Il Consiglio Nazionale del Notariato ha pubblicato lo Studio n. 26-2023/C, che ricostruisce gli elementi principali della pubblicità sanante prevista dall’art. 2652, c. 1, n. 6, C.c. e propone una interpretazione evolutiva con riferimento al requisito della buona fede.
La fattispecie considerata, da un lato, intende “punire l’inerzia prolungata del dante causa … e premiare l’affidamento … del terzo acquirente“ e, per altro verso, presenta un campo applicativo particolarmente esteso, atteso che vi rientrano numerose cause di nullità e annullabilità e si può dubitare della sua applicazione solo con riguardo alla categoria dell’inefficacia.
Quanto alla seconda prospettiva indicata in avvio, lo Studio si propone di “sottoporre a revisione critica la tesi per cui l’intervento del notaio … valga, in linea generale, a porre in dubbio la buona fede del terzo acquirente“, nel senso che sarebbe possibile “delineare una … equazione per la quale l’informazione fornita dal notaio al cliente in ordine al vizio del titolo di provenienza vale ad escludere di per sé … la buona fede del cliente“, così ostacolandosi l’applicazione della pubblicità sanante ai sensi dell’art. 2652, co. 1, n. 6, c.c.
Tale tesi non può essere accolta poiché restringerebbe l’applicazione del meccanismo in esame nei casi di mancata rilevazione dell’esistenza di un vizio del titolo di acquisto del dante causa o di decisione consapevole da parte del notaio di non informare il cliente per salvarne la buona fede.
Inoltre, l’interpretazione avversata comporterebbe un trattamento identico per ipotesi di invalidità connotate da un diverso disvalore o, quantomeno, condurrebbe a esiti più rigorosi per ipotesi di invalidità meno gravi.
L’interpretazione più ragionevole, dunque, è quella secondo cui l’informazione del notaio circa eventuali vizi del titolo di provenienza dell’acquisto immobiliare non è idonea ad escludere la buona fede dell’avente causa e, per tale via, l’applicazione dell’art. 2652, co. 1, n. 6, c.c.
Dal punto di vista costruttivo, tale conclusione si fonda sul fatto che l’ignoranza di ledere un diritto altrui ex art. 1147, co. 1, c.c. non sarebbe integrata dalla “mera conoscenza del vizio del titolo di provenienza“, non potendosi ritenere che il terzo possa comprendere a fondo il pregiudizio cagionato al dante causa.