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La qualificazione giuridica delle criptovalute: affermazioni sicure e caute diffidenze

8 Marzo 2018

Paolo Iemma e Nadia Cuppini, Gianni, Origoni, Grippo, Cappelli & Partners

Di cosa si parla in questo articolo

1. Premessa – i meccanismi di funzionamento dei bitcoin

Secondo un report della Banca Centrale Europea (BCE) risalente al febbraio 2015 [1], le criptovalute in circolazione sarebbero circa cinquecento. Alcune sono simili tra loro, altre presentano peculiarità che le contraddistinguono in modo significativo.

Tra tutte le criptovalute, quella maggiormente nota e diffusa tra i diversi operatori è sicuramente bitcoin, normalmente intesa come una valuta virtuale basata su un sistema di pagamento peer-to-peer sviluppato nel 2009 come software open source. Convenzionalmente la parola “Bitcoin”, con iniziale maiuscola, viene riferita alla tecnologia e al network sottostante, mentre il termine “bitcoin”, scritto con iniziale minuscola, indica la valuta stessa.

Come evidenziato nella letteratura di riferimento [2], il Bitcoin è un protocollo, cioè un insieme di regole che servono a definire il funzionamento del software utilizzato da un network di computer che dialogano tra loro in maniera paritaria (peer-to-peer), con lo scopo di creare e gestire la valuta bitcoin. Le transazioni sono convalidate dalla tecnologia associata al funzionamento del network, senza il coinvolgimento di soggetti terzi con il ruolo di intermediari.

La struttura, il funzionamento e le motivazioni sottese alla creazione di Bitcoin sono stati illustrati dal suo creatore, Satoshi Nakamoto [3], in occasione della pubblicazione del whitepaper “Bitcoin: A Peer-to-Peer Electronic Cash System” nel 31 ottobre 2008. Di seguito si riporta un passaggio del relativo abstract disponibile in lingua italiana: “Una versione puramente peer-to-peer di denaro elettronico permetterebbe di spedire direttamente pagamenti online da un’entità ad un’altra senza passare tramite un’istituzione finanziaria. Le firme digitali offrono una soluzione parziale al problema, ma i benefici principali sono persi se una terza persona di fiducia è ancora richiesta per prevenire la doppia spesa. Proponiamo una soluzione al problema della doppia spesa mediante l’utilizzo di una rete peer-to-peer”. [4]

Secondo l’ideatore del sistema, Bitcoin avrebbe le potenzialità per supportare lo sviluppo di una valuta elettronica del tutto decentralizzata e indipendente da qualsiasi autorità centrale in grado di influenzarne il valore di scambio in base a scelte di politica economica.

In termini pratici, è possibile affermare che bitcoin condivida con alcune altre valute virtuali le seguenti principali caratteristiche:

  • è creata da soggetti privati in via diffusa, attraverso la c.d. attività di mining;[5]
  • può essere acquistata con moneta tradizionale, mediante accordi con utenti che la possiedono o tramite speciali piattaforme di scambio online;
  • è detenuta dagli utenti in conti elettronici, c.d. wallet, che ne permettono la movimentazione (ad esempio, acquisti presso esercizi commerciali o persone fisiche che accettano le valute virtuali, rimesse in favore di altri utenti ovvero riconversione in moneta legale).

Una particolare forma di utilizzo di bitcoin – e, più in generale, delle criptovalute che si sono sviluppate nel tempo – avviene nell’ambito delle c.d. initial coin offer (ICO), che, in termini generali, rappresentano un modo innovativo per raccogliere fondi dal pubblico utilizzando le valute virtuali.

Le ICO sono anche conosciute come “vendita di monete virtuali” o “vendita di token”. Dal punto di vista pratico, gli emittenti ICO accettano una criptovaluta, come ad esempio bitcoin, in cambio di una moneta virtuale proprietaria o di token correlati all’emittente stesso ovvero a un suo specifico progetto.[6] I token sono normalmente distinti in (i) security token, rappresentativi di diritti economici legati all’andamento dell’iniziativa imprenditoriale (ad esempio, il diritto di partecipare alla distribuzione dei futuri dividendi) e/o di diritti amministrativi (ad esempio, diritti di voto su alcune materie); e (ii) utility token, rappresentativi di diritti diversi, legati alla possibilità di utilizzare il prodotto o il servizio che l’emittente intende realizzare (ad esempio, licenza per l’utilizzo di un software ad esito del processo di sviluppo).

Oltre ad attribuire i suddetti diritti, alcuni token possono anche essere scambiati sul mercato secondario tramite la piattaforma dell’emittente o su altre piattaforme (il che li rende maggiormente “appetibili” per gli investitori in fase di ICO).

Negli ultimi anni l’operatività in criptovalute è cresciuta in modo esponenziale, con un numero di transazioni sempre più elevato.[7] Ciò ha comportato una maggiore attenzione da parte delle autorità di vigilanza a livello internazionale, che hanno cercato di inquadrare il fenomeno mettendo anche in luce i rischi sottesi all’utilizzo delle valute virtuali.

2. Le letture internazionali del fenomeno

Analizzando i diversi comunicati, avvertenze e linee guida emanati dalle autorità di vigilanza di diversi Stati, è possibile osservare come ad oggi non vi sia uniformità di vedute in merito alla qualificazione giuridica di bitcoin e delle altre valute virtuali.

Secondo la Securities and Exchange Commission (SEC) “una valuta virtuale è una rappresentazione digitale di valore che può essere scambiata digitalmente e funziona come mezzo di scambio, unità di conto o riserva di valore. Token o monete virtuali possono rappresentare anche altri diritti. Di conseguenza, in determinati casi, i token o le monete saranno strumenti finanziari e non potranno essere venduti legalmente senza registrazione presso la SEC o in base ad un’esenzione”.[8]

In Germania, la Federal Financial Supervisory Authority(BaFin) ha precisato che, in base alla normativa vigente nell’ordinamento tedesco, “i bitcoin sono strumenti finanziari”.[9]

Per l’Autorità svizzera (Financial Market Supervisory Authority – FINMA), l’operatività in criptovalute e, in particolare, le attività sottese alle ICO possono presentare caratteristiche tali da essere ricondotte nell’ambito di applicazione della normativa in materia di antiriciclaggio, diritto bancario, intermediazione mobiliare o gestione collettiva a seconda dei casi.[10]

Sulla stessa linea si è pronunciata anche la Financial Conduct Authority (FCA) del Regno Unito, secondo cui, al fine di stabile se una ICO rientri nell’ambito della regolamentazione, è necessario effettuare una analisi caso per caso. Secondo tale Autorità “molte ICO cadranno al di fuori dello spazio regolamentato. Tuttavia, a seconda di come sono strutturate, alcune ICO possono comportare investimenti regolamentati e le imprese coinvolte in una ICO possono condurre attività regolamentate. Alcune ICO presentano parallelismi con le offerte pubbliche iniziali (IPO), il collocamento privato di titoli, il crowdfunding o persino gli schemi di investimento collettivo. Alcuni token possono anche essere valori mobiliari e pertanto possono rientrare nel regime del prospetto”.[11]

Altri regolatori hanno invece evidenziato le similitudini delle valute virtuali rispetto a beni fisici come i metalli preziosi, i combustibili e i prodotti agricoli, riconducendo le criptovalute alla nozione di commodities, ossia, di prodotti che possono essere utilizzati a scopo di investimento o speculativo.[12]

Il tema delle criptovalute è stato affrontato anche dalle autorità europee, che hanno cercato di analizzare le valute virtuali al fine di adottare raccomandazioni nei confronti delle competenti autorità di vigilanza nazionali all’interno del mercato unico, valutando anche la necessità o l’opportunità di predisporre regole ad hoc per regolamentare il fenomeno a livello europeo.

In particolare, a seguito di alcune comunicazioni preliminari [13], nel luglio 2014 la European Banking Authority (EBA) ha pubblicato una opinion indirizzata alle istituzioni dell’UE ed alle autorità di vigilanza degli Stati Membri, nella quale ha analizzato le caratteristiche e i rischi connessi alle valute virtuali. In tale opinion, le criptovalute vengono definite come rappresentazioni digitali di valore non emesse da banche centrali o da altre autorità pubbliche, le quali possono essere accettate da persone fisiche o giuridiche come mezzo di pagamento. Nel riconoscere alcuni potenziali benefici delle valute virtuali – come ad esempio, minori costi delle transazioni, velocità e inclusione finanziaria – l’EBA ha sottolineato l’esistenza di numerosi rischi per i consumatori, per l’integrità dei mercati finanziari (come ad esempio in ambito antiriciclaggio e contrasto al finanziamento del terrorismo), per i sistemi di pagamento basati su monete tradizionali e per le autorità di vigilanza.

Sulla stessa linea si è pronunciata anche la BCE nel mese di febbraio 2015, precisando che le valute virtuali possono essere definite come rappresentazioni digitali di valore non emesse da banche centrali, istituti di credito o istituti di moneta elettronica, le quali, in alcune circostanze, possono essere utilizzate come un’alternativa al denaro.[14]

Oltre all’EBA e alla BCE, anche l’Autorità europea dei mercati finanziari (ESMA) ha rilasciato uno statement nel quale ha affermato che “A seconda di come sono strutturate, le ICO potrebbero non rientrare nell’ambito delle regole esistenti e quindi rimanere al di fuori dello spazio regolamentato. Tuttavia, laddove le monete o i token si qualifichino come strumenti finanziari, è probabile che le imprese coinvolte nelle ICO conducano attività di investimento regolamentate, quali collocamento, negoziazione o consulenza su strumenti finanziari o gestione o commercializzazione di fondi di investimento collettivo. Le imprese possono, inoltre, essere coinvolte nell’offerta di valori mobiliari al pubblico”.[15]

3. Gli sviluppi in ambito nazionale

Già nel 2015 la Banca d’Italia definiva le valute virtuali come “rappresentazioni digitali di valore, utilizzate come mezzo di scambio o detenute a scopo di investimento, che possono essere trasferite, archiviate e negoziate elettronicamente”, avvertendo, tuttavia, che l’utilizzo del termine “valuta” veniva utilizzato semplicemente per identificare il fenomeno comunemente noto sotto tale denominazione, non volendo esprimere alcun giudizio sulla natura di tali strumenti.[16]

Sebbene l’Autorità di Vigilanza non abbia voluto prendere posizione sulla qualificazione giuridica delle criptovalute, le indicazioni preliminari dalla stessa fornite sembrano aver preannunciato le due strade poi effettivamente intraprese dalla dottrina al fine di valutarne l’inquadramento nell’ambito dell’ordinamento nazionale: una prima, che tende a valorizzare l’utilizzabilità delle criptovalute come mezzo di pagamento, e una seconda che analizza il fenomeno dalla prospettiva dell’investitore, tenendo conto dello scopo di investimento che può caratterizzare l’operatività in valute virtuali.

3.1 Le classificazioni che valorizzano l’utilizzabilità delle criptovalute come mezzo di scambio

L’indagine circa la qualificazione giuridica delle criptovalute non può che iniziare dalla questione relativa alla possibilità stessa di considerarle alla stregua di “monete”, seppur virtuali. Per alcuni autori, infatti, i bitcoin non sarebbero riconducibili al concetto di “moneta”, poiché non rientrerebbero in alcuna delle ricostruzioni offerte dalle diverse teorie.

Per la teoria statalista, è lo Stato sovrano che crea la moneta sotto la sua autorità, attribuendole il potere liberatorio delle obbligazioni pecuniarie (corso legale) e l’impossibilità per il creditore di rifiutarla come mezzo di pagamento (corso forzoso).

Come pacificamente rilevato in dottrina, i bitcoin non potrebbero essere considerati moneta ai sensi di tale teoria, in quanto strumenti privi del potere liberatorio ipso jure: ad oggi, infatti, nessuno Stato li ha riconosciuti come moneta avente corso legale o forzoso nel proprio ordinamento giuridico. Di conseguenza, un pagamento in bitcoin non avrà la forza liberatoria per il debitore e il creditore potrà sempre rifiutare di ricevere un pagamento in bitcoin, a meno che non abbia precedentemente stabilito con il debitore l’utilizzo di tale strumento.[17]

Nella teoria economica, invece, la moneta viene definita in chiave essenzialmente funzionale. Secondo questa lettura, la moneta assolve tre funzioni principali: (i) mezzo di scambio (può essere utilizzata per l’acquisto di beni e servizi); (ii) riserva di valore (ha l’attitudine ad assicurare la conservazione nel tempo del proprio potere di acquisto, potendo essere oggetto di risparmio per la spendita futura); e (iii) unità di conto (costituisce lo strumento di misurazione del valore dei beni, dei servizi e di altri attivi patrimoniali).

Sul punto, sebbene le opinioni non siano univoche, sembra più convincente la tesi secondo cui i bitcoin sarebbero in grado di assolvere solo parzialmente le suddette funzioni.[18] La funzione di “mezzo di scambio” sarebbe, infatti, ostacolata dal fatto che bitcoin è uno strumento fondato su basi meramente convenzionali e ad oggi ha ancora un basso livello di accettazione tra il pubblico generale. Inoltre, l’alta volatilità dei tassi di cambio renderebbe bitcoin inutilizzabile come “riserva di valore”, anche nel breve termine. Per di più, la bassa accettazione e l’alta volatilità messe insieme finirebbero per rendere i bitcoin inadeguati per l’utilizzo come “unità di conto”, considerata l’impossibilità di fare affidamento sul relativo potere di acquisto.

Allo stato attuale, quindi, nonostante i bitcoin abbiano un’apparenza tecnica molto simile alla moneta scritturale e/o elettronica, non sarebbe possibile qualificarli come “valuta” (poiché non hanno corso legale), né come “moneta” (in quanto non assolvono perfettamente le funzioni richieste dalla teoria economica).[19]

Tale constatazione è stata anche utilizzata da alcuni autori al fine di escludere i bitcoin dall’ambito di applicazione della vigente normativa in materia di servizi di pagamento. In particolare, considerato l’ambito convenzionale in cui opera il sistema Bitcoin, parte della dottrina si è interrogata se lo stesso potesse rientrare nella nozione di “strumento di pagamento” di cui all’art. 1, comma 1, lett. s) del D.lgs. n. 11/2010 [20], riscontrando poi una possibile obiezione nell’”interpretazione corrente della direttiva sui servizi di pagamento che ne limita la portata ai soli pagamenti denominati in moneta legale”.[21]

In effetti, la nozione di “fondi” fornita dalla Payment Services Directive si riferisce esclusivamente alle “banconote e monete, moneta scritturale o moneta elettronica quale definita all’articolo 2, punto 2), della direttiva 2009/110/CE” [22], ossia, categorie che non comprendono i bitcoin e le altre valute virtuali.

In ogni caso, al di là degli aspetti definitori sopra richiamati, l’impossibilità di ricondurre le transazioni denominate in bitcoin all’ambito di applicazione della normativa in materia di servizi di pagamento sembrerebbe comunque legata alle caratteristiche intrinseche del sistema. Come visto, infatti, una delle principali peculiarità di Bitcoin è il fatto che le transazioni vengono convalidate dalla tecnologia associata al funzionamento del network, senza il coinvolgimento di intermediari. In tal senso, non sembrerebbe possibile identificare un soggetto responsabile per l’esecuzione degli ordini di pagamento trasmessi dai partecipanti alla rete cui attribuire il ruolo di “prestatore di servizi di pagamento”.

Proseguendo nella nostra indagine, si può d’altro canto affermare che l’impossibilità di attribuire ai bitcoin lo status di moneta legale escluda anche che gli stessi possano essere considerati alla stregua di “mezzi di pagamento in valuta” ai fini dell’art. 17-bis, comma 1, del D.lgs. n. 141/2010, che riserva l’attività di negoziazione a pronti su detti strumenti ai cambiavalute.

Tale conclusione è anche confermata dall’approccio adottato dal legislatore nazionale, che ha ritenuto necessario introdurre uno specifico comma all’art. 17-bis sopra richiamato per disciplinare l’operatività in valute virtuali, distinte dalle valute legali anche in base al nuovo art. 1, comma 2, lett. qq) del D.lgs. n. 231/2007 (c.d. decreto antiriciclaggio), che le definisce come “la rappresentazione digitale di valore, non emessa da una banca centrale o da un’autorità pubblica, non necessariamente collegata a una valuta avente corso legale, utilizzata come mezzo di scambio per l’acquisto di beni e servizi e trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente”.

In particolare, in base al nuovo comma 8-bis del citato art. 17-bis del D.lgs. n. 141/2010, i prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valute virtuali sono tenuti – in forza di tale nuovo comma – all’iscrizione in una sezione speciale del registro dei cambiavalute.[23] È evidente, quindi, che se il legislatore considerasse i bitcoin come “mezzi di pagamento in valuta”, la negoziazione a pronti degli stessi sarebbe di per sé riservata ai cambiavalute e soggetta, tra l’altro, alla normativa antiriciclaggio applicabile a questi ultimi, senza la necessità di inserire alcuna disposizione ad hoc nel quadro normativo in vigore al fine di regolamentare il fenomeno sotto questo profilo.[24]

Ciò premesso, si deve anche dare atto di alcuni ulteriori tentativi svolti dalla dottrina di qualificare i bitcoin come bene giuridico ex art. 810 c.c. o come documento informatico ai sensi del D.lgs. n. 82/2005 (c.d. Codice dell’Amministrazione Digitale).[25]

Da una parte, è stato rilevato come non sembrerebbe praticabile la via del semplice inserimento dei bitcoin all’interno della categoria dei “beni giuridici”, stante l’impossibilità di un pacifico inquadramento degli stessi sia tra i “beni materiali” (giacché, difatti, non esistono nella realtà, se non come sequenza numerica su di un computer), sia tra i “beni immateriali” (tenuto conto che questi ultimi sono tipici: il diritto sul bene immateriale esiste se esiste una norma che lo riconosce).[26]

D’altro canto, neppure l’assimilazione del bitcoin alla nozione di “documento informatico” ai sensi del Codice dell’Amministrazione Digitale sarebbe fondata, in quanto concernente un concetto del tutto distinto. L’art. 1, co. 1, lett. p) del D.lgs. n. 82/2005 descrive il documento informatico come “la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti”, ossia, come qualcosa che non ha valore in sé, ma solo in collegamento con l’atto, il fatto o il dato giuridicamente rilevante di cui fornisce una rappresentazione. Come evidenziato in dottrina, “nel caso del bitcoin, invece, lo script digitale che lo costituisce non rappresenta alcunché, ma risulta essere un valore e come tale spendibile per la soddisfazione di interessi del proprietario dello stesso”.[27]

3.2 Le scopo di investimento

Sotto una diversa prospettiva, se i tentativi di ricondurre i bitcoin alla nozione di “moneta”, “valuta”, “bene giuridico” o “documento informatico” non sembrano in grado di placare le incertezze dell’interprete, è possibile chiedersi se – al di là dell’eventuale utilizzabilità di tali strumenti come mezzo di scambio – la valorizzazione della distinta finalità di investimento possa portare a risultati diversi.

Costituisce, invero, circostanza ormai nota che molti investitori hanno deciso di acquistare bitcoin non già al fine di utilizzarli come mezzo di pagamento nelle transazioni, bensì in vista della possibilità di lucrare ingenti profitti dalle fluttuazioni del tasso di cambio rispetto alla moneta legale. Tale circostanza ha quindi portato la dottrina a chiedersi se i bitcoin possano essere configurati alla stregua di “strumenti finanziari” o, in una prospettiva più ampia, “prodotti finanziari” ai sensi della vigente normativa in materia di intermediazione mobiliare.

Per quanto riguarda la riconducibilità alla definizione di “strumenti finanziari”, è stato rilevato come sia del tutto risolutivo e dirimente – a prescindere dagli eventuali sforzi interpretativi che si potrebbero svolgere al riguardo [28] – il disposto dell’art. 1, comma 2, del D.lgs. n. 58/1998 (TUF), a tenore del quale “gli strumenti di pagamento” – in quanto più prossimi alla sfera del consumo che non a quella dell’impiego del risparmio in vista di un ritorno economico – “non sono strumenti finanziari”, cosicché bitcoin, al pari della moneta legale, sfuggirebbe a tale categoria e, conseguentemente, alla disciplina legale in materia di prestazione di servizi e attività di investimento.[29]

Tale conclusione, accolta dalla dottrina maggioritaria, sembra tuttavia differire da quanto affermato dalla prima sentenza italiana che ha affrontato la questione giuridica riguardante l’acquisto di valuta virtuale – nella specie, bitcoin – mediante una società promotrice finanziaria di una piattaforma di crowdfunding. In punto di qualificazione del rapporto, i giudici hanno ritenuto che fosse integrata la prestazione di un “servizio finanziario” ai sensi del D.lgs. n. 206/2005 (Codice del Consumo)[30], nella misura in cui il bitcoin sarebbe – ha affermato il Collegio, a sua volta richiamandosi ad un contributo dottrinale sul tema – “uno strumento finanziario utilizzato per compiere una serie di particolari forme di transazioni online costituito da una moneta che può essere coniata da qualunque utente ed è sfruttabile per compiere transazioni, possibili grazie ad un software open source e ad una rete peer-to-peer”.[31]

Sebbene l’interpretazione estensiva della nozione di “servizio finanziario” sia in principio condivisibile – in quanto funzionale all’applicazione delle tutele previste dal Codice del Consumo [32] – l’inquadramento tout court di bitcoin nella categoria degli “strumenti finanziari” solleva molteplici interrogativi, giacché non trova fondamento in alcun percorso logico motivazionale da parte del Tribunale. Allo scopo di assicurare una forma di protezione ai consumatori coinvolti nella vicenda, sembra, infatti, che il Collegio sia giunto troppo frettolosamente alla conclusione che i bitcoin rientrino nella categoria degli “strumenti finanziari”.

Come rilevato in dottrina, la sensazione, in realtà, è che il Giudice non abbia voluto addentrarsi in analisi troppo dettagliate della materia, in attesa di un intervento da parte delle istituzioni internazionali e delle autorità di vigilanza (se non del legislatore), che tuttora faticano ad elaborare una visione organica.[33]

Più plausibile sembrerebbe, invece, la collocazione dei bitcoin nella categoria dei “prodotti finanziari”, identificati dall’art. 1, comma 1, lett. u) del TUF come “gli strumenti finanziari e ogni altra forma di investimento di natura finanziaria…”.

Secondo tale definizione, il genus dei prodotti finanziari è rappresentato dalla somma di due sottocategorie, una relativa agli “strumenti finanziari ”, tendenzialmente “chiusa” e formata dagli strumenti tipizzati dal legislatore nell’art. 1, comma 2, del TUF, e l’altra relativa ad “ogni altra forma di investimento di natura finanziaria”, di carattere “aperto” e destinata ad essere “riempita” di volta in volta attraverso un’opera di interpretazione e analisi del caso concreto.

Come la CONSOB ha già avuto modo di chiarire, rientrano in quest’ultima sottocategoria le proposte di investimento che implicano la compresenza dei seguenti tre elementi: (i) impiego di capitale; (ii) aspettativa di rendimento di natura finanziaria; e (iii) assunzione di un rischio direttamente connesso e correlato all’impiego di capitale. Secondo l’Autorità di Vigilanza, in particolare, si è in presenza di un “investimento di natura finanziaria” ogniqualvolta il risparmiatore impieghi il proprio denaro con un’aspettativa di profitto, mentre si è in presenza di un “investimento di consumo” quando la spesa è finalizzata al godimento del bene, ossia, è volta a trasformare le proprie disponibilità in beni reali idonei a soddisfare in via diretta i bisogni non finanziari del risparmiatore. A parere della CONSOB “per configurare un investimento di natura finanziaria, non è sufficiente che vi sia accrescimento delle disponibilità patrimoniali dell’acquirente (cosa che potrebbe realizzarsi attraverso talune modalità di godimento del bene come ad esempio con la rivendita del diamante) ma è necessario che l’atteso incremento di valore del capitale impiegato (ed il rischio ad esso correlato) sia elemento intrinseco all’operazione stessa”.[34] Ciò che rileva, quindi, è l’effettiva e predeterminata promessa, all’atto dell’instaurazione del rapporto contrattuale, di un rendimento collegato al bene.

Ne deriva che, qualora l’acquisto di bitcoin dovesse assumere la funzione di “investimento di natura finanziaria” nei termini sopra esposti, la causa concreta dell’acquisto (e quindi del rapporto contrattuale instaurato tra il venditore e il compratore della criptovaluta) potrebbe determinare l’attrazione dei bitcoin nella nozione di “prodotto finanziario” ex art. 1, comma 1, lett. u) del TUF, con tutte le conseguenze che ne derivano in punto di disciplina applicabile (in particolare, la normativa in materia di sollecitazione del pubblico risparmio ai sensi degli artt. 94 e ss. del TUF e le regole riguardanti la promozione e il collocamento a distanza di prodotti finanziaria ex art. 32 del TUF e relative disposizioni attuative).[35]

4. Cenni conclusivi

Ad oggi, i tentativi di qualificare giuridicamente i bitcoin e le altre criptovalute, nonostante lodevoli sforzi, non sembrano aver centrato l’obiettivo. Le brevi considerazioni che precedono evidenziano, infatti, le difficoltà dell’interprete dinanzi alla natura ibrida di questi strumenti, che non paiono trovare la propria collocazione sicura in nessuna delle categorie attualmente contemplate dall’ordinamento.

La stessa definizione di “valute virtuali” recentemente introdotta dal legislatore nell’ambito della normativa antiriciclaggio [36] circoscrive il fenomeno esclusivamente alla sua dimensione “valutaria”, senza tenere conto del profilo di “investimento” che caratterizza sempre di più l’operatività in criptovalute, al punto di avvicinarle alla nozione di “prodotto finanziario” ai sensi della vigente normativa in materia di intermediazione mobiliare.

Come sottolineato da alcuni autori, forse l’unica chiave di lettura del fenomeno è quella di riconoscere che bitcoin è uno strumento poliforme e anarchico. La disciplina applicabile alle attività che contemplano l’utilizzo di bitcoin o che si basano su di esso, pertanto, non potrà che essere individuata tenuto conto delle caratteristiche del caso concreto, in attesa di un intervento organico da parte delle competenti istituzioni e autorità di vigilanza in uno sforzo – non nuovo al sistema normativo in materia finanziaria – in cui il normatore “insegue”, con fisiologico ritardo, una realtà in continuo divenire.

 

[1] BCE, “Virtual Currency Schemes – A Further Analysis”, February 2015.

[2] D. Capoti, E. Colacchi, M. Maggioni, Bitcoin Revolution. La moneta digitale alla conquista del mondo, Milano, Ulrico Hoepli Editore, 2015, p. 3 e ss.

[3] Secondo alcune voci non si tratterebbe, in realtà, di un’unica persona, ma di un gruppo di esperti che ha lavorato insieme per la realizzazione di Bitcoin. Recentemente Craig Wright, un imprenditore australiano esperto di tecnologia, ha dichiarato di essere il volto che si nasconde dietro lo pseudonimo di Satoshi Nakamoto. Ad oggi permangono ancora dubbi sulla reale identità dell’ideatore dei bitcoin.

[4] Disponibile all’indirizzo https://bitcoin.org/files/bitcoin-paper/bitcoin_it.pdf.

[5] Il numero totale di bitcoin è fissato in 21 milioni ed è distribuito come “ricompensa” ai c.d. miner (minatori) che attraverso l’utilizzo di software risolvono un difficile problema di calcolo. La ricompensa viene attribuita all’incirca ogni dieci minuti, a seconda del numero totale di miner in competizione. La difficoltà del problema viene regolata, per compensare la variazione del numero di miner in gioco, ogni due settimane (cfr. R. Caetano, Bitcoin: guida all’uso delle criptovalute, Trebaseleghe, Apogeo, 2016, p. 82 e ss.).

[6] Financial Conduct Authority (FCA), Initial Coin Offerings, 12 September 2017, disponibile sul sito istituzionale dell’Autorità in lingua originale: https://www.fca.org.uk/news/statements/initial-coin-offerings.

[7] Secondo un articolo pubblicato sul giornale Il Sole 24 ore, già alla fine di febbraio 2017 Bitcoin aveva circa 500 mila conti individuali attivi, da cui venivano originati 100 mila transazioni al giorno, con un totale accumulato di 198 milioni di operazioni effettuate (A. Plateroni, “Banche centrali, guerra ai Bitcoin”, in Il Sole 24 Ore, 24 febbraio 2017).

[8] US SEC, Investor Bullettin: initial coin offerings, 25 July 2017, disponibile in lingua originale sul sito istituzionale dell’Autorità: https://www.sec.gov/oiea/investor-alerts-and-bulletins/ib_coinofferings. Cfr. anche Statement on Cryptocurrencies and initial Coin Offerings, SEC Chairman Jay Clayton, 11 December 2017, secondo cui “while there are cryptocurrencies that do not appear to be securities, simply calling something a “currency” or a currency-based product does not mean that it is not a security. Before launching a cryptocurrency or a product with its value tied to one or more cryptocurrencies, its promoters must either (1) be able to demonstrate that the currency or product is not a security or (2) comply with applicable registration and other requirements under our securities laws”.

[9] Disponibile sul sito istituzionale dell’Autorità all’indirizzo: https://www.bafin.de/EN/Aufsicht/FinTech/VirtualCurrency/virtual_currency_node_en.html)

[10] FNMA Guidance 04/2017, Regulatory treatment of initial coin offerings.

[11] Financial Conduct Authority(FCA), Initial Coin Offerings, 12 September 2017, disponibile sul sito istituzionale dell’Autorità in lingua originale: https://www.fca.org.uk/news/statements/initial-coin-offerings

[12] Secondo la US Commodity Futures Trading Commission (CFTC) Bitcoin and other virtual currencies are encompassed in the definition and properly defined as commodities” (CFTC Docket No. 15-29, Sep. 17, 2015). Nello stesso senso si è pronunciata laFinancial Services Regulatory Authority di Abu Dhabi, secondo cui from a regulatory perspective, virtual currencies are treated as commodities(Supplementary Guidance – Regulation of Initial Coin/Token Offerings and Virtual Currencies under the Financial Services and Markets Regulations, October 9, 2017).

[13] Cfr., in particolare, EBA, Avvertenza per i consumatori sulle monete virtuali, 12 dicembre 2013, ABE/WRG/2013/01.

[14] BCE, “Virtual Currency Schemes – A Further Analysis”, February 2015. Tale interpretazione è stata recentemente confermata dal presidente della BCE Mario Draghi, che ha anche sottolineato l’enorme volatilità di bitcoin e il fatto che la stessa non sia supportata da nessuna banca centrale, a differenze delle monete tradizionali (cfr. articolo pubblicato sulaRepubblica.it il 13 febbraio 2018 http://www.repubblica.it/economia/2018/02/13/news/bce_askdraghi_bitcoin_crisi-188765722/?ref=RHRS-BH-I0-C6-P6-S1.6-T2.

[15] ESMA alerts firms involved in Initial Coin Offerings (ICOs) to the need to meet relevant regulatory requirements, 13 November 2017, ESMA50-157-828, disponibile in lingua originale al seguente indirizzo: https://www.esma.europa.eu/press-news/esma-news/esma-highlights-ico-risks-investors-and-firms.

[16] Banca d’Italia, Avvertenza sull’utilizzo delle cosiddette “valute virtuali”, 30 gennaio 2015.

[17] R. Bocchini, “Lo sviluppo della moneta virtuale: primi tentativi di inquadramento e disciplina tra prospettive economiche e giuridiche”, in Diritto dell’Informazione e dell’informatica (II), fasc. 1, febbraio 2017, p. 27; N. Vardi, “Criptovalute” e dintorni: alcune considerazioni sulla natura giuridica dei bitcoin”, inDiritto dell’Informazione e dell’informatica (II), fasc. 3, giugno 2015, p. 443; G. Gasparri, “Timidi tentativi giuridici di messa a fuoco del Bitcoin: miraggio monetario crittoanarchico o soluzione tecnologica in cerca di un problema?”, in Diritto dell’Informazione e dell’informatica (Il), fasc. 3, 2015, p. 415; BCE, “Virtual Currency Schemes – A Further Analysis”, February 2015; Banca d’Italia, Avvertenza sull’utilizzo delle cosiddette “valute virtuali”, 30 gennaio 2015.

[18] G. Gasparri, op. cit.. BCE, “Virtual Currency Schemes – A Further Analysis”, February 2015. Contra: N. Vardi, op. cit., secondo cui “In considerazione dell’uso che viene fatto dei Bitcoin (ma anche delle monete virtuali appartenenti agli altri due schemi), ovvero lo scambio tra ‘unità monetaria’ e beni o servizi virtuali o reali si può pacificamente affermare che le prime due tradizionali funzioni della moneta siano rinvenibili anche nelle monete virtuali. Più sorprendente, è invece il fatto che la terza funzione, ovvero quella di riserva di valore, non solo sia riscontrabile, ma sia anche quella che ha destato maggiori preoccupazioni, anche considerando che lo strumento di riserva di valore si avvicina e spesso si sovrappone allo ‘strumento di investimento’, questo sì molto spesso oggetto di minuziosa attenzione da parte dei legislatori”. Nello stesso senso R. Bocchini, op. cit., per il quale “l’esclusione della funzione valutaria [ndr vale a dire, la mancanza del corso legale]non esclude del tutto che si possano rinvenire, nelle monete virtuali, le funzioni che la teoria economica ravvisa in tutte le monete”.

[19] A diverse conclusioni giungono gli autori che condividono una terza tesi, c.d. teoria sociale, secondo cui la moneta sarebbe un fenomeno sociale poiché direttamente riconducibile alla volontà delle parti, libere di stabilire come disciplinare le proprie transazioni. In tal senso, “bitcoin [dovrebbe] considerarsi moneta, seppure non avente corso legale” (M. Passaretta, “Bitcoin: il leading case italiano”, in Banca Borsa Titoli di Credito, fasc. 4, 2014, p. 471).

[20] Definiti come “qualsiasi dispositivo personalizzato e/o insieme di procedure concordate tra l’utente e il prestatore di servizi di pagamento e di cui l’utente si avvale per impartire ordini di pagamento”.

[21] R. Bocchini, op. cit..

[22] Secondo la Corte di Giustizia, “le valute virtuali sono diverse dalla moneta elettronica come definita dalla direttiva 2009/110/CE …, in quanto, a differenza di tale moneta, nel caso delle valute virtuali i fondi non sono espressi nell’unità di calcolo tradizionale, ad esempio in euro, ma nell’unità di calcolo virtuale, ad esempio il ‘bitcoin’” (Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Sez. V, Sent. 22/10/2015, n. 264/14). Al riguardo cfr. anche A. Capogna, et al., Bitcoin: profili giuridici e comparatistici. Analisi e sviluppi futuri di un fenomeno in evoluzione, in “Diritto mercato tecnologia”, 3(2015): 32-74, secondo cui “appare evidente come sia estranea al meccanismo di funzionamento del bitcoin l’esistenza di un terzo garante, che, secondo la definizione di moneta elettronica, a seguito di un deposito di fondi, diviene debitore-garante dell’utilizzatore del dispositivo elettronico stesso”.

[23] Definiti dall’art. 1, comma 2, lett. ff) del D.lgs. n. 231/2007 come “ogni persona fisica o giuridica che fornisce a terzi, a titolo professionale, servizi funzionali all’utilizzo, allo scambio, alla conservazione di valuta e alla loro conversione da ovvero in valute aventi corso legale”.

[24] Al riguardo si rammenta che, ai fini degli obblighi in materia antiriciclaggio, i prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valute virtuali rientrano nella categoria degli “altri operatori non finanziari” di cui al D.lgs. n. 231/2007, “limitatamente allo svolgimento dell’attività di conversione di valute virtuali da ovvero in valute aventi corso forzoso”.

[25] Tra gli altri G. Miccoli, Digital economy: Le multinazionali digitali e i nuovi modelli di business, PM edizioni, 2016, p. 230.

[26] Cfr., tra gli altri, A. Capogna, et al., op. cit.; R. Bocchini, op. cit.; R. Vigorita, F. Ilacqua, “Profili giuridici del Bitcoin: la moneta diventa digitale”, disponibile sul sito http://www.iurisprudentes.it/2016/05/19/profili-giuridici-del-bitcoin-la-moneta-diventa-digitale/.

[27] A. Capogna, et al., op. cit.; Contra: R. Bocchini, op. cit., secondo cui “il Bitcoin potrebbe essere … agevolmente inquadrato alla stessa stregua di un documento informatico – ormai provvisto di un suo valore di uso e di scambio per effetto del discusso consenso sociale all’accettazione quale mezzo di pagamento – recante dati ed informazioni giuridicamente rilevanti e sottoscritto da una progressione di firme elettroniche attestanti, con una sorta di catena di diritti, l’avvenuta validazione della propria altrui legittimazione al perfezionamento di una certa transazione”.

[28] Come noto, gli strumenti finanziari sono tipici ed appartengono ad una categoria tendenzialmente chiusa (i.e., tipizzata dal legislatore e che può essere “allargata” dal MEF secondo quanto previsto dagli artt. 2-bis e 18, comma 5, del TUF). Oltre alla pacifica impossibilità di ricondurre bitcoin nell’alveo dei valori mobiliari, degli strumenti del mercato monetario e delle quote di un organismo di investimento collettivo del risparmio, in questa sede giova rimarcare come sia destinato ad un sicuro insuccesso anche il tentativo di considerarli alla stregua di un derivato finanziario: il bitcoin, infatti, non è un contratto su un attivo sottostante, bensì un sottostante. Come osservato da attenta dottrina, “sono dunque ben ipotizzabili derivati aventi bitcoin come variabile di riferimento (dai contracts for difference alle opzioni binarie, dai currency futures agli swaps su valute), ma il bitcoin viene attratto nell’orbita della regolamentazione dei derivati solo al limitato effetto di relativo underlying asset” (G. Gasparri, op. cit.).

[29] R. Bocchini, op. cit.; N. Vardi, op. cit..

[30] Ai sensi dell’art. 67-ter, comma 1, lett. b) del D.lgs. n. 206/2005 per “servizio finanziario” si intende “qualsiasi servizio di natura bancaria, creditizia, di pagamento, di investimento, di assicurazione o di previdenza individuale”.

[31] Tribunale di Verona, 24 gennaio 2017, n. 195.

[32] Sul punto cfr. C. Tatozzi, “Bitcoin: natura giuridica e disciplina applicabile al contratto di cambio in valuta avente corso legale”, in Ridare.it, 9 agosto 2017.

[33] C. Tatozzi, op. cit..

[34] Comunicazione CONSOB n. DTC/13038246 del 6 maggio 2013. In tal senso cfr. anche le Comunicazioni CONSOB nn. DAL/97006082 del 10 luglio 1997; DIS/98082979 del 22 ottobre 1998; DIS/99006197 del 28 gennaio 1999; DIS/36167 del 12 maggio 2000; DIN/82717 7 novembre 2000; DEM/1043775 del 1 giugno 2001; DTC/13038246 del 6 maggio 2013.

[35] Sul punto cfr. M. Passaretta, op. cit.; G. Gasparri, op. cit..

[36] Art. 1, comma 2, lett. qq) del D.lgs. n. 231/2007.

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