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La responsabilità penale degli amministratori privi di deleghe: luci e ombre su normativa e giurisprudenza

20 Aprile 2020

Leonardo Cammarata e Agata Russo, Arata e associati

Di cosa si parla in questo articolo

1. Premessa

Nell’ambito del diritto penale d’impresa, quello della responsabilità degli amministratori senza delega è un tema che si presenta con costante frequenza ma con oscillazioni interpretative che ne rendono incerti i confini.

Ciò è sicuramente dovuto dall’esigenza di dover bilanciare la pretesa da parte dell’ordinamento di comportamenti doverosi collegati all’assunzione della carica formale con il riconoscimento fattuale di una situazione oggettivamente diversa rispetto a chi in concreto assume ruoli di gestione effettiva all’interno della società.

La fonte della responsabilità penale degli amministratori non operativi è sostanzialmente basata sulla figura del concorso commissivo mediante omissione, derivante dalla posizione di garanzia ex art. 40 cpv. c.p. che impone al destinatario del precetto l’obbligo giuridico di impedire la commissione di un reato.

Senonché, parlando di responsabilità di natura penale, il trasferimento di concetti e paradigmi comportamentali previsti ed esplicitati nell’ambito del diritto civile, ai quali la prassi applicativa deve necessariamente fare riferimento, non è, e non può essere, automatico.

Nonostante lo specifico punto sia stato oggetto di strutturali modifiche dalla riforma dei reati societari della legge n. 6/2003, gli avvocati che si occupano di criminalità white collar sanno che gli uffici di Procura appaiono non sempre disposti a dissociarsi del tutto da un’affermazione di responsabilità degli amministratori non operativi che non sia, in ultima analisi, di mera posizione. Se, infatti, da un lato non sono mancati gli interventi della Suprema Corte che, con riferimento ai consiglieri senza delega, hanno ribadito la necessità di una verifica della conoscenza effettiva o, comunque, della conoscibilità in concreto, degli illeciti dell’organo gestorio, e dunque la ricostruzione della rappresentazione e della volizione di concorrere nei reati commessi da altri, quanto meno nella forma del dolo eventuale – tema che già di per sé si presta a complesse riflessioni non sviluppabili compiutamente in questa sede – dall’altro va riscontrato che, nella prassi applicativa, non sempre, con riferimento al consigliere “semplice” l’imputazione penale fa lo sforzo di individuare quei comportamenti doverosi cui il consigliere di amministrazione avrebbe dovuto attenersi per non incorrere in responsabilità penale, limitandosi spesso a collettive contestazioni a titolo di concorso.

2. La (limitata) evoluzione della responsabilità dell’amministratore non operativo: l’obbligo di garanzia

Come accennato, un deciso cambio di rotta è determinato dall’entrata in vigore della legge n. 6/2003.

Rispetto al regime previgente, è stato rimosso per gli amministratori privi di deleghe il generale obbligo di vigilanza sulle gestione societaria, il quale in astratto estendeva la responsabilità per qualsivoglia condotta illecita commessa nell’esercizio dell’attività, con il rischio della costruzione di un addebito da mera posizione, che in concreto si traduceva nella necessità del consigliere non delegato incolpato di dover dimostrare di non avere potuto impedire la condotta criminale degli esecutivi, con un’evidente inversione dell’onere probatorio.

La riforma della disciplina delle società ha infatti modificato in modo sostanziale il quadro normativo dei doveri dei soggetti preposti alla gestione della società, regolando la responsabilità dell’amministratore destinatario di delega ed introducendo per i consiglieri il criterio direttivo dell’“agire informato”.

Vige oggi, in capo al Presidente del Consiglio di Amministrazione e agli Amministratori delegati, l’obbligo di dare complete informazioni sul generale andamento della gestione societaria e sulla sua prevedibile evoluzione, nonché sulle operazioni di maggior rilievo effettuate dalla società o dalle sue controllate. Con tali esplicitazioni, sotto tale profilo, la riforma ha mutato radicalmente anche gli oneri e le responsabilità degli amministratori privi di deleghe.[1]

Il nuovo art. 2392, co. II, c.c. su cui si fonda, ad oggi, in combinato disposto con l’art. 40 cpv c.p., la responsabilità degli amministratori non operativi, reca: ‘[i]n ogni caso gli amministratori, fermo quanto disposto dal comma terzo dell’articolo 2381, sono solidalmente responsabili se, essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli, non hanno fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose’.

Tra i dichiarati intenti della riforma, pertanto, vi era stato proprio quello di scongiurare le gravi criticità di cui si è fatto prima cenno, vale a dire che, in capo agli amministratori non operativi, si potessero addebitare rilievi sulla base di quella che, nei fatti, risultava essere nient’altro che una responsabilità oggettiva.

Sul punto, è la stessa relazione di accompagnamento alla riforma ad esplicitare ‘[l]’eliminazione dal precedente secondo comma dell’art. 2392 dell’obbligo di vigilanza sul generale andamento della gestione, sostituita da specifici obblighi ben individuati […] tende, pur conservando la responsabilità solidale, ad evitare sue indebite estensioni che, soprattutto nell’esperienza delle azioni esperite da procedure concorsuali, finiva per trasformarla in una responsabilità sostanzialmente oggettiva, allontanando le persone più consapevoli dall’accettare o mantenere incarichi in società o in situazioni in cui il rischio di una procedura concorsuale le esponeva a responsabilità praticamente inevitabili.’ [2]

La giurisprudenza penale post riforma ha in effetti colto quanto paventato dal Legislatore circa il pericolo di un riconoscimento di responsabilità su basi meramente formali, con una serie di pronunce in cui veniva sottolineata la necessità da parte dell’Accusa di individuare in modo specifico gli elementi di concorso nel reato da parte del consigliere, sia in tema di contributo causale che in tema di rappresentazione dell’illecito. [3] Lo sforzo argomentativo è stato quello di delineare un definito e specifico standard di diligenza, basato sulla posizione e sul ruolo effettivamente ricoperto e, dunque in concreto, abbandonare il vecchio tema del generico dovere di vigilanza sulla gestione per accedere a una più corretta valutazione della condotta degli amministratori, sulla base del già ricordato principio dell’ “agire informato”. [4]

Più recentemente si è iniziato a elaborare e sviluppare il tema relativo alla presenza dei cosiddetti “segnali di allarme”, richiedendo, come requisito soggettivo minimo per l’ascrizione della responsabilità omissiva impropria, la rappresentazione di chiari indici rivelatori di mala gestio, la cui presenza avrebbe dovuto indurre il singolo amministratore – sulla base delle proprie competenze e secondo il proprio ruolo – ad intervenire in prevenzione per impedire la causazione di illeciti.

La giurisprudenza più rigorosa si è altresì preoccupata di puntualizzare che occorresse in ogni caso che tali segnali di allarme fossero specificatamente riferibili proprio all’evento illecito da impedire, e che fossero conosciuti dal consigliere, e quindi non solo da lui astrattamente conoscibili (così Cass. pen. Sez. V, 4 maggio 2007, n. 23383)[5].

A questa impostazione decisamente garantista, e sicuramente più aderente ai nuovi principi della riforma di diritto societario, non è però sempre seguita una coerente e costante evoluzione giurisprudenziale nella medesima direzione.

Tra i più lampanti scostamenti da tale impostazione, la relativamente recente sentenza della Suprema Corte sul filone principale del Crac Parmalat, la quale ha ritenuto di affrontare il tema della valutazione dell’elemento soggettivo, attraverso una sostanziale equiparazione del concetto di effettiva conoscenza dei segnali d’allarme dai quali si dovrebbe cogliere l’attività di mala gestio, a quello della astratta conoscibilità degli stessi. [6] Un deciso revirement rispetto ai ricordati precedenti, sicuramente più rigorosi in ordine alla necessità di individuare invece gli elementi necessari che indicativi della volontà del consigliere non operativo di aderire alla condotta criminosa altrui. [7]

3. La lacuna sistemica sul dovere impeditivo derivante dall’obbligo di garanzia

A complicare un quadro già di non semplice decifrazione, si devono aggiungere le non certo minori problematiche legate all’assenza dell’elencazione esplicita dei doveri impeditivi gravanti sugli amministratori privi di deleghe, e dunque della chiara individuazione della condotta da loro concretamente esigibile.

Ancora una volta si è costretti a rimandare alla normativa societaria, laddove all’art. 2392 co. II c.c., su tale aspetto, si individua la responsabilità per coloro che, una volta conosciuta la sussistenza di fatti pregiudizievoli per l’ente ‘non hanno fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose’.

È evidente come, sotto il profilo penalistico, l’inerzia di cui all’art. 2392 c.c., per assumere rilievo ai sensi dell’art. 40 cpv. c.p., debba essere stata condizione necessaria per il verificarsi del fatto criminoso posto in essere dai delegati, dovendosi pertanto acquisire la dimostrazione che la condotta omissiva sia stata in concreto idonea a causare o agevolare la realizzazione dell’illecito. [8] Non solo.

Sarà altrettanto necessario dimostrare che il soggetto – l’amministratore privo di deleghe – a carico del quale è posto l’obbligo giuridico di impedire l’evento delittuoso, sia effettivamente stato messo in condizione di farlo (o di attenuarne le conseguenze).

E dunque: qual è il contenuto di tale obbligo impeditivo gravante sugli amministratori non operativi? Si tratta di questione di non facile risposta, questione resa complessa dalla mancanza di disposizioni codicistiche che tassativamente ne elenchino gli obblighi e i poteri. L’art. 2392 c.c. implica sicuramente l’esistenza di una posizione di garanzia e dunque di un correlato obbligo giuridico di impedire l’evento, ma non individua con esattezza i comportamenti che possono e che devono essere posti in essere dagli amministratori per impedire il compimento dei reati commessi nella gestione dell’impresa. Questo pone indubbiamente problemi rispetto ai principi di tassatività e frammentarietà connessi al precetto penale che invece dovrebbero ispirare la tecnica di formulazione delle fattispecie criminose, per consentire al destinatario la possibilità di confrontarsi con la puntuale descrizione del comportamento vietato dall’ordinamento. [9]

Anche nel trattare della responsabilità omissiva, la dottrina dominante ritiene che perché l’autore risponda a titolo di dolo, non è sufficiente che lo stesso sia a conoscenza dei presupposti del dovere di attivarsi, ma anche che sia consapevole della “possibilità di agire” nella direzione voluta dalla norma: senza tale ultimo elemento, infatti, l’omissione non può mai esprimere il significato di una risoluzione, di una scelta tra le due o più possibilità di una condotta.

Risulta evidente nel contesto che qui interessa – nella totale assenza di un’esplicitazione delle condotte alle quali risulterebbe tenuto l’amministratore non operativo per non incorrere in sanzioni penali – quanto possa essere problematica la trasposizione sic et sempliciter dei crismi civilistici in ambito penale.

La prima lacuna che salta agli occhi è senz’altro la mancata valutazione, finora, degli effettivi limiti cui è sottoposto il consigliere privo di delega e quindi al suo potere impeditivo in concreto. [10]

Assumendo che uno tra i richiesti atteggiamenti doverosi – elaborati da qualche sporadica pronuncia in giurisprudenza, [11] nel silenzionormativo – vi sia quella di impugnare la delibera assembleare, appare opportuno rilevare un punto pacifico in diritto societario. La collegialità prevista in un Consiglio di Amministrazione implica che l’impugnazione della delibera necessita di ‘una valutazione dell’esistenza dei presupposti e dell’opportunità di assumere l’iniziativa nell’interesse della società che non può essere lasciata al giudizio individuale dei singoli amministratori’. [12]

In buona sostanza, il singolo consigliere – a maggior ragione quello non operativo – non ha il potere assoluto di intraprendere iniziative tali da poter impedire un evento ai danni della società.

Appare evidente il limite applicativo anche del secondo strumento di cui dispongono i consiglieri, vale a dire l’art. 2409 c.c., di denuncia al Tribunale tramite il Pubblico Ministero. Tale possibilità in ogni caso esclude l’intervento della Procura in tutti i casi in cui le società non facciano ricorso al mercato del capitale del rischio e impone l’intervento ai soli casi di “grave irregolarità”.

Non solo quindi, il vincolo della collegialità pone un serio limite all’attività autonoma e indipendente del singolo consigliere, ma la stessa riforma dei reati societari ha fortemente ridimensionato i possibili interventi del Pubblico Ministero. Non si può peraltro non fare menzione del fatto che, in linea generale, i consiglieri senza delega non possano essere ritenuti responsabili semplicemente per omessa denuncia di reato degli organi amministrativi, non essendovi una specifica previsione normativa in tal senso, essendo l’obbligo generale di denuncia riservato a coloro che rivestono la posizione di pubblici ufficiali o impiegati di un pubblico servizio (ex  artt. 361 e 362 c.p.p.).

Né in questo contesto si può chiedere troppo aiuto in via giurisprudenziale dal momento che, in considerazione del vuoto normativo, non può essere in grado di delineare con precisione gli ambiti applicativi.Così viene nuovamente puntualizzato che la responsabilità discendente dall’art. 40 cpv. c.p. per condotte connotate da volontarietà e la configurazione della “posizione di garanzia” che qualifica il ruolo dell’amministratore necessita di due momenti complementari ed essenziali. La rappresentazione dell’evento illecito e, successivamente, l’omissione consapevole nell’impedirlo.‘Se sono da intendere solidalmente responsabili al pari di chi abbia cagionato un evento, coloro che “non hanno fatto quanto potevano” per impedirlo, occorre che quei poteri siano ben determinati, ed il loro esercizio sia normativamente disciplinato in guisa tale da poterne ricavare la certezza che, laddove esercitati davvero, l’evento sarebbe stato scongiurato: il che non sembra essere nella legislazione vigente’.[13] [14]

Se tale ultima pronuncia mette in evidenza proprio la problematica legata alla mancata esplicitazione dei comportamenti doverosi che devono essere tenuti dagli amministratori non operativi per non incorrere in responsabilità per omesso impedimento di fatto illecito, a oggi non sembra esservi stato alcun intervento chiarificatore sul punto con le conseguenti già più volte ricordate oscillazioni interpretative.

Anche una recentissima pronuncia del 2018, n. 14783, infatti, se da un lato appare risoluta nel delineare un requisito soggettivo minimo in termini di volontaria accettazione di mancato intervento per scongiurare il danno alla società, dall’altro non si inoltra nell’individuazione di cosa consista in concreto l’obbligo giuridico di intervenire.

Inoltre. Per riconoscere la responsabilità penale da posizione di garanzia degli amministratori non operativi che abbiano conosciuto i segnali di allarme e di pericolo per la società, è necessaria una effettiva e concreta verifica della loro posizione da parte del giudice, il quale ha il dovere di controllare se le acquisizioni istruttorie consentano un addebito di responsabilità a titolo di dolo. In tal senso altre pronunce richiedono la ‘volontà – nella forma del dolo indiretto – di non attivarsi per scongiurare detto evento’ pregiudizievole per la società. [15] Per quanto, infatti, la carica assunta dagli amministratori non operativi comporti l’assunzione di doveri di vigilanza e di controllo, il mancato rispetto di tali obblighi per negligenza non può sconfinare automaticamente in un addebito a titolo di dolo, essendo infatti, di per sé la colpa incompatibile con la volontarietà dell’evento.

Come, poi, il giudice possa e debba valutare il dovere di agire in presenza di una tale lacuna sistemica senza operare pericolose deviazioni rispetto al principio di legalità e di certezza del diritto, è questione di non facile soluzione.

Da ultimo, vale sicuramente la pena di commentare la Cassazione Parmalat, già in questa sede richiamata in chiave critica, nella parte in cui ha rilevato come ‘ai fini della configurabilità del reato di bancarotta semplice, l’inerzia  del singolo amministratore, quand’anche da sola insufficiente ad impedire l’evento pregiudizievole, nell’unirsi all’identico atteggiamento omissivo – sia esso doloso o colposo – degli altri componenti dell’organo amministrativo, acquista efficacia causale in quanto l’idoneità dell’opposizione del singolo a impedire l’evento deve essere considerata non isolatamente, ma nella sua attitudine a rompere il silenzio e a sollecitare con il richiamo  agli obblighi  imposti dalla  legge ed ai principi di corretta amministrazione, un analogo atteggiamento degli altri amministratori.’ [16]

Se male non si è interpretato il significato della sentenza, con questa pronuncia la Corte sembrerebbe ritenere sostanzialmente irrilevanti sia l’atteggiamento psicologico dell’autore, che può essere doloso o colposo (!), e sia l’effettivo contributo causale della specifica condotta omissiva del consigliere senza delega, condotta che – una volta posta in essere – si unisce all’identico (?) atteggiamento omissivo degli altri amministratori.

Pare a chi scrive che tale pronuncia non faccia che riprodurre in modo raffinatamente argomentato lo schema della responsabilità da posizione; non importa se il soggetto si fosse rappresentato l’illecito altrui, e neppure conta se in concreto egli avrebbe potuto impedire il reato: ciò che è sufficiente per la condanna è che costui non abbia dissuaso gli autori dell’illecito, sollecitandoli a rispettare gli obblighi imposti dalla legge.

Né è chiaro poi se una riscontrabile presa di distanza dalla condotta dei manager delegati, quale ad esempio il voto contrario in sede di delibera assembleare, ma non accompagnata dalla moral suasion agli amministratori di non compiere atti illeciti, idonea secondo l’estensore a interrompere il nesso di causalità, possa in qualche modo fare andare il soggetto esente da responsabilità.

4. Riflessioni conclusive

Il riferimento alla posizione di garanzia del consigliere non operativo ai sensi dell’art. 40 cpv. c.p., dovrebbe presupporre che, ai fini dell’accertamento della responsabilità per omesso impedimento del reato, venga compiuta una valutazione in concreto della posizione e delle facoltà del garante e che sia accertato il nesso eziologico tra la sua inerzia e l’avvenimento dannoso per la società.

Ed è del tutto evidente che una siffatta analisi appare sicuramente problematica se contestualizzata in un ordinamento che non definisce in modo netto quali siano gli obblighi imposti all’amministratore, così come evidenziato dalle voci di chi chiede un intervento legislativo in tal senso.

Il problema della posizione di garanzia del consigliere senza deleghe è, infatti, il suo sostanziale rinvio a norme civilistiche le quali, per loro natura, non sono scritte per soddisfare il canone di tassatività richiesto dalla norma penale.

Nonostante lo sforzo operato da parte della giurisprudenza di individuare i cosiddetti segnali d’allarme nella gestione societaria, indici rivelatori di situazioni di patologia, e all’esplicito rifiuto di forme di responsabilità oggettiva in capo agli amministratori deleganti, troppo spesso l’identificazione delle condotte esigibili, dalle quali necessariamente dipende la decisione di assoluzione o di condanna, viene lasciata alla valutazione dell’interprete.

 

[1] Così, inter alia, Cass. pen. 4 maggio 2007, n. 23383 – Bipop Carire.

[2] cfr. Relazione di accompagnamento alla L. 6/2003, ¶ 4.

[3] Si sono susseguite importanti pronunce in ambito penale – si ricorda per esempio il caso Bipop Carire, Cass. pen. Sez. V, 4 maggio 2007 n. 23383; il caso Parmalat (Milano), Cass. pen., 20 luglio 2011 n. 28932; il caso Parmalat (Parma), Trib. Parma 3 marzo 2011 e Corte d’Appello di Bologna del 23 aprile 2012 – con le quali è stata esclusa la responsabilità penale degli amministratori non esecutivi in quanto i segnali di allarme non erano tali da dimostrare una effettiva conoscenza dell’illecito.

[4] È peraltro lo stesso nuovo art. 2392 co. II c.c. a richiamare l’art. 2381 co. III c.c. ‘ll consiglio di amministrazione determina il contenuto, i limiti e le eventuali modalità di esercizio della delega [2405, 2421 n. 6]; può sempre impartire direttive agli organi delegati e avocare a sé operazioni rientranti nella delega. Sulla base delle informazioni ricevute valuta l’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società; quando elaborati, esamina i piani strategici, industriali e finanziari della società; valuta, sulla base della relazione degli organi delegati,il generale andamento della gestione.

[5] Si tratta del noto caso inerente alla Bipop Carire (già sub 1).

[6] Cass. Pen. Sez. V, 7 marzo 2014, n. 32532.

[7] Per un’approfondita analisi di tali passaggi nella sentenza della Suprema Corte in commento, v. Nicola Menardo, La responsabilità penale omissiva degli amministratori privi di delega, su Diritto Penale Contemporaneo 19 novembre 2015, consultabile al <https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/upload/1447845520MENARDO_2015a.pdf>

[8] Di una valutazione con il metodo e lo standard probatorio indicato dalle Sezioni Unite Franzese parla Nicola Menardo, La responsabilità penale omissiva degli amministratori privi di delega, ut supra.

[9] Sul principio di tassatività e sul divieto di analogia in materia penale, v. ampiamente Giovanni Fiandaca – Enzo Musco, Diritto Penale Parte Generale, sesta edizione, Zanichelli Editore.

[10] Si ricordi peraltro che ‘[l]’attività dell’amministratore si esaurisce nel voto e pertanto egli non può essere ritenuto responsabile per non aver individualmente preso provvedimenti, perché non ha il potere di farlo (da Campobasso, Diritto Commerciale. Diritto delle Società, Torino 2002).

[11] Per citarne una, peraltro resa con riferimento al settore bancario, nel quale vigono standard di diligenza più elevati rispetto ad altri settori, Cass. civ. sez. I n. 224848/2015:‘[s]petta al soggetto il quale afferma la responsabilità allegare e provare, a fronte dell’inerzia dei consiglieri non delegati, l’esistenza di segnali d’allarme (anche impliciti nelle anomale condotte gestorie) che avrebbero dovuto indurli ad esigere un supplemento di informazioni o ad attivarsi in altro modo (con la richiesta di convocazione del Consiglio di Amministrazione rivolta al Presidente, il sollecito alla revoca della deliberazione illegittima od alla avocazione dei poteri, l’invio di richieste per iscritto all’organo  delegato di desistere dall’attività dannosa, l’impugnazione della deliberazione ex art. 2391 c.c., la segnalazione al p.m. o all’autorità di vigilanza e così via); assolto tale dovere, è onere degli amministratori provare di aver tenuto la condotta attiva dovuta o la causa esterna, che abbia reso non percepibili quei segnali o impossibile qualsiasi condotta attiva mirante a scongiurare il danno.’

[12] Cfr. V. Calandra Bonaura, L’Amministrazione della società per azioni nel sistema tradizionale, Giappichelli 2019, p. 156; così anche l’orientamento dominante in giurisprudenza (Cass. 5 giugno 2003, n. 8992; Trib. Milano, 8 febbraio 2006; App. Milano, 26 giugno 1987; Trib. Milano 30 settembre 1985).

[13] Cass. pen. Sez. V, 5 settembre 2012, n. 23000.

[14] Nel caso di specie, la Suprema Corte aveva escluso la responsabilità degli amministratori non operativi che avevano agito attivamente attraverso il voto favorevole alle delibere assembleari contestate, sulla base della non evidenza dei segnali di allarme.

[15] Cosi Cass. pen. Sez. V, 19 giugno 2018, n. 42568; Cass. pen. Sez. V, 14783/2018.

[16] Cass. Pen. Sez. V, n. 32352/2014 (già sub 6).

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