«La via della schiavitù» è il titolo del più importante libro di Friedrich von Hayek, premio Nobel per l’economia nel 1974 e tra i maggiori teorici del liberalismo economico. Richiamo questo titolo perché calza a pennello alla situazione del nostro paese, che al grido“debito, debito, debito!” sta scivolando nella schiavitù.
Il debito, se di entità spropositata rispetto alla ricchezza prodotta e prolungato nel tempo, rende schiavi. Un paese schiavo in economia non ha futuro di libertà in nessun altro campo. È la democrazia a diventare un sistema di cartapesta. Il doppio rischio, oggi, è che la grande depressione trasformi lo stato in decisore onnipresente, così in economia, come nella vita sociale e in quella individuale, e che consenta a forze esterne di controllare – ancor più di quanto non facciano adesso – lo Stato stesso, il sistema produttivo e quello di finanza pubblica e poi giù giù, fino ai cittadini.
Fermare il vento con le mani non è possibile, lo sappiamo, come non è possibile fronteggiare la depressione economica senza un iniziale indebitamento. Non importa essere keynesiani per accettare questa realtà. La cessione di una fetta di sovranità e di parte delle libertà, è perciò condizione di sopravvivenza.
La strada del debito, però, non può essere la sola percorribile neanche nell’immediato. Di certo non può esserlo a medio termine, perché il debito, quando eccessivo e utilizzato specialmente per finanziare spese assistenziali o improduttive, non è in grado né di ripagarsi da solo, né di garantire un incremento della domanda interna sufficiente per stabilizzare la crescita, che nell’immediato, con l’immissione di debito nel circuito dell’economia, può anche esserci.
Gli effetti negativi che si produssero sulle economie dei paesi occidentali, ad iniziare dagli Stati Uniti d’America, che negli anni sessanta e settanta del novecento seguirono la politica dell’indebitamento, sono la dimostrazione storica dell’errore di fondo che accompagnò quelle politiche. L’eccesso di debito prolungato nel tempo è figlio di un’ideologia distorta, che neppure Keynes riteneva di poter accettare completamente. Distorta perché vede nel moltiplicatore della spesa la soluzione magica ad ogni problema. Così non è per evidenza storica.
Di qui la necessità di varare immediatamente quattro grandi riforme strutturali.
La prima: riqualificare e ridurre la spesa pubblica, rovesciandone – questo è il punto – la destinazione in modo da incentivare offerta e produttività. Questa scelta comporta sia l’avvio di una revisione graduale del modello di stato sociale che finora ha condizionato entità e qualità della spesa; sia destinare una parte sempre più consistente della spesa stessa a investimenti, proprio, sulla produttività. Detto in termini che mi auguro inequivoci, implica seguire la strada opposta a quella battuta negli ultimi anni, quella degli aiuti a “pioggia” alla domanda. Politiche simili, d’altra parte, si sono tradotte quasi sempre in sperpero di denaro, per di più preso a prestito, senza ottenere crescita dei consumi e dunque del prodotto interno lordo, crescita, invece, che proprio quel deficit avrebbe dovuto generare.
La seconda: fare dei tributi un pungolo, ossia impiantare, parallelamente al cambio di paradigma nella spesa, un sistema tributario concretamente nuovo. Qual che si potrebbe ragionevolmente fare in tempi rapidi è introdurre, per la maggior parte di imprenditori e professionisti, la determinazione anticipata del reddito da dichiarare, in contraddittorio col singolo, così da semplificare radicalmente l’intero procedimento tributario e ridurre drasticamente i costi per tutti gli attori del procedimento medesimo, ed estendere il sistema della compliance per le aziende di grandi dimensioni; ridurre l’aliquota dell’imposta societaria e rivedere la scala delle aliquote e il numero degli scaglioni di reddito dell’imposta personale; contemplare regimi di tassazione differenziata in seno alla categoria del reddito d’impresa, così da perseguire politiche economiche in settori strategici per lo sviluppo del paese; eliminare l’IRAP e molti tributi locali minori; riscrivere la disciplina sulle sanzioni, sul processo tributario e su quello penale-tributario, sugli obblighi documentali e sulla riscossione. Rivedere, finalmente, la disciplina sui contributi pensionistici per imprenditori e professionisti.
E poi prevedere forti incentivi fiscali agli investimenti produttivi, alla ricerca e all’innovazione. La scelta di sostenere offerta e produttività, infatti, deve essere incoraggiata anche con una politica di incentivi agli investimenti in economia reale del denaro privato finora depositato sui conti correnti bancari, assicurando agli investitori sia l’esenzione dalle imposte dei futuri guadagni, sia interessi attivi sullo stesso denaro impiegato. Certo, queste scelte potrebbero sottrarre al sistema bancario parte della liquidità e costringerlo a incrementare i tassi di rendimento sui depositi. Ma è molto probabile che i benefici che politiche siffatte determinerebbero sull’economia reale finirebbero per riversarsi sul sistema bancario stesso, che alla fine potrebbe ottenere vantaggi significativi.
La terza: avviare l’ammodernamento del paese con opere in infrastrutture, investimenti nella tutela del territorio, nel settore energetico, in quelli dell’istruzione, dell’università e ricerca, nell’innovazione tecnologica, nella sanità, nell’edilizia abitativa. Una linea di finanziamento che, in questo contesto, potrebbe concorrere con la fiscalità generale e coi fondi strutturali europei, potrebbe essere quella dei “titoli di scopo”, ossia titoli del debito pubblico orientati a finanziarie esclusivamente singole opere o ricerche, con rendimenti esenti da tassazione.
La quarta: sminare il terreno imprenditoriale e gli investimenti pubblici dalle pastoie burocratiche e dalle ghigliottine giudiziarie. Per arrivare a risultati significativi non sono più sufficienti singoli ritocchi normativi, piccole modifiche qua e là. Sono indispensabili, piuttosto, la riscrittura del codice degli appalti, delle regole sul processo cautelare amministrativo, la riscrittura di alcuni reati, ad iniziare dall’abuso d’ufficio per arrivare alla corruzione e al reato di traffico di influenze. E finalmente rivedere l’impianto della “legge Bassanini” sulla pubblica amministrazione e alcune forme di responsabilità erariale, che di fatto ingessano grandemente l’azione degli enti territoriali e di quelli gestori delle risorse pubbliche per gli investimenti infrastrutturali.
«Non è il paese che sognavo», scrisse Carlo Azeglio Ciampi in un libro di memorie. Tuttavia, come sottolineò lo stesso Presidente, se non si vuole assistere inerti allo «strazio leopardiano delle aspettative», non possiamo che tornare a progettare il futuro dell’Italia con la certezza che alla sera – ogni sera – avremo fatto un passo avanti.