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Attualità

La prescrizione dell’illecito amministrativo nel sistema 231: una disciplina da ripensare

19 Gennaio 2021

Enrico Di Fiorino, Partner, Lorena Morrone, Partner, Fornari e Associati

Di cosa si parla in questo articolo

Con la recente sentenza n. 28210/2020, la sesta sezione penale della Corte di Cassazione è tornata – seppur incidentalmente – su un tema di particolare interesse per tutti i soggetti coinvolti nel “sistema 231”: la prescrizione dell’illecito amministrativo dell’ente dipendente da reato della persona fisica.

Nel caso di specie – per quanto ci occupa – una società operante nel settore dei rifiuti aveva proposto ricorso in Cassazione avverso una pronuncia della Corte d’Appello di Lecce, che, confermando la sentenza di primo grado, l’aveva ritenuta responsabile dell’illecito amministrativo ex art. 25, comma 2, d. lgs. 231/2001 in relazione al reato di corruzione di cui all’art. 319 c.p., commesso dal proprio amministratore. Il delitto (perpetrato tramite il conferimento di incarichi ad un chimico, componente del comitato tecnico della Provincia di Brindisi, quali utilità finalizzate ad ottenere l’asservimento delle sue funzioni pubbliche), veniva invece dichiarato prescritto dalla stessa Corte d’Appello.

Da questa breve introduzione, emerge già lapalissiano uno dei profili di criticità della disciplina introdotta – vent’anni fa – dal legislatore italiano, su cui vale la pena spendere alcune considerazioni di sistema, anche in vista di una sua futura (ed auspicabile) revisione. L’estinzione del reato-presupposto per intervenuta prescrizione rappresenta, invero, una delle ipotesi in cui l’inscindibilità tra la vicenda processuale della persona fisica e quella della persona giuridica può venire meno, in nome dell’autonomia della responsabilità dell’ente, come stabilito dall’art. 8 d. lgs. 231/2001 (ai sensi del quale “la responsabilità dell’ente sussiste anche quando […] b) il reato si estingue per una causa diversa dall’amnistia”).

In particolare, lo scostamento tra le due vicende processuali è determinato non solo dal diverso termine prescrizionale (che per il reato-presupposto, ex art. 157 c.p., dipende dalla gravità dell’offesa, mentre per l’illecito amministrativo ex art. 22 d. lgs. 231/2001 è sempre quinquennale), ma soprattutto dal diverso modo di operare della disciplina dell’interruzione. Mentre, nel caso della persona fisica, l’interruzione della prescrizione può determinare un semplice aumento del tempo necessario per l’estinzione del reato, nel caso di tempestiva contestazione all’entedell’illecito amministrativo, il termine per l’accertamento di quest’ultimo viene sospeso, sino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio.

Il rigore di questa disposizione è attenuato – sul piano processuale – dalla previsione dell’art. 60d. lgs. 231/2001, ai sensi della quale non è più possibile contestare l’illecito amministrativo laddove il reato presupposto sia già estinto per prescrizione. Trattasi di disposizione non prevista dalla legge delega, ed evidentemente introdotta per limitare gli effetti della disciplina della prescrizione prevista dall’art. 22 d. lgs. 231/2001.

Quest’ultima presenta delle peculiarità che, evidentemente, hanno risentito della natura ibrida dell’apparato sanzionatorio previsto per gli illeciti dipendenti da reato.

Da una parte, si è ritenuto opportuno introdurre una durata della prescrizione obiettivamente breve, pari a soli cinque anni (senza peraltro prevedere alcuna graduazione connessa alla diversa gravità degli illeciti). Tale soluzione è figlia della dichiarata intenzione di non sottoporre troppo a lungo l’azienda all’incertezza di dover subire un procedimento penale, con la conseguente potenziale irrogazione di sanzioni di natura para-penale.

Dall’altra, è stato, però, previsto un effetto interruttivo inconsueto che, recependo in toto la disciplina civilistica, mira a sottrarre l’illecito contestato all’ente all’effetto estintivo della prescrizione del reato nel corso del giudizio.

Pertanto, da tale assetto normativo, nel caso di prescrizione del reato della persona fisica nel corso del giudizio, discende la necessità di procedere con l’accertamento della responsabilità amministrativa dell’ente attraverso un percorso processuale autonomo, in cui il potere cognitivo del giudice penale resta immutato. Invero, la giurisprudenza è ormai costante nel ritenere che dinanzi ad una declaratoria di prescrizione del reato presupposto il giudice debba “procedere all’accertamento autonomo della responsabilità amministrativa della persona giuridica nel cui interesse e nel cui vantaggio l’illecito fu commesso che, però, non può prescindere da una verifica, quantomeno incidentale, della sussistenza del fatto di reato”.

Il diverso regime prescrizionale del reato e dell’illecito che da esso dipende, tuttavia, porta con sé alcune questioni di non secondaria importanza.

In primis, la necessità di accertare lo stesso fatto storico alla base della responsabilità della persona fisica, ma senza la pressione che scaturisce dalla sua presenza nel processo. Nel processo a carico della persona fisica, infatti, la Pubblica Accusa sa che avrà un tempo limitato per convincere il giudicante della bontà della propria impostazione; allo stesso modo, il Tribunale tenterà di giungere il prima possibile al termine dell’istruttoria per non doversi trovare a pronunciare una sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato.

In tutti i casi – diverso da quello in esame – in cui quest’ultima maturi nel corso del primo grado, invece, l’ente dovrà affrontare, da solo, un dibattimento lungo e complesso (salvo, evidentemente, il caso, poco frequente, di rinuncia della prescrizione da parte dell’imputato persona fisica).

Lungo, perché la prescrizione dell’illecito amministrativo risulta – di fatto – atteggiarsi come una never ending story, legittimata proprio dal disposto di cui all’art. 22, comma 4, d. lgs. 231/2001, che ne prevede l’interruzione e la sospensione sino all’irrevocabilità della sentenza.

Nel caso in cui, quindi, la contestazione dell’illecito sia avvenuta entro i cinque anni, e il reato presupposto si sia invece prescritto dopo la richiesta di rinvio a giudizio della persona fisica, il processo potrebbe subire un gravissimo rallentamento. È assai frequente, infatti, che nella quotidiana organizzazione degli uffici giudiziari, l’accertamento dibattimentale dell’illecito amministrativo lasci spazio a tutti quei procedimenti penali con un rischio concreto di estinzione del reato. Rischio che, invece, non sussiste per l’ente.

Del resto, già la relazione ministeriale al d. lgs. 231/2001 aveva evidenziato come la scelta del legislatore delegante non apparisse “delle più felici, visto che il rinvio ad una regolamentazione di stampo civilistico rischia di dilatare eccessivamente il tempo di prescrizione dell’illecito amministrativo dell’ente, potendo persino favorire deprecabili prassi dilatorie, specie nei casi in cui si proceda separatamente nei confronti dell’ente”.

Oltre che lungo (ed anzi, interminabile), l’accertamento potrebbe mostrarsi pure complesso, dal momento che – oltre alle difficoltà di accertare se l’ente abbia fatto tutto il possibile per evitare la commissione del reato, o se questo sia stato commesso eludendo i modelli e le procedure predisposte dalla società – la ricostruzione della prova del reato non è sicuramente agevole a distanza di molti anni dal fatto.

Nella pratica, inoltre, ci si può trovare dinanzi a situazioni che complicano ancora di più l’accertamento della responsabilità dell’ente, in caso di prescrizione del reato presupposto. Si veda il caso in cui veniva rilevato che“la istruttoria dibattimentale in ordine ai reati presupposto non era stata svolta dato che venivano escluse le testimonianze relative ai reati prescritti”; con la conseguenza che “tale limitazione istruttoria si [era] riverberata sulla tenuta logica della motivazione, impedendo l’esercizio del diritto di difesa degli enti” (Cass. pen. sez. II, 24 settembre 2018, n. 41012).

Infine, anche l’efficacia rieducativa della eventuale pena non sarebbe più così scontata se la stessa venisse applicata a distanza di tanto tempo, quando magari la struttura societaria è cambiata nella sua totalità o, addirittura, l’ente ha mutato l’oggetto sociale.

Ci si chiede ancora, dunque, se le ragioni alla base delle importanti divergenze previste dal legislatore nella regolamentazione dell’istituto della prescrizione siano tali da controbilanciare le predette inefficienze. La giurisprudenza di legittimità giustifica la scelta del legislatore alla luce di un dupliceordine di ragioni: in primo luogo, l’opportunità che l’illecito dell’ente, di natura amministrativa, faccia riferimento alla disciplina di competenza, di cui all’art. 28 l. 689/1981; e, in secondo luogo, l’esistenza di un bilanciamento operato dal d.l.gs. 231/2001 fra una ragionevole durata del processo – tramite la previsione di un termine di prescrizione di cinque anni dalla consumazione dell’illecito, sensibilmente più breve rispetto a quanto previsto dal codice penale – e la necessità di un accertamento giurisdizionale completo – una volta che il processo sia stato instaurato mediante tempestiva contestazione (Cass. pen., sez. II, 24 settembre 2018, n. 41012).

Sempre a favore del legislatore, sono state risolte dalla giurisprudenza le questioni di legittimità sollevate con riferimento alla predetta disciplina, sia in relazione agli artt. 3, 24, comma 2, e 111 Cost. – alla luce della natura “non penale” dell’illecito e della presenza degli artt. 22 e 60 d.lgs. 231/2001, che terrebbero conto della necessità di celebrare un processo dalla giusta durata – che con riferimento agli artt. 41 e 117 Cost. in relazione all’art. 6 della Convenzione EDU – in quanto la pronuncia nei confronti della persona fisica non produrrebbe alcun pregiudizio per l’ente, non contemplando vincoli formali alla ricostruzione del fatto, non esonerando l’accusa dal dimostrare l’esistenza del reato presupposto e non impedendo all’ente di chiedere l’ammissione di prove utili alla corretta ricostruzione del fatto da cui dipende la propria responsabilità amministrativa (così Cass. pen., sez. VI, 10 novembre 2015, n. 28229; Cass. pen., sez. II, 27 settembre 2016, n. 52316; Cass. pen., sez. III, 10 maggio 2017, inedita).

Tuttavia, come sopra visto, l’applicazione pratica rimane tuttora difficoltosa e non sembra trovare sollievo nelle parole dei giudici di legittimità.

Del resto, ancora troppo spesso si assiste alla richiesta di misure interdittive nei confronti degli enti al sol fine di determinare l’interruzione del termine breve per essi previsto o a contestazioni frettolose che conducono alla celebrazione di processi interminabili, forti di un “rischio prescrizione” lontanissimo.

Si auspica, dunque, una rivisitazione del regime derogatorio ex d.lgs. 231/2001, rendendo non solo certo il limite entro cui la pretesa punitiva dello Stato debba compiersi, ma anche più effettivo l’accertamento giurisdizionale compiuto e più efficace la pena eventualmente irrogata.

Sotto questo profilo, una proposta certamente ragionevole pareva quella indicata all’art. 125, comma 2, del Progetto di riforma del codice penale redatto dalla Commissione ministeriale presieduta dal Prof. Carlo Federico Grosso, la quale prevedeva che “i termini di prescrizione sono identici a quelli stabiliti per la persona fisica autore del reato”.

Le perplessità relative all’attuale disciplina di cui all’art. 22 d. lgs. 231/2001, qui espresse, rimangono ferme anche alla luce delle modifiche apportate dalla c.d. riforma Bonafede, che – per la persona fisica – ha previsto il blocco della prescrizione dopo il primo grado di giudizio, senza far seguire la novella da una contestuale riforma del processo penale volta a garantirne la ragionevole durata. È indubbio che la disparità di trattamento esistente tra ente e persona fisica non debba essere eliminata attraverso una modifica in malam partem, con conseguente livellamento verso il basso delle garanzie dei cittadini e delle imprese, nonché una perdita di credibilità del sistema e delle istituzioni del Paese. 

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