Il tema in questione è uno dei più delicati posti dai vari interventi del legislatore, che negli anni passati ha introdotto nuove figure di tutela degli atti compiuti dal debitore in crisi e dai suoi creditori, nel caso di successivo fallimento del debitore stesso.
Prima di entrare nel merito, vale la pena di ricordare qual era la situazione che si delineava in passato, antecedentemente all’introduzione delle modifiche all’art. 67 Legge Fallimentare.
Quando emergevano i segni della crisi aziendale, i soggetti coinvolti, fossero essi il debitore o i creditori (in quest’ultimo caso, in particolar modo, quelli bancari), si trovavano nella situazione di vedere tutte le proprie azioni soggette a profondo scrutinio in sede revocatoria (e, talvolta, penale), nel caso di susseguente fallimento del debitore, con pochi strumenti empirici di difesa. Questo, sia a causa della formulazione ampia della norma, in termini temporali (periodo sospetto) ed in termini di atti oggetto di possibile revocatoria fallimentare, sia a causa di un’applicazione giurisprudenziale che, nel corso degli anni, era divenuta severa per i creditori.
Ad esempio, accadeva che la conoscenza dello stato di insolvenza del debitore fosse dimostrata (o non fosse negabile la mancata conoscenza) per tabulas producendo la corrispondenza relativa alle negoziazioni tra impresa e creditori per ristrutturare il debito dell’impresa in crisi aziendale e gli accordi stipulati ed eseguiti tra le parti a questo riguardo. E’ appena il caso di ricordare che la circostanza aveva dato anche origine a dibattiti, in parte ancora attuali, sulle differenze tra crisi, insolvenza c.d. “reversibile” ed “insolvenza irreversibile”. Il periodo lungo (fino a 24 mesi) e l’ampia interpretazione che forniva la Giurisprudenza sulle fattispecie fulminate dall’art. 67 L.F. facevano il resto.
Il paradosso era che, a volte, il tentativo dell’impresa e dei creditori di perseguire una strada di risanamento dell’impresa in crisi, con tutti gli strumenti della prassi aziendale e finanziaria (dismissioni, nuova finanza, accolli, moratorie, e via discorrendo), poteva rivelarsi un boomerang in caso di insuccesso dell’esperimento di risanamento del debitore e suo successivo fallimento. Ogni atto diveniva facilmente materia di revocatoria fallimentare.
A ciò si aggiunga il fatto che le vicende fallimentari potevano fornire anche lo spunto per indagini penali in relazione a presunte situazioni di bancarotta preferenziale, per i pagamenti eseguiti nell’ambito dei tentativi di “salvataggio” o le nuove garanzie, oppure di bancarotta semplice per ritardato fallimento, nei casi in cui il PM ravvisasse un aggravamento del dissesto a fronte di una situazione ritenuta irreversibile.
Per chiudere questo quadro, vi furono anche alcune pronunzie di merito in importanti casi di insolvenza [1] che introdussero l’ “abusiva concessione del credito”, quale fattispecie di responsabilità civile extracontrattuale dei creditori bancari nei confronti del resto del ceto creditorio [2].
Una delle difese utilizzate dai crisis manager e dai creditori bancari nei contenziosi civili (in realtà più nelle contestazioni di abusiva concessione del credito, stante quanto riferito a proposito della revocatoria) e nelle indagini penali, era costituita dal fatto che gli interventi concordati da debitore e banche, e soggetti allo scrutinio di giudici e PM in caso di fallimento dell’impresa, erano spesso il frutto di articolati ed attendibili business plan, predisposti dall’impresa stessa con l’ausilio di preparati consulenti finanziari e, non di rado, sottoposti ad un vaglio, se non addirittura ad una negoziazione, da parte del ceto bancario, con il sostegno talvolta di altri consulenti finanziari. Nella sostanza si voleva dimostrare che gli interventi compiuti da impresa e creditori si giustificavano alla luce di una prospettiva attendibile di risanamento dell’impresa in crisi; ciò avrebbe escluso la possibilità di poter configurare un comportamento meramente dilatorio, con le conseguenti responsabilità, in capo ad amministratori dell’impresa fallita e creditori bancari.
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L’introduzione nel 2005 del c.d. “piano di risanamento asseverato” al comma terzo, lettera “d” dell’art. 67 L.F., con i successivi “aggiustamenti” del 2007 e del 2012, si colloca quindi nella scia dell’anzidetta prassi, ampliandone la portata ed elevandola (a nostro avviso meritoriamente) a espresso strumento di “esenzione” dall’azione revocatoria fallimentare, oltre che di esenzione di taluni reati di bancarotta (espressamente, i reati di bancarotta preferenziale di cui all’art. 216, terzo comma L.F. e di bancarotta semplice di cui all’art. 217 L.F.). Nello stesso solco, sono ovviamente da leggere le estensioni accordate dalle modifiche della legge fallimentare agli atti esecutivi di un accordo di ristrutturazione omologato ex art. 182 bis L.F.
La norma, evolutasi appunto nel corso delle varie riforme, stabilisce che non sono soggetti ad azione revocatoria fallimentare gli atti, i pagamenti e le garanzie sui beni del debitore, purché posti in essere in esecuzione di un piano (di fatto, il business plan più sopra citato) che: (i) appaia idoneo a consentire il risanamento dell’esposizione debitoria dell’impresa in crisi (…) e (ii) la cui fattibilità sia attestata da un esperto con certi requisiti di professionalità ed indipendenza che, tra l’altro, deve anche attestare la veridicità dei dai aziendali.
Non vi è chi non veda come la legge abbia ritenuto preponderante, rispetto a prima della riforma, la conservazione della continuità aziendale. La norma, di fatto, sacrifica in parte gli interessi della massa dei creditori “estranei” (che sarebbero tutelati dalle iniziative recuperatorie delle revocatorie fallimentari) all’interesse di favorire il perseguimento di un piano di recupero aziendale; tale interesse viene sostenuto incentivando (o “non disincentivando”) il creditore ad aderire al piano stesso e a dar corso agli eventuali atti che gli sono richiesti, a mezzo della stabilità ed inattaccabilità dell’atto compiuto.
Già all’alba dell’introduzione del “piano di risanamento”, i commentatori si sono posti comunque il problema della sua eventuale sindacabilità da parte del giudice investito del contenzioso revocatorio, nel quale il creditore convenuto si difenda, invocando la “scriminante” del piano ex art. 67, terzo comma, lettera “d”, L.F.
Ci si può chiedere, come primo approccio, se il potere del giudice debba fermarsi ad una valutazione di tipo “formale”, se non addirittura “formalistico”.
In altri termini, il giudice sarebbe tenuto a verificare la sola aderenza del piano e dell’asseverazione ai requisiti formali previsti dalla legge. In questo senso, il giudice dovrebbe limitarsi a controllare, ad esempio, se l’asseverazione conclude nel senso della fattibilità del piano, se non sussistono cause di incompatibilità della persona dell’asseveratore, se l’asseveratore ha dichiarato la veridicità dei dati aziendali e simili).
In sostanza, l’azione revocatoria, esercitata dal curatore dell’impresa fallita già oggetto di un piano di risanamento, evidentemente non andato a buon fine, e destinata a fulminare atti compiuti a vantaggio di un creditore, sarebbe paralizzata dal creditore solo con la dimostrazione dell’esistenza del piano con crismi formali imposti dalla legge e, aggiungeremmo, del fatto che l’atto scrutinato fosse rientrato nel novero di quelli previsti dal piano stesso.
Questo tipo di approccio non è stato però considerato coerente dalla dottrina, rispetto alla funzione della norma di protezione ed alle finalità perseguite. A più d’uno, tra gli operatori, è parsa inaccettabile l’idea che gli interessi della massa passiva dell’impresa fallita, tutelabili con l’esperimento di azioni revocatorie, possano essere accantonati sulla base di considerazioni formalistiche, vale a dire la mera presentazione di un documento di piano, sia pure “validato” da un esperto, nel rispetto di determinati “paletti” formali normativi.
Si è quindi discusso quale sia lo spazio di sindacabilità che il giudice possa riservarsi, se chiamato a decidere sull’operatività della “esimente” del piano di risanamento nell’ambito di un’azione revocatoria fallimentare.
A questo riguardo, sono ravvisabili diverse interpretazioni, orbitando gli operatori tra posizioni che sottolineano la necessità di una valutazione di coerenza logico-sistematica e posizioni che si spingono a richiedere una valutazione del merito della bontà del piano, eventualmente con l’ausilio di CTU ad hoc.
Ad una parte degli interpreti è parso prudente rispondere al quesito, mutuando gli stessi concetti adottati dalla Cassazione in relazione al piano concordatario. Nella giurisprudenza più recente sussistevano contrasti sulla demarcazione del sindacato del giudice sulla “fattibilità” della proposta concordataria. Dopo pronunce di contenuto diverso [3], le Sezioni Unite della Suprema Corte sono intervenute in materia, con la citatissima sentenza n. 1521 del 23/1/2013. Le S.U. hanno escluso che la mera presenza di un’attestazione del piano esima il giudice da una sua valutazione; inoltre, la valutazione operata dal giudice ha ad oggetto la “fattibilità giuridica” e l’effettiva idoneità della proposta concordataria ad assicurare il superamento della crisi e il riconoscimento di una soddisfazione ai creditori (“fattibilità economica”).
Si tratta di una valutazione che non si spinge certo alla convenienza (che peraltro varie pronunce hanno confermato essere – nel concordato preventivo – elemento che rimane nella sfera esclusiva di valutazione del creditore votante) e che, pur presentando comunque caratteri di una certa profondità, rimane a nostro avviso permeata pur sempre solo dall’esigenza di evitare la sopravvivenza di proposte che non siano concretamente attuabili o che violino o aggirino i principi generali di responsabilità del debitore.
A questo riguardo, va sottolineato il richiamo introdotto già nel 2012 alla circostanza che l’esperto asseveratore debba attestare la “fattibilità” e non più la sola “ragionevolezza” del piano ex art. 67, terzo comma, lettera “d” L.F. Esso costituisce un elemento importante a riprova del fatto che, anche in riferimento ai piani di risanamento, uno dei requisiti cardine da valutare sia la concreta attuabilità del medesimo.
Arrivando ai giorni nostri, finalmente la Corte di Cassazione si è espressa con la sentenza n. 13719/2016, depositata il 5 luglio 2016, direttamente sulla sindacabilità da parte del giudice del piano di risanamento attestato ex art. 67, comma 3, lett. d) della legge fallimentare.
Quantunque il piano di risanamento asseverato, come sopra riferito, attribuisca anche delle significative esenzioni da alcuni reati fallimentari, il caso discusso avanti la Corte di Cassazione riguardava un tema estraneo al diritto penale.
La Corte (che ha esaminato un caso riguardante un piano predisposto nella vigenza del “vecchio” testo dell’art. 67, terzo comma, lettera “d” della Legge Fallimentare, quindi ancora senza il riferimento alla “fattibilità”) non si è espressa specificamente su un caso nel quale il tema è stato sollevato nell’ambito di un’azione revocatoria svolta in via principale, ma ha espressamente dichiarato applicabili i principi evocati ai giudizi revocatori. La Cassazione ha deciso sull’impugnazione di un decreto del Tribunale di Roma che, decidendo sull’opposizione allo stato passivo di un fallimento, aveva dato ragione ad una banca che lamentava il mancato riconoscimento della natura pignoratizia di un proprio credito in sede di ammissione al passivo; tale credito derivava da un finanziamento assistito da garanzia reale, quest’ultima concessa dalla società poi fallita in esecuzione di un piano di risanamento asseverato. L’enunciato dalla Corte, pur nella sua sinteticità, ha il pregio di identificare gli elementi fondanti di un valido piano di risanamento (e relativa attestazione) e, quindi, quantunque non riferito ad una controversia avente ad oggetto un’azione revocatoria fallimentare, esso permette di mutuarne agevolmente i principi anche ove la valutazione del piano sia sollevata in sede di giudizio revocatorio.
Il Tribunale di Roma, accogliendo l’impugnazione della banca, aveva ritenuto: (i) che la concessione del pegno in discussione costituisse atto esecutivo di un piano di risanamento asseverato, (ii) sostanzialmente, che non fosse necessario il giudizio di veridicità dei dati contabili, economici e finanziari sottesi al piano da parte dell’asseveratore (ricordiamo che la vecchia formulazione dell’art. 67 L.F. non la prevedeva espressamente) ed aveva inoltre ritenuto (iii) che la banca, in quanto terzo estraneo alla formazione del piano stesso, non avesse l’onere di verificare individualmente il giudizio di fattibilità del piano reso dall’attestatore.
La Cassazione non ha censurato il Tribunale di Roma in merito al giudizio di veridicità dei dati contabili, in quanto tale giudizio non era – appunto – previsto dall’art. 67 nella formulazione vigente all’epoca del piano. Ha invece cassato il decreto su un altro aspetto, stabilendo che il Tribunale (e, quindi, in via preventiva, il creditore) deve valutare l’attuabilità del piano di risanamento.
Riprendendo il ragionamento già operato dalla Suprema Corte a proposito dei concordati preventivi [4], la Cassazione ha stabilito che il giudice è tenuto sia al controllo della c.d. “fattibilità giuridica” che alla verifica della “fattibilità economica”. Per quest’ultima, secondo la Corte, s’intende la sussistenza o meno di una manifesta inettitudine del piano a raggiungere gli obiettivi prefissati.
Di fatto, la Cassazione non ha enunciato un principio particolarmente rivoluzionario, limitandosi ad applicare ai piani di risanamento un concetto, già ribadito, in maniera più articolata, a proposito dei piani concordatari. Per poter attribuire al debitore ed ai creditori i benefici di esenzione da revocatorie previsti dalla legge, non è sufficiente un piano “purchessia”, ma occorre che tale piano risponda a sia pur generali caratteristiche di idoneità intrinseca a consentire il risanamento indicato dall’art. 67 L.F. come il suo obiettivo.
Va detto, infatti, che la casistica di questi anni ha fornito diversi esempi di piani, sulla cui idoneità ad integrare il requisito di concreta fattibilità è stato lecito porsi più di un dubbio; si sono visti piani che davano per assunta l’adesione (indispensabile) di determinati creditori, senza che vi fosse alcuna prova della loro effettiva adesione; piani che basavano le previsioni di tenuta finanziaria sulla sussistenza di fidi che non erano stati ancora concessi; piani che si limitavano a esporre intenti di azioni straordinarie dell’imprenditore, senza fornire adeguate stime sul mercato o piani fondati su previsioni di crescita a due cifre del fatturato, dopo anni di diminuzioni, senza articolare adeguate motivazioni a giustificazione di un tale cambiamento di trend, e altri ancora.
Viceversa, secondo la S.C., il contenuto del piano di risanamento deve rivestire una certa dignità logico sistematica; l’impresa ed i creditori non possono limitarsi a fare affidamento su “un pezzo di carta”, ma devono verificare che le ipotesi indicate in tale pezzo di carta siano coerenti con gli obiettivi indicati e che i relativi ragionamenti siano correttamente esposti e non viziati da evidenti errori o superficialità. Di conseguenza, il giudice, se chiamato a valutare la sussistenza degli effetti “protettivi” di un piano di risanamento, non può limitarsi ad una verifica formale (o formalistica), sulla mera sussistenza documentale del piano e dell’asseverazione. Il giudice è tenuto ad un esame del piano (e dell’attestazione) che consiste in una valutazione di idoneità alla realizzazione degli attesi effetti risanatori, da condursi – ovviamente – sulla base della situazione e delle informazioni disponibili al creditore al momento della formazione del piano stesso.
In merito alla profondità dell’analisi, la Corte, ha però fornito un importante precisazione, che vale come un significativo “mitigant”: la valutazione di fattibilità economica deve limitarsi ad accertare l’assenza di una “manifesta inettitudine del piano”. Non è cioè richiesto un giudizio penetrante e di grande approfondimento, quale quello che potrebbe essere svolto dal creditore solo con l’ausilio di consulenti tecnici, o con gran dispendio di tempo e risorse.
La Corte, a nostro avviso correttamente, sembra quindi richiedere una verifica “high profile”, con uno standard di diligenza minimo, quanto alla valutazione di fattibilità economica del piano.
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In conclusione, dalla sintetica disamina sopra compiuta, pare di poter estrapolare una serie di orientamenti di principio.
È difficile negare che il giudice chiamato a giudicare un’azione revocatoria di atti, pagamenti o garanzie compiute o prestate in adempimento di un piano asseverato ex art. 67 L.F. abbia facoltà di sindacare il contenuto del piano stesso. Questa valutazione emerge in maniera chiara sia se si considerino gli orientamenti in tema di proposta concordataria, sia se ci si riferisca al recente precedente di Cassazione sui piani stessi. Del resto, dato che l’esenzione da revocatoria discende dai requisiti del piano, tra i quali la legge menziona espressamente “l’idoneità” (il piano deve “apparire idoneo” a consentire il risanamento dell’impresa), è arduo immaginare una valutazione di apparente idoneità del piano al risanamento che non si spinga a considerarne il contenuto.
D’altro canto, la giurisprudenza, quantomeno allo stato, non pare essersi spinta a richiedere una valutazione eccessivamente “invasiva”. L’unica pronuncia specifica di Cassazione nota, resa sia pure in un caso di ammissione al passivo con privilegio, prescrive una verifica di “non manifesta inidoneità”, che sembra non addossare al giudice (e – in termini pratici – al creditore prima ancora che al giudice) un onere di verifica penetrante nel merito.
Chiaramente, occorrerà seguire con attenzione l’evoluzione della giurisprudenza, per verificare se questo iniziale orientamento verrà confermato da altre sentenze di legittimità, auspicabilmente rese in relazione a giudizi revocatori. Presso le corti di merito sussistono oggi diversi giudizi aventi ad oggetto azioni revocatorie, anche con petitum significativo, avviate da curatele di imprese fallite pur in relazione ad atti teoricamente “protetti” da piani di risanamento; sarà interessante vedere se almeno parte di tali giudizi approderanno avanti la Suprema Corte e se ciò porterà ad un consolidamento o a un revirement dell’orientamento emergente dalla prima pronuncia.
[1] Cfr., ad esempio, Trib. Foggia sentenza n. 2681/2001.
[2] Com’è noto, la fattispecie in questione consiste, secondo autorevole dottrina e taluna giurisprudenza, in una responsabilità extracontrattuale dei creditori bancari che, pur sapendo o potendo sapere che il debitore versa in situazione di insolvenza irreversibile, ne ritardano il fallimento, con ciò cagionando un danno agli altri creditori ignari. Questi ultimi possono patire un danno, se anteriori, per il maggior squilibrio tra passivo e attivo creato dall’aggravemento dell’insolvenza (vedendo quindi ridotte le proprie possibilità di soddisfacimento rispetto al momento in cui il comportamento “abusivo” è iniziato) o, se posteriori, per aver “fatto credito” all’impresa decotta, con ciò aumentando la propria esposizione rispetto a quella che si sarebbe cristallizzata nel caso in cui il fallimento fosse stato dichiarato nell’immediatezza dello stato d’insolvenza, facendo incolpevolmente affidamento sull’apparente “tenuta” del debitore, giustificata dall’inazione del creditore responsabile o addirittura dal suo sostegno al debitore medesimo. Nei fatti, le più note azioni risarcitorie per abusiva concessione del credito, dopo un iniziale successo in primo grado, sono state “fermate” da pronunce in appello o Cassazione, più per ragioni legate al difetto di legittimazione del curatore che al merito (ad es. si veda App. Bari, 17/6/2002 n. 499; Cass. nn. 7029, 7030, 7031 del 28/3/2006).
[3] Ad esempio, si vedano Cass. n. 18864/2011, Cass. n. 21860/2010, Cass. n. 3586/2011.
[4] La sentenza in oggetto cita sia la pronuncia delle S.U. anzidetta, che la successiva Cass. n. 11497/2014.