Con la sentenza in esame, la Suprema Corte si è espressa in merito all’applicazione dell’art. 30, comma 4-bis, L. 23 dicembre 1994, n. 724, che introduce il c.d. “test di operatività” avente ad oggetto le società di comodo. Nel caso di specie, la CTR aveva ritenuto che l’allegazione, da parte della società contribuente, del contratto di affitto di azienda fosse idonea a provare l’impossibilità giuridica di aumentare unilateralmente il canone d’affitto del proprio unico cespite aziendale.
Inoltre, il giudice di seconda istanza negava la necessità della prova dell’esistenza di ragioni oggettive che impedissero la pattuizione di un corrispettivo maggiore.
Per contro, l’Ufficio (ricorrente innanzi al Supremo Collegio) affermava che tale prova potesse essere fornita da parte del contribuente e che, pertanto, la semplice documentazione dell’esistenza del contratto di affitto di azienda non fosse sufficiente al fine di evitare l’applicazione della disposizione di cui all’art. 30, comma 4-bis, cit.
Occorre rammentare che, secondo giurisprudenza costante (Cass. 13 maggio 2015, n. 21358; Cass. ord. N. 26728/2017) della Suprema Corte, vista la finalità, tipica della disposizione in oggetto, di disincentivare la costituzione di società di comodo, è necessario che il contribuente dimostri opportunamente la sussistenza di situazioni oggettive, indipendenti dalla sua volontà, che impediscano la realizzazione di ricavi maggiori rispetto ai minimi fissati dalla disciplina in esame, atteso che il mancato raggiungimento di tali valori minimi costituisce un indice sintomatico del carattere non operativo della società contribuente da cui scaturisce una presunzione relativa di un certo reddito minimo.
La Suprema Corte, richiamando tale giurisprudenza, ha statuito che, per il raggiungimento di scopi eterogenei rispetto alla normale dinamica degli enti collettivi commerciali, la prova fornita nel caso in esame dal contribuente non risulta sufficiente per evitare l’applicazione della normativa in materia di “società di comodo”.