condivide, rispetta e vive in concreto un ventaglio di valori il più possibile ampio e, riconoscendosi in essi, stipula virtualmente un contratto sociale. Il nocciolo dell’identità è valoriale, non altro. Il contratto sociale è la sua formalizzazione, seppure simbolica.
Infrangere l’uguaglianza, come fanno le leggi di condono, senza una giustificazione radicata sull’eccezionalità degli eventi, contribuisce a disperdere il senso di comunità e mette a repentaglio l’architettura dello stato. Quel che viene posto in discussione con tale rottura non è soltanto il rispetto formale di un principio – quello d’uguaglianza – ma è anzitutto una questione sostanziale, d’identità, di mantenimento del senso di appartenenza del singolo alla comunità e alle istituzioni.
Certo, la legge di condono farà arrivare qualche soldo in più nelle casse dello stato e potrà indirizzare qualche voto di appartenenza in più nell’urna elettorale, ma quale sarà il costo culturale e sociale di questi risultati?
E quale il costo, talvolta erroneamente considerato irrilevante, che si ribalterà ancora una volta sul terreno del diritto e dei princìpi che lo sorreggono? Il diritto è vendicativo: se abusato nei princìpi, se utilizzato irresponsabilmente, prima o poi ricambia l’offesa non consentendo più al sistema di rimane in piedi. D’altra parte, dopo decenni di abusi, il fumo delle macerie inizia già a farsi denso e dall’odore acre.
Ecco perché il rispetto dei princìpi è essenziale ed ecco perché invocarlo non è retorica o moralismo da quattro soldi. È una richiesta per il bene della comunità, alla costruzione della cui identità anche il diritto partecipa come pietra fondativa.